Perché Montecristo è un gran ritorno per Jovanotti
La storia della musica è talmente innamorata del concetto di ritorno da aver coniato un’immagine che prende il nome dall’inglese ma che al momento – per la cronaca – spopola soprattutto in Corea: il “comeback”. Non serve necessariamente una lunga assenza dalle scene per definire in questo modo il rientro dell’artista in questione: bastano il senso di attesa del pubblico e la promessa di qualcosa di familiare e qualcosa di nuovo (il pop, in una parola). Semmai, il “comeback” segna quello che oggi chiameremmo il passaggio a un’altra “era” (Taylor Swift docet): è l’autorizzazione a girare pagina. Tuttavia, una lunga assenza può aiutare: il ritorno di Elvis Presley alla musica dopo l’esperienza del cinema fu un evento, immortalato dallo speciale televisivo del 1968 (al quale è dedicato un bel documentario su Netflix, peraltro). E non era nemmeno il primo ritorno del re – ogni riferimento a Tolkien è puramente casuale – che nel mezzo della sua ascesa volò in Germania per il suo servizio militare. Anche in Italia, nei lontani e infelici tempi della leva, gli artisti “scomparivano” per qualche tempo, mentre oggi a questo sono abituati ormai solo i fan del k-pop. Una delle nostre popstar in pausa-naia, che fece il suo turno in caserma alla fine degli anni ‘80, è tornato un’altra volta proprio questo venerdì, con un “comeback” che è più rilevante di quanto non possa sembrare: parlo di Lorenzo Jovanotti.
Di questi tempi un artista non è mai veramente “off”. Anche un veterano come Cherubini, che inventa e insegue progetti al proprio ritmo e alle proprie condizioni, ha aderito implicitamente alla cultura della comunicazione continua e, anzi, in qualche modo ne è un pioniere. Ma la quantità straordinaria di contenuto disponibile al pubblico finisce per avere la meglio: ogni venerdì escono migliaia di nuove canzoni, ogni giorno c’è un nuovo volto da memorizzare; in questo senso, una nuova uscita discografica non è solo “altra musica”, ma è un’occasione per ripresentarsi. Anche in questo Jovanotti ha anticipato tutti, almeno in Italia: dalle canzoni ai videoclip, dalle grafiche ai messaggi, ogni album ha distinto un’era dall’altra, e così ha aiutato a scandire la sua storia (e fissarla meglio nella memoria del pubblico). Insomma, la tentazione di citare LL Cool J (“don’t call it a comeback”) ci sarebbe, ma non nell’ecosistema mediatico del 2024, e sicuramente non dal punto di vista artistico. Perché Montecristo, il singolo di cui stiamo parlando, volta decisamente pagina, e dall’immagine del ritorno è connotata profondamente.
Di nuovo, l’assenza dalle scene non deve essere obbligatoriamente lunga per poter avere un “comeback”. E del resto, Jovanotti non si è fermato mai: soltanto venerdì scorso aveva lanciato un’altra traccia da lui scritta per l’ormai sodale Gianni Morandi, un’altra popstar allontanatasi per la leva, ai suoi tempi, e peraltro protagonista di parecchi ritorni in scena. Ma i due anni trascorsi dall’ultimo album, Il disco del sole, possono addirittura sembrare un’era geologica nell’attuale panorama di pubblicazioni musicali. Anche se non lo fossero, però, la canzone stessa vuole suggerire una cesura (“Tu sei la luna”, dice dopotutto il ritornello). E il video pubblicato in concomitanza può aiutarci a cogliere questa distanza – Jovanotti è pur sempre un figlio dell’era dei videoclip.
Trascorsa la lunga estate dei concertoni sulle spiagge, l’artista si ritrova su una battigia, ma questa volta sferzata da un vento freddo e solitaria: non ci sono feste davanti al mare, a malapena c’è il sole, e la dimensione cosmica che dominava pure le canzoni intime lascia lo spazio per una riflessione decisamente più solitaria. A produrre c’è Dardust, che già aveva lavorato con Jovanotti sul brano Nuova era dall’EP Jova Beach Party. Questa “nuova era”, però, ha altre coordinate e nuovi personaggi: non è “un poeta” né “un profeta” al centro della scena, ma un personaggio piuttosto complesso e oscuro, un antieroe a tutti gli effetti: il Conte di Montecristo, creato da Alexandre Dumas (che nel brano riceve una menzione esplicita, come un rapper che riceve uno “shout-out” nel mezzo del verso di un collega).
Nelle scorse settimane l’artista aveva depositato alcuni indizi sul suo profilo Instagram, sotto forma di due playlist: lo sbarco e l’evasione, apparentemente legate solo alla preparazione delle setlist per il futuro nei palazzetti, contenevano già due sottintesi riferimenti alla storia di Edmond Dantès. Quest’ultima playlist, in particolare, ora rinominata “Jovanotti – Montecristo”, potrebbe forse essere usata come mappa del tesoro per pescare elementi subliminali di questo nuovo singolo. Il personaggio sembra “meno sereno di un tempo”: il conte, citato in Montecristo, non è un esempio edificante, non è un guru; per quanto porti con sé valori di dignità e libertà, è anche il temibile e spietato esecutore di una vendetta inevitabile ma crudele, il fautore di una giustizia sommaria e personalista. Non direi certo che l’analogia di Lorenzo arrivi addirittura ad appoggiare moralmente una faida, ma il profilo di questo nuovo protagonista ha contorni amari: è un sopravvissuto, un avventuriero che è stato sbandato dalla vita e ha incontrato la sua “sirena”, ma resta appigliato tenacemente al suo proposito iniziale, qui raffigurato da un patto con sé stesso, stipulato nel ‘76 (“diventa quello che sei, non come vogliono loro”).
Un altro indizio che potrebbe trovarsi in quella playlist? La sequenza di brani orchestrali, come quelli dal disco live registrato nel 2011 al Teatro di Taormina. Anche Montecristo è un brano ad alto tasso orchestrale: Faini, che di arrangiamenti per larghi ensemble è esperto e con il gusto neo-classical ha avuto molti incontri nella sua carriera da musicista solista, ha predisposto per Jovanotti un tappeto di archi e synth che dice tanto. Sicuramente ci presenta l’atmosfera del nuovo capitolo cherubiniano, che potrebbe avere una temperatura più fredda del precedente.
Ma ci racconta qualcosa anche nella sua trama invisibile, quella degli accordi che si susseguono: il giro della strofa può ricordare alla lontana Don’t Let Me Be Misunderstood, scritta da Bennie Benjamin, Horace Ott e Sol Marcus, ma resa nota da Nina Simone e dagli Animals. In particolare per l’accordo che chiude l’anello, un accordo maggiore “fuori luogo”, che trasforma la tonalità da minore naturale a minore armonica (lo diciamo per chi fa caso a questo genere di cose). In pratica, l’innalzamento di un singolo semitono di una sola nota è sufficiente ad aprire un vuoto che ci fa sentire in terra straniera (la seconda metà della scala minore armonica suona “arabeggiante”, direbbe qualcuno) e che accumula un’energia potenziale immensa trovandosi nel punto più lontano possibile dalla casa-base. La forza viene poi scaricata quando il loop precipita inevitabilmente di nuovo al punto di partenza, dando al movimento un senso di direzione ineluttabile. Un destino, si direbbe, come quello siglato in quel famigerato “patto” pronunciato “un giorno dell’estate del ‘76”.
Come fai a sentire tutto questo, il grande spazio tra gli ultimi due gradi della scala, la direzione inarrestabile verso l’accordo di partenza? Forse non nella melodia cantata da Jovanotti ma negli archi haydniani di Dardust puoi percepire questa sfumatura implicita: come un cataclisma che viene allontanato da tutto e tutti, estraniato dalla comunità cui appartiene, questo accordo segna una linea ben precisa nelle note più alte del registro, dove i violini per metà scendono (da un Sol a un Fa#) e per metà salgono spingendo il La# “outsider” della tonalità dritto verso il Si che regge tutto quanto: i tragitti di questi incisi strumentali sepolti nell’arrangiamento, si può dire, scavano quel “tunnel nella rabbia” che infine straborda e sfocia, tornando al punto di partenza per regolare i conti.
Ma per scavare un tunnel serve pazienza: proprio come il Conte, nemmeno Jovanotti va di corsa, e ci fa aspettare un minuto e mezzo prima di arrivare al refrain. Un’eternità, secondo gli standard commerciali attuali. Ma Cherubini non è certo un artista avaro verso le aspettative del pubblico, tutt’altro, eppure per ogni battito c’è un levare. Così la seconda metà della canzone inserisce un beat che distribuisce in modo più efficiente questo carico e scarico di energia: sopra il medesimo giro di accordi, il brano cambia andamento e a questo punto “il conte si vendicherà”, costringendo tutti a ballare secondo il suo ritmo, ossessionato dall’obiettivo della sua missione.
Tornando agli indizi lasciati dall’artista, questa parte del brano presenta coordinate sonore afrocaraibiche nel groove, che potremmo risentire dentro la playlist “l’evasione” di cui sopra tra il beat di La bella vita – che è quasi una traduzione letterale di highlife (genere ghanese che ha influenzato buona parte della musica popolare dell’Africa occidentale) – e le vibe clubbare di Yalla Yalla o Io danzo. Ma il trattamento delle batterie, che le fa sentire distanti e quasi sommerse, ci porta da un’altra parte. Non sappiamo ancora quale: forse gli anni del sodalizio con Rick Rubin e delle sue produzioni scheletriche sono passati per sempre? (Gli archi lo suggerirebbero). Forse è tempo di nuove dimensioni club? Forse “la vendetta” di cui parla Jovanotti è solo una metafora i cui termini noni sono ancora del tutto chiari? (Si direbbe). Senza dubbio, una rotta è stata presa, la nave è salpata e al netto di tempeste e fortunali il capitano del vascello sa dove vuole arrivare. Resta solo da scoprirlo, il 31 gennaio, quando uscirà il nuovo album e il “comeback” sarà ufficialmente completato. Fino al prossimo viaggio.