Perché mezzo mondo non riesce a togliersi dalla testa Tuta Gold di Mahmood
Ogni anno Sanremo ha il suo vincitore morale, che fuori dal Festival ottiene il vero “premio del pubblico”: il premio dello streaming. Nell’era Amadeus un po’ tutti i concorrenti escono vincitori, ma qualcuno emerge sempre segnando qualche record. A pochi giorni dalla fine del Festival, Tuta Gold di Mahmood – per quanto esclusa dalla cinquina finale – ha già vinto questo riconoscimento. Mentre mette in vendita i biglietti per il suo primo concerto al Forum di Assago (il 21 ottobre) e guarda dall’alto i colleghi nella Top 50 italiana di Spotify, l’artista si gode anche un onorevolissimo 27esimo posto tra le canzoni più streammate al mondo nella piattaforma musicale. Tra le 100 canzoni più ascoltate al mondo, peraltro, Mahmood non è nemmeno il solo sanremese al momento: Geolier, Annalisa e Angelina Mango gli fanno compagnia. Ma cosa rende al momento così irresistibile Tuta Gold, con numeri che fanno rumore anche fuori dall’Italia?
In questo caso, non serve partire nemmeno dal principio. Chiunque abbia sentito la canzone la assocerà subito a una frase: “Cinque cellulari nella tuta gold, baby non richiamerò”. L’hook di Tuta Gold è assolutamente memorabile, quasi un meme musicale che funzionerebbe anche decontestualizzato. Incastonato all’inizio e alla fine del ritornello, questi versi intervengono a gamba tesa nel mood placido e malinconico della strofa, irrompendo con un nuovo disegno ritmico che “accende” il brano. L’elemento di sorpresa sonora, che spezza la monotonia, è la chiave di qualsiasi tarlo musicale. Ma, come nei migliori tormentoni, la novità non deve mai essere veramente nuova: l’orecchio desidera essere accompagnato, prima di farsi gettare nel burrone dell’ossessione.
Ad esempio, l’ossatura armonica di Tuta Gold resta coerente e piuttosto stabile per tutto il pezzo. Anzi, si potrebbe considerare un esempio magistrale di scrittura intorno a un loop di accordi sostanzialmente (non interamente) immutato nel corso del brano, perché le ripetizioni non pesano particolarmente all’ascolto. Come già in Soldi, la strofa è ancorata a tre accordi di base (qui: La minore, Re minore, Sol), ma la successione di Tuta gold ci fornisce da subito una direzione che non verrà mai tradita, una specie di bussola che ci servirà per non perdere l’orientamento nel ritornello. In questo caso, la direzione è quella irresistibile dal Sol al La (il VII e il i grado), un passaggio obbligato – proprio come i riti di passaggio e la crescita personale di Mahmood che, ricordando le compagnie giovanili, sa che non può restare ragazzo di quartiere per tutta la vita. La novità del ritornello, insomma, è moderata da questa confortevole tuta di accordi.
Un altro presagio del ritornello si sente nel pre-chorus (“Maglia bianca, oro sui denti, blue jeans” e oltre). È qui che si prepara il terreno mnemonico per un inciso che, preso da solo, potrebbe risultare troppo “diverso”, quasi scioccante. Allora, la voce di Mahmood comincia a intonare scale discendenti, abituando l’orecchio a ciò che verrà, quella discesa gradino per gradino da un La (“CINque”) a un altro La (“richiameRÒ”), un’ottava più in basso. Potremmo interpretare quasi psicologicamente questi movimenti opposti come vogliamo: da una parte il passo “in avanti” degli accordi, costante come il tempo che passa; dall’altra quello all’indietro della melodia, come la memoria che si fissa su momenti gioiosi e dolorosi della giovinezza.
A prescindere dalle interpretazioni, la scrittura (di Mahmood, Jacopo Ettorre, Francesco Catitti) è sicuramente molto intelligente. Il terzo verso di questa sezione lo dimostra: “Non era abbastanza noi soli sulla jeep” ci fa sentire un acuto proprio in quello che liricamente pare il momento più drammatico, cioè la presa di coscienza che tra la voce narrante e l’interlocutore c’è una distanza incolmabile, iniziata proprio in quel passato lontano. Lo strappo viene ribadito da composizione e arrangiamento: crescono i volumi di voce e orchestra, perché la posta in gioco si è alzata; un accordo (Fa) viene introdotto per rendere più categorica la traiettoria in avanti; e gli archi disegnano un inciso (La – Si – Do – Re: lo senti bene sotto le parole “sulla jeep, ma”) che mette un punto esclamativo.
Come se non bastasse, proprio in questo frangente Mahmood scende gli scalini a tre a tre grazie al suo fenomenale controllo della voce. Prima gli sentiamo saltare in giù una quarta giusta (Fa – Do: “abbasTAN-ZA”), poi il famigerato tritono (Si – Fa: “non soNO-BRAVO”), che non ha mai evocato il diavolo come vorrebbe una leggenda metropolitana, ma sicuramente non è neanche una passeggiata di salute: al karaoke si prevedono tante stonature, quante lingue intrecciate dalle consonanze di “cinque cellulari nella tuta”. Per certe acrobazie non basta la scrittura, ci vuole un talento da interprete non comune, che riesce a spezzare con il canto la ripetitività consolatoria del loop. E serve talento anche per non smarrirsi nelle trovate per nulla banali sparse dai tre autori: per esempio, nella seconda strofa arriva senza invito un mini bridge quasi rappato, con tutt’altro flow ritmico (“mai il nome, nome, nome”). Il motivo di questa scheggia impazzita potrebbe essere farci tastare le due anime del brano: quella più “street” a muso duro, e quella più dolce ed empatica. Sicuramente ci dimostra la bravura di Mahmood di alternare registri emotivi.
Anche la produzione (firmata MadFingerz e Katoo) ha un merito importante nel rendere l’ascolto ripetuto piacevole. Prima di tutto per via della timbrica: i suoni del brano di Mahmood sono freschi, cioè non sembrano sentiti e risentiti. Fai caso al synth spettrale che apre la canzone e accompagna la strofa, instabile e malcerto questo amarcord, come gli accordi sospesi che sta suonando. Gustosi anche i bassi che implodono nel ritornello, con un attacco molto percussivo ma una consistenza quasi liquida, forse un incrocio tra un classico Minimoog e un basso EDM.
Ma il dettaglio più geniale dell’intero brano (e probabilmente di tutto il Festival) sta nei cori che sentiamo nella seconda metà del ritornello. A ribadire i versi “Mi passerà, ricorderò i gilet neri pieni di zucchero, cambio numero” non sono voci aggraziate e melodiose, ma delle grida quasi da stadio. Il contrasto tra il miele vocale di Mahmood e queste parole semi-grugnite non sembra casuale, per quanto stimolante all’orecchio di per sé: potrebbe, per esempio, avere una funzione nell’economia della storia che Tuta Gold ci racconta. Secondo questa teoria, il narratore, lacerato tra il suo passato da ragazzo di strada e il suo presente nostalgico, chiama dalla sua parte le voci dei “frà”, come a testimoniare che anche lui resterà sempre un “frà”.
Insomma, nel punto musicalmente più intenso – anche i volumi ce lo dicono – Mahmood trova una sintesi tra gli alti e i bassi di una gioventù in compagnia e il ricordo combattuto della persona adulta: dalle esperienze ha imparato a (metaforicamente) chiudere il telefono in faccia al passato, e ce lo fa sentire. Come gli outfit hanno comunicato al pubblico televisivo un racconto – dallo streetwear della prima sera allo stile androgino della seconda esibizione fino allo stile ambizioso dell’ultima serata – così nella costruzione e nelle melodie, nel sound e nella performance, Mahmood ci ha illustrato un percorso di crescita. Se non lo avessimo capito prima, ora lo sappiamo per certo: Mahmood ha raggiunto la maggiore età artistica. E come noi – a quanto pare – se n’è reso conto anche qualcuno fuori dall’Italia.