Perché non riusciamo a toglierci dalla testa Born With A Broken Heart di Damiano David
Dopo aver macinato stream per settimane, dopo aver toccato i piani alti delle classifiche radiofoniche di Francia, Polonia, Belgio, Portogallo, Estonia (top 10) e Stati Uniti, Canada, Danimarca, Lituania e Guatemala (top 20), da ieri Born With A Broken Heart di Damiano David è ufficialmente la canzone in assoluto più passata dalle radio italiane. Per arrivare a questo risultato ha dovuto mettere alla prova l’immagine di sé che aveva consolidato presso il suo pubblico, esplorare nuove capacità, e fare uso di un aspetto della musica tanto sottovalutato quanto pervasivo. Il tempo.
Il tempo, lo diamo troppo per scontato, come fosse un dettaglio inevitabile ma privo di significato. Al contrario, è importantissimo. Dopotutto, pensaci bene: si tratta della sola dimensione della realtà che condividiamo tangibilmente con la musica, che per il resto resta un’arte impalpabile. E infatti, il tempo è uno dei fattori che più incide sulla memorabilità delle canzoni.
A questo punto, potrei tirare fuori qualche vecchio studio che, grazie a test di laboratorio su qualche centinaio di persone, ha stabilito che un tempio “medio” intorno ai 120 BPM (battiti per minuto) è ideale per quasi tutti i tipi di pubblico e di genere musicale. Ma nella psicologia dell’ascoltatore è altrettanto importante ciò che si distingue dalla massa, l’eccezione ben calcolata. Così, in un oceano sterminato di canzoni mid-tempo che si muovono tutte con lo stesso passo, una buona canzone può farsi notare se va piano o se va veloce. Nello specifico, Born With A Broken Heart è una canzone che corre, visto che di BPM ne ha ben 172. Intorno a questa cifra, se indaghiamo, troveremo anche altri successi enormi degli ultimi anni: Blinding Lights di The Weeknd, Stay di The Kid LAROI e Justin Bieber, e As It Was di Harry Styles.
In particolare questo tormentone globale del 2022 ha molte caratteristiche in comune con la canzone di Damiano: dalla produzione vocale alla struttura, dall’arrangiamento di chitarre al synth aspro che suona in contrappunto, fino al videoclip cantato e danzato con forti ispirazioni dal musical. Ma, lungi dal voler passare in rassegna tutte le somiglianze – che comunque non sminuirebbero di una virgola il lavoro di nessun team produttivo – la vera chiave di entrambe sta proprio nel tempo svelto e nelle miriadi di contraddizioni che questo apre fin dal primo secondo. Nei loro testi, sia Harry sia Damiano cantano delle loro fragilità, mentre il tempo scorre (in apparenza) lieto e spigliato: viene da chiedersi se questo battito accelerato sia quello di una persona che corre felice, o la tachicardia di chi sta avendo un attacco di panico. Se volessimo darci una risposta, dovremmo forse dire: tutte e due le cose.
L’ambiguità è il frutto più pregiato di un contrasto estetico ben riuscito. Che altrimenti può risultare in un gran pasticcio. Far coesistere gli opposti, invece, aumenta le letture, e quindi le possibilità per qualsiasi ascoltatore di immedesimarsi nella canzone che gli passa davanti. Per riuscirci, forse, basta abbracciare la contraddizione dall’inizio alla fine: per esempio, cantando in modo sofferto e intenso una melodia brillante e chiara – anche in questo Harry e Damiano sono ineccepibili. Born With A Broken Heart, insomma, si azzarda a mescolare speranza e smarrimento, consolazione e ferita, desiderio e alienazione, forza e vulnerabilità: come aspirava a fare Phil Spector nelle sue sinfonie da due minuti, il pop di livello cerca di contenere tutto e il suo contrario. Ma non sempre ce la fa. La scommessa di Damiano, invece, riesce.
Negli anni della trasparenza sulla salute mentale, il ruolo della popstar è più delicato che mai: mentre devono fare, legittimamente, i conti con le proprie sfide, gli Harry e i Damiano del mondo hanno il compito ingrato di offrire una piattaforma d’atterraggio empatico per i problemi e i traumi di milioni di ascoltatori. Le loro facce pulite e i loro sorrisi (di nuovo, a contrasto con i corpi estesamente tatuati da “brutti ceffi”) sembrano fatti apposta per rappresentare un conflitto. Ma poi è nelle canzoni che si può davvero stabilire un contatto con il guazzabuglio emotivo del loro pubblico, non necessariamente giovanile. Se il pop di una volta era chiamato “bubblegum” per indicarne la dolcezza quasi stucchevole, il sapore un po’ artificiale e la qualità compulsiva, oggi si potrebbe parlare di pop ansiolitico. Di quelli – si sa – può esserci bisogno a tutte le età.
Born With A Broken Heart, insomma, ha l’afflato di una canzone adolescenziale ma ha l’ambizione di parlare a tutti. Anche senza consultare le liriche, questo si nota già nel contrasto tra interpretazione, melodie e nel dualismo estatico-ansiogeno del tempo svelto. A maggior ragione ci si fa caso se si mettono le mani per un secondo nel giro armonico del brano. I suoi accordi di base, specie nel memorabilissimo ritornello, sono quelli (gradi I-IV-V) che dal blues al punk hanno fatto la fortuna di migliaia di composizioni semplici ma efficaci. Da Blitzkrieg Bop a Twist And Shout, da Message In A Bottle a The Tide Is High, questi tre semplici accordi sono la storia della canzone angloamericana – tradizione a cui il brano di Damiano appartiene al 100%, a prescindere dal passaporto. Eppure, anche dentro questa gabbia scintillante, si può esprimere qualche sottigliezza emotiva. Per comprendere la coesistenza di malinconia ed eccitazione che si può annidare in questa sequenza così palesemente “maggiore” di accordi si può citare un esempio illustre come Bizarre Love Triangle dei New Order.
Insomma, mentre qualcuno ancora si pone la domanda oziosa se i Måneskin fossero “rock oppure no”, Damiano ha ottenuto il primo grande successo solista con una canzone che usa il pane e salame degli accordi rock per esprimere un’emozione ambivalente. E fa tutto questo nel modo più pop e contemporaneo che ci sia. A parte per un ultimo trucco, che dimostra la crescita artistica del romano: la modulazione nel ritornello finale. Per modulazione si intende il cambio di tonalità: è come se la canzone si alzasse dalla seggiola su cui siede per spostarsi su un altro punto, senza però cambiarsi mai il vestito; a quel punto magari una nuova luce darà nuovo colore alla canzone. Ed è quello che succede qui. Senza tanti fronzoli, senza usare accordi di appoggio, la parte finale dell’inciso (“baby you can’t fix me”) viene ripetuta al termine del bridge, e così l’ultimo accordo del precedente trio (la dominante, Fa diesis) diventa ex abrupto il primo del nuovo giro (la tonica).
Bisogna aggiungere che la modulazione è un espediente passato decisamente di moda e, anzi, da molti è ritenuto di cattivo gusto e naif perché associato a grandiose power ballad da pop-divas come All By Myself, considerate l’apice del sentimentalismo. Eppure il suo effetto è innegabile: non serve conoscere una briciola di teoria musicale per accorgersi che l’ultimo ritornello cantato da Damiano è più brillante, più energico dei precedenti. E anche se questo particolare cambio di tonalità imperniato sulla dominante non è forse il più complesso, cantare d’un tratto la stessa melodia ma sette semitoni più in alto non è neppure un’impresa comune. Letteralmente, perché nessuno sembra più disposto a esporsi a una tecnica tacciata di essere poco “cool”. Questa è la vera maturazione di Damiano: trovare la sua prima mega-hit da solista rendendosi vulnerabile, mettendo sul tavolo il capitale di fighezza tenebrosa guadagnato in tre-quattro anni di celebrità, giocandoselo per mettersi al servizio della canzone. Capendo, insomma, come deve essere fatta una popstar degli anni ‘20.