Perché non riusciamo a toglierci dalla testa Alfonso di Levante
Le cover sono un argomento delicato: quando si riprende in mano una canzone, specie una con una certa fama, superare la linea tra omaggio e oltraggio è facile. Se stesse a me decidere, andrebbe imposta una moratoria di 3 anni sulla pubblicazione di cover, per creare un bisogno genuino, per convincere tutti a praticare questa nobile tradizione con il buon senso che merita.
Però, quando un artista coverizza sé stesso, che si fa? Questa settimana Levante ha pubblicato una riedizione del suo primo album, Manuale distruzione (originariamente uscito nel marzo 2014), che presenta la medesima tracklist, completa di collaborazioni su ogni traccia, tranne una – ci arriviamo. Non è la prima volta che assistiamo a operazioni simili. Senza dover abbandonare le nostre assolate sponde, cinque anni fa i Subsonica rivisitarono il loro secondo album, Microchip emozionale; cinque anni prima, nel 2014, gli Afterhours fecero la stessa cosa con il loro classico Hai paura del buio? In entrambi i casi, con un nutrito cast di ospiti e amici; in entrambi i casi con una voglia esplicita di rifare tutto da capo.
Levante, invece, ha scelto un’altra strada. Le canzoni di questa riedizione decennale sono tendenzialmente molto rispettose della forma originale, quasi delle copie identiche. Come se l’artista ci stesse comunicando un desiderio non di riscrivere la sua storia, bensì di inserircisi nuovamente, ma portandosi dietro quanto acquisito negli ultimi dieci anni: una maturità artistica, e un mondo di relazioni professionali e sociali con amici e colleghi.
L’arrangiamento (cioè quali strumenti suonano quali parti della canzone) è virtualmente immutato. Anche la scrittura e la composizione sono pressoché intatte: le idee di Levante restano. Quel che cambia tra le versioni 2014 e le versioni 2024 è tanto invisibile quanto tangibile e ci permette di dare un’occhiata a una parte del lavoro musicale, la produzione, l’ingegneria del suono e il mix-master, che giustamente riserviamo ai tecnici. Da una parte, nel nuovo Manuale distruzione si distinguono i livelli e i colori delle tracce strumentali: con il produttore (e co-autore) originale del disco, Alberto Bianco, c’è in regia anche Antonio Filippelli, fidato collaboratore degli ultimi due album di inediti di Levante.
Il risultato è un disco che suona come una versione rinfrescata dell’originale, ma che non tradisce nulla della sua struttura, del suo messaggio, del suo aspetto fondamentale: una differenza sottile, ma palese. Dall’altra parte, di diverso c’è la voce, quella di Levante in primis e quella dell’ospite di turno: anche in questo caso le topline restano virtualmente (ma non interamente) immutate, se non per qualche abbellimento ritmico e melodico, ma la differenza sta nei colori che ciascun timbro apporta. Ovviamente, le impostazioni e il registro di ciascun ospite apportano novità evidenti, ma anche il canto di Levante non può che risultare alterato rispetto al 2014: come dicevamo parlando di Marco Mengoni e della sua interpretazione de L’essenziale a Sanremo, questo mutamento è completamente naturale e fisiologico, ma è anche frutto di un processo di crescita e cambiamento di approccio al proprio strumento (la voce). E proprio la hit del disco, l’unica canzone che Levante ha deciso di reinterpretare da sola, ci permette di capirlo al meglio.
Intanto per cominciare, al semplice ascolto in streaming la nuova Alfonso sembra la traccia più rimaneggiata delle tredici. Tra i particolari modificati, il più facile da scovare è nell’ultimo bridge: “Sono dieci anni che non ti conosco”. Altrettanto ovvio è il rubato (cioè, il rallentamento del tempo) nell’ultimissimo verso. Meno lampanti sono altre scelte peculiari di ritmo e intonazione, che ben conosce chiunque abbia avuto la fortuna di sentire dal vivo l’artista in questi anni e che fanno quindi parte di una versione parallela di Alfonso, quella live. Nel complesso, se si aggiunge la pasta vocale più matura di Levante, si ottiene un’esperienza chiaramente unica, simile appunto a quella di un concerto.
Abituati a concetti come “sul palco canta come in studio” o “in concerto sembra di sentire il disco”, ci possiamo dimenticare facilmente che ogni interpretazione dal vivo è prima di tutto una messa in scena dell’umanità dell’artista, una fotografia effimera di una sostanza sonora in continua evoluzione. Da spettatori sappiamo “cosa” l’artista canterà/suonerà, perché in quel “cosa” ci sono la scrittura e la composizione, concepite prima ancora di entrare in studio. E abbiamo un’idea di “come” l’artista canterà/suonerà, perché l’incisione e la produzione fruite su disco ci restituiscono un’immagine delle intenzioni stilistiche. Ma soltanto se ci siamo assuefatti alla pratica di esibirsi “sulla base” – cioè su tracce strumentali spesso marginalmente diverse da quanto registrato in studio – possiamo aspettarci una corrispondenza biunivoca tra palco e Spotify. La realtà, fortunatamente, è imperfetta.
Se siamo attratti dai brani di Manuale distruzione è anche per come li abbiamo mandati a memoria da dieci anni a questa parte, per l’impasto sonoro e l’arrangiamento immortalati nell’album: il cambio di tempo che sospende la seconda metà di Farfalle non cambia con l’ingresso di Francesca Michielin; l’acustica marcia alt-rock di Non stai bene non viene turbata dai Santi Francesi; il rullante pugnace di Memo non perde risolutezza dalla presenza di Francesco Bianconi; il riff metallico di Nuvola non viene ammorbidito da Emma Nolde. E nemmeno l’ukulele brillante che introduceva Alfonso scompare nella nuova incisione. Queste sono parti integrali dell’esperienza di ascolto, e Levante non ha voluto scioccare il suo pubblico.
Ma ancora più a fondo, una canzone ci attrae per quanto contiene fin da principio, per la sua idea platonica, che volendo possiamo scrivere su uno spartito, che possiamo concepire come linee di note che vanno in su e in giù o come successioni di accordi che ci danno le coordinate dell’ascolto, che possiamo stilare come righi di testo poetico. Cioè, tutti quegli elementi che noi stessi possiamo reinterpretare, che possiamo fare nostri cantando, coverizzando, ripetendo in coro.
Se Alfonso, per esempio, vive ancora nelle nostre teste è prima di tutto per gli elementi messi su carta più di dieci anni fa da una pressoché sconosciuta Claudia Lagona, tutti efficacissimi ganci per le nostre orecchie. Un giro di tre accordi (Sol, La minore, Do) talmente essenziale e chiaro da sembrare una freccia segnaletica; un primo inciso vocale ad-lib, cioè senza parole (tu du du, du ru du ru du), che ci orienta nella melodia da subito; il ritorno degli ad-lib che, con il proseguire del racconto suonano sempre più ironici e a contrasto con lo stato d’animo della voce narrante; la scena inquadrata dal testo, di una festa nella quale “l’imbarazzo è palese”, a maggior ragione quando le cose nella vita non girano per il verso giusto. E poi c’è l’hook degli hook, una delle frasi che non è esagerato ritenere tra le più influenti del pop italiano degli ultimi dieci anni, quattro parole che hanno definito un cambiamento di gusto (forse anche lo spirito dei tempi): “che vita di merda”, dove la parolaccia è liberatoria sia per chi l’ha ripetuta a squarciagola da sotto il palco, sia per la protagonista del brano – e possiamo immaginare anche per Levante stessa.
Quando si parla di auto-cover, non è scontato che un artista riprenda fedelmente il proprio repertorio: chiunque abbia visto Bob Dylan dal vivo sa che riconoscere la canzone che di volta in volta viene presentata in scaletta è quasi un gioco enigmistico a parte, tanto il cantautore americano molesta le sue stesse melodie, liriche e arrangiamenti. A volte, reincidere da capo una canzone, o un disco intero, è una scusa per ristabilire quelli che un artista può percepire come errori di giovinezza, svarioni stilistici; a volte è una scusa per farsi un vestito completamente nuovo, e provare a ingannare la sabbia nella clessidra. Dylan ha pur sempre 60 anni di storia alle spalle con cui giocare. Levante ne ha di meno, ma pesano ugualmente sulla bilancia. Quello che lei può dimostrare, dieci anni dopo il suo esordio, è che le parole e le note di dieci anni fa restano attuali, nonostante il passare del tempo. Che non c’è nulla da riparare, nulla di cui vergognarsi. Al contrario, c’è molto di cui andare fieri.