Mi ricordo di Jovanotti nei Palasport. Me lo ricordo mentre cantava L'ombelico del mondo al cospetto di una platea trasversale di giovani, dai fan dei Metallica a quelli degli 883, che forse per la prima volta si ritrovava a ballare sulle stesse note musicali.
In realtà, per quanto mi riguardava, già un anno prima aveva contribuito a far cadere alcuni steccati in quanto anello di congiunzione tra l'amato Pino Daniele e il meno amato Eros Ramazzotti in un tour live negli stadi di mezza Italia. All'epoca il suo ecumenismo mi insospettiva, sentivo di non volere Ramazzotti nella mia vita e nel mio stereo, e Jovanotti in un certo senso ne era la causa. Perché aveva deciso di non farsi bastare la devozione di masse di idioti teen-ager e se n'era venuto a rompere le scatole a me, a un giovane che riteneva di ascoltare la musica vera, quella immacolata del jazz, del rock e del cantautorato?
In verità, già allora sul suo conto mi affliggeva la stessa domanda (sbagliata): qual era stata la frattura? O meglio, cos'era intervenuto a un certo punto di tanto potente nella vita di questo lungagnone col berretto alla rovescia a raddrizzare la corsa lanciatissima della sua carriera dalla fase Gimme Five a quella pop e riflessiva dei primi anni '90? La risposta che mi sono sempre dato (anch'essa sbagliata) è un grande boh.
Qualche volta ha provato lui stesso a parlarcene nelle interviste, nei libri, nei resoconti dei viaggi in Africa, tra le pieghe dei suoi testi, eppure tutta questa messa di informazioni mi è sempre parsa inadeguata a spiegare quel mutamento che appariva più profondo, anche se nel tentativo mai riuscito di cambiar nome da Jovanotti a Lorenzo già si intravedeva il tentativo del nostro di far emergere la categoria del vero ai danni del falso, di ciò che è autentico in luogo di ciò che non lo è. In apparenza, dunque, nulla rendeva plausibile una virata di tali proporzioni.
Ma se ho imparato qualcosa dall'età adulta è questo: se una domanda è sbagliata, lo sarà anche la sua risposta. La verità, infatti, è che non c’è stata nessuna frattura. Per capire il Jovanotti quasi cinquantenne dell’oggi, che riempie gli stadi e i palazzetti, bisogna liberarsi da certi presupposti ideologici. Semplicemente nel tempo Lorenzo è cresciuto e noi con lui, è maturato al punto da essersi pacificato con se stesso e il suo passato, così il suo nome è diventato un tutt'uno in cui vero e falso coincidono, in cui autenticità e rappresentazione coesistono nella stessa personalità: Lorenzo Jovanotti.
Tutto questo mi è stato chiaro soltanto l'estate scorsa, durante una tappa del suo tour negli stadi, quando ho visto i fan più attempati cantare e ballare come adolescenti sulle note di pezzi come Sabato e Estate, due istantanee perfette del suo immaginario: da un lato la tipica canzone da storyteller capace di raccontare il mondo e al contempo di inventarsene uno (come ha spiegato bene qui Giuseppe Genna), sull'altro versante il testo d'amore un po' nostalgico che i mutamenti del mercato del lavoro degli ultimi vent'anni, per tutti coloro che all'epoca di Gimme Five erano solo dei ragazzini, rendono ancora plausibile.
Insomma, anche se è molto triste, a trenta, quaranta e cinquant'anni abbiamo ancora da immaginarci un “prossimo trimestre” e questo Jovanotti lo sa, ma diversamente da molte altre popstar non ci prende in giro e non elude il problema. È vero, a volte il refrain dei suoi show tende alla consolazione, ma in fondo anche per Aki Kaurismaki l’arte deve consolare. Insomma, diversamente da molti suoi colleghi, Jovanotti sembra essere rimasto umano, una popstar etica che legge libri, va al cinema e fa lunghi viaggi. Mia madre dice di lui che “non è il tipo da approfittarsene”. Non so bene cosa voglia dire, ma mi piace. Nonostante sappia di essere infinitamente più ricco e famoso di tutti i suoi fan, Lorenzo nutre un grande rispetto per ognuno di loro. Si potrebbe dire che le sue canzoni hanno accompagnato la vita dei suoi fan così come le vite dei suoi fan (dentro cui è riuscito a compenetrarsi per un non comune istinto animale) hanno accompagnato le sue canzoni, determinandone la poetica, in un certo senso scrivendole al posto suo.
Gli italiani degli ultimi vent'anni, al di là di ciò che pensano della sua musica e delle sue idee, non possono non dirsi jovanottiani. E Jovanotti non può non dirsi italiano fino al midollo. Non so se sia bene o male, ma so che tutto ciò testimonia una penetrazione culturale nell'immaginario del Paese a un livello senza precedenti, il che è avvenuto anche per un'altra ragione che ci riporta esattamente al punto di partenza e alla presunta frattura nel suo percorso di artista: in futuro le sue canzoni saranno ricordate per aver trasportato temi e sensibilità della canzone d’autore all'interno della pop music.
Un tempo, tanti anni fa, avrei sospettato di un artista che si prestasse a una simile operazione. Oggi che sono cresciuto, invece, mi dico che il vero e la sua rappresentazione sono sempre in rapporto di coabitazione. E che l’esito di ogni percorso artistico e umano dipende soprattutto dalla cautela con cui li si maneggia.