Quando, tra gli ultimi anni del ‘600 e i primi del ‘700, alla corte dei Medici il padovano Bartolomeo Cristofori costruiva il primo pianoforte, non avrebbe potuto immaginare che esattamente 300 anni dopo il suo strumento avrebbe scritto la storia del rap. Non poteva avere idea di cosa fosse il rap, ovviamente. Eppure, tra il 1999 e il 2005, lo strumento per eccellenza della musica “vecchia” avrebbe vissuto un’età dell’oro sulle coste americane. Nel frattempo, da questa parte dell’Atlantico, crescevano e si affermavano i Club Dogo, trio milanese che per primo convinse il pubblico italiano della potenza di un certo modo di fare il rap, con la parola e il suono – anche con il pianoforte. Don Joe, Jake e Guè, riuniti dopo anni con un album uscito ieri, in quella formula credono ancora. Si sente in Soli a Milano, canzone del nuovo disco che ospita Elodie. Ma soprattutto, un piano a coda di 50 anni fa.
La produzione di Don Joe su questa traccia ruota intorno a un campionamento che ha già una discreta credibilità rap. Il brano da cui è tratto è Crime Of The Century dei Supertramp, dall’omonimo album del 1974: il sample consiste nella frase di pianoforte che divide in due la traccia del gruppo prog inglese, e ne accompagna la lunga coda strumentale. Quella parte di piano, suonata con una tecnica di staccato infallibile (la stessa che si sarebbe sentita nell’organetto di The Logical Song), ebbe i suoi primi giorni di gloria rap nel 2004 grazie a Breathe di Fabolous. La potenza di quel segmento stava prima di tutto nella successione di ottavi – la frazione della battuta nota anche come croma, e segnata con una coda sulla stanghetta, per chi ha un po’ di familiarità con gli spartiti. Estrapolata dall’originale – un lavoro di taglio e cucito tutto sommato semplice, vista l’assenza di altri strumenti in quel frangente – e accelerata al doppio della velocità dal produttore Just Blaze, quella frase di piano aveva la capacità di incastrarsi con un flow, anche non rapidissimo, per generare un veloce ritmo sincopato (cioè in anticipo o in ritardo sul battito principale). Incastonato al centro della battuta, lasciando che gli spazi vuoti risuonino tanto quanto quelli pieni e permettano alla batteria di svilupparsi, il pianoforte dei Supertramp si trasforma in una raffica che balza subito all’orecchio. In altre parole, è un hook.
Nelle strofe di Jake e Guè sentiamo un trattamento praticamente identico del sample: stritolata nel mezzo del beat, tra un boom e un bap (cioè tra una cassa e un rullante), la frase suonata da Rick Davies viene compressa in una serie di sedicesimi (o semicrome, una stanghetta e due code sempre per i nerd in prima fila) per lasciare ancora più campo libero alle parole degli MC. Ma, a differenza del brano di Fabolous, la canzone dei Dogo non comincia con quella rapida frase. Nello stesso punto del beat, invece, sentiamo quattro colpi di piano dosati secondo la metrica originale, che disegnano una versione più lenta e scheletrica della progressione armonica (se così possiamo chiamare l’alternanza di due accordi segnata dai bassi). La ragione di questa scelta potrebbe essere puramente atmosferica, una questione di mood insomma: Jake sta per paragonare il suo ingresso a quello della nave del film horror The Fog: perciò un incipit più lento rispetto al resto del beat sembra appropriato. Peraltro, troncando il loop su due accordi sospesi senza tornare agli accordi di base (qui pitchati in basso di un semitono rispetto all’originale, La minore e Fa, in seconda inversione per chi fa caso a queste cose), Don Joe apre una voragine di tensione, che contribuisce ulteriormente all’inquietudine dell’intro.
O magari l’ispirazione ha fatto il giro opposto, e l’aria macabra del beat ha ispirato a Jake e Guè le loro parole di amore/odio per la loro città. Del resto, proprio quel giro di due accordi, ostinato e interminabile, si ritrova in canzoni piuttosto angoscianti, dove realtà e paranoia si confondono: Billie Jean di Michael Jackson o Something In The Way dei Nirvana, per fare due esempi celeberrimi. Fatto sta che, quando il beat accelera acquistando la sua forma definitiva, con le raffiche di sedicesimi nel mezzo di ogni battuta, l’ascoltatore è trascinato per la collottola dentro il groove ritmico, tra i pieni e i vuoti, ma con un’iniezione di energia.
Del resto, la “scoperta” di questo incastro ritmico e armonico è proprio ciò che ha dato il via alla già citata età dell’oro del pianoforte rap. Qualche successo a base pianistica si era già visto, e la gestazione era partita almeno alla fine degli anni ‘80 (Illmatic di Nas è forse il primo disco hip-hop dove lo strumento era veramente centrale). Ma è a cavallo di 15 mesi, fra il 1998 e il 1999, che questo rapporto si consolida. Merito di tre tracce che facevano uso della stessa tecnica sulla tastiera: accordi suonati in ottavi ben staccati. Doo Wop (That Thing) di Lauryn Hill, Hard Knock Life (Ghetto Anthem) di Jay-Z e, infine, la famigerata Still D.R.E. di Dr. Dre e Snoop Dogg hanno convinto il grande pubblico della loro scommessa: che aprire e incatenare un beat a una raffica di ottavi sul piano avrebbe aperto praterie per il boom bap. Del resto, l’approdo del piano con il suo suono inconfondibilmente organico corrispondeva a una transizione di gusto negli arrangiamenti hip-hop, passati dai synth e le drum machine agli “strumenti veri” – suonati sul serio o campionati, poco importa (il recentemente scomparso The 45 King pescò il sample per Jay-Z dal musical Annie).
E allora plin-plin-plin, parte il basso e non ci si ferma più. La regola funziona ancora un decennio dopo (un po’ fuori tempo massimo) in Empire State of Mind, che chiude con i fuochi d’artificio l’epoca d’oro del pianoforte rap. E lo fa proprio come te lo saresti aspettato: con una linea di accordi staccati, in ottavi, e un ritornello di Alicia Keys che commuoverebbe anche le pietre. Un pezzo talmente iconico che Jake vi fa allusione nella sua strofa, citazione che anche l’ascoltatore più distratto capirebbe senza bisogno di consultare Genius. Gli spazi aperti da quel tipo di beat erano insomma talmente vasti, da fare il giro e diventare una cosa incredibilmente pop. Perché alla fine, ogni buon beat viene da un gioco di equilibrio: nel mix, nel ritmo, nel messaggio. Lo sapeva anche Don Joe, che nel 2005 nominava proprio il già citato Just Blaze tra i suoi produttori preferiti (come si legge in quest’intervista su HotMC) e che agli anni d’oro del piano rap ha dato il suo contributo. Lo senti, ad esempio, nella versione remix del 2004 di Vida Loca – non quindi quella ripresa da Sfera Ebbasta, e di cui abbiamo parlato, che comunque gira su accordi simili – Joe presenta proprio una linea di pianoforte che ricorda la ritmica e l’armonia di questa Soli a Milano. Ma all’equilibrio di Soli a Milano mancherebbe qualcosa senza il ritornello di Elodie.
Il contributo della cantante, una dei soli tre featuring presenti in questo disco, non ha forse da offrire un registro vocale come quello di Alicia Keys, e se dovessimo affidarci puramente alla sintassi e all’analisi logica, un bel pezzo della sua parte (scritta con Davide Petrella) risulterebbe incomprensibile. Ma il suo contributo sta altrove. Nel ritmo delle frasi “sangue nella Cattedrale, tanto dove vuoi scappare”, che recupera il disegno metrico del sample in un momento in cui il pianoforte invece tace. E nel carisma con cui trasmette all’ascoltatore il senso di rassegnazione e inevitabilità per questo amore non corrisposto, rivolto a una città. Ritmo e carisma: alla fine per fare del buon rap non serve altro. Al limite, un pianoforte.