Il pop non è un assoluto. Il pop non è nemmeno un genere musicale. Il pop è la barra di una nave dentro un mare di idee. Un’attitudine, direbbe qualcuno; un metodo, direbbe qualcun altro; l’intersezione tra una teoria del gusto e una rilevazione demografica, direbbero altri ancora. E, soprattutto, il pop non è una scusa per creare qualcosa di banale o di poco significativo: semmai, è la responsabilità di parlare a tutto il mondo.
Il 20 giugno 2024 è stata pubblicata quella che con una leggera iperbole possiamo definire la canzone più importante per il pop mondiale degli ultimi 10 anni. Potresti non essertene accorto, del resto la musica internazionale è un po’ lontana dai radar di tante radio italiane, non è particolarmente prominente per gli utenti dello streaming e non va in tendenza su YouTube. Insomma, la musica internazionale attualmente non esiste in Italia. E questa canzone è, in effetti, internazionale. Parecchio internazionale, dato che si tratta del remix di una traccia incisa negli Stati Uniti da un’artista inglese che ha composto buona parte del disco in Italia, con la partecipazione a sorpresa di una popstar neozelandese. Mi riferisco al remix di Girl, so confusing di Charli xcx con Lorde.
Un passo indietro rapido. Charli forse la conosci già. Almeno indirettamente è celebre per due hit globali che ha scritto e sulle quali ha apposto un featuring nel 2012 e nel 2014, cioè I Love It delle svedesi Icona Pop e Fancy dell’australiana Iggy Azalea, due canzoni benedette dal metallo più prezioso qua nello Stivale. Nel giugno del 2014, dieci anni fa, Charli xcx ebbe anche un momento di gloria individuale con Boom Clap, anch’esso premiato con il platino tricolore, una posizione massima sul gradino più basso del podio della FIMI e 29 lunghe settimane di permanenza in classifica – era nella colonna sonora di Colpa delle stelle, è presto detto. Il risultato è tutt’altro che banale: per la cronaca, nello stesso anno sopravvisse per 20 settimane (posizione più alta #10) il singolo più popolare di Taylor Swift, Shake It Off. Nemmeno lei è mai riuscita a fare meglio di Boom Clap, pur con la sua enorme popolarità, i suoi tour negli stadi, i suoi dischi ascoltati in sottofondo per mesi e mesi dai Swiftie (e infatti i record lei li fa con gli album, come Lover per 46 settimane in FIMI).
Insomma, Charli non è proprio una qualsiasi ragazza dell’Essex: per quanto il suo nome risulti più elusivo alla maggioranza degli italiani (e di altri pubblici non anglofoni), la sua fama, il suo successo e le sue capacità sono conosciute e comprovate. Ma proprio quando le porte della gloria olimpica le si sono aperte davanti, l’artista inglese ha fatto scelte particolari, decisamente più sperimentali.
Dal 2016, anno di pubblicazione dell’EP Vroom Vroom, la sua traiettoria artistica si è intersecata con quella di alcuni produttori britannici particolarmente visionari come A.G. Cook, Danny L Harle e la compianta Sophie, fondatori e/o cospiratori dell’etichetta PC Music che ha contribuito a dare corpo e suono al cosiddetto hyperpop – nel senso di pop ipersaturo, ipertestuale, iperrealista, un genere sperimentale al confine tra cultura del club e pop elettronico. Questo percorso, attraverso dischi, featuring, video, colonne sonore (quella di Barbie, l’anno scorso, per esempio) ha portato Charli fino all’ultimo album, brat, che – per chi presta attenzione a questo genere di cose – risulta attualmente il disco del 2024 più acclamato da stampa e critica internazionale sull’aggregatore Metacritic. Non che ce se ne potesse accorgere in Italia, dove brat, alla sua seconda settimana di vita, è già precipitato dalla 12esima alla 62esima posizione. Il nostro pubblico ha parlato. Eppure, qualcosa che riguarda quest’ultimo sforzo ci riguarda tutti, ed è una lezione che dovremmo interiorizzare anche nella coscienza musicale italiana.
Arriviamo a due settimane fa. Quando brat esce, le community di fan più attive (sull’ex Twitter e su TikTok) cercano di svelare un gossip incastonato dentro la traccia Girl, so confusing, che Charli ha spiegato di aver dedicato a una collega. La canzone ha le sembianze di una lettera aperta a quest’artista: la prima dice alla seconda che, nonostante qualcuno le abbia confuse in passato, non potrebbero essere più diverse (“tu scrivi poesie, io faccio festa”), tanto da convincerla di una rivalità o comunque di un’antipatia; eppure “se gli opposti si attraggono” potrebbero anche finire per essere amiche. Per quanto alcuni vi abbiano letto una critica (quasi un “beef”), la lettura più inequivoca è quella di una franca conversazione da ragazza nello show business a ragazza nello show business, una confessione delle difficoltà nel vivere questo mestiere da donna, sempre esposta allo sguardo e al giudizio altrui, considerata insieme calcolatrice e troppo stupida (“I’m just a girl”, peraltro recente trend su TikTok). La canzone, aveva sentenziato la maggioranza degli “investigatori digitali” era rivolta a Lorde: in effetti, le due artiste non potrebbero sembrare più distanti come personalità; e notoriamente sono state scambiate fra loro, per esempio da questa malcapitata giornalista che stava intervistando Charli.
Ospite di molti podcast nei giorni precedenti e seguenti la pubblicazione del nuovo album, l’inglese non ha mai confermato ufficialmente chi fosse la persona interessata. Ma ha parlato estesamente del brano, le cui tematiche sono piuttosto cruciali per capire il senso dell’album (e della lezione che ci insegna): brat è una celebrazione del caos, quella componente ormai sterilizzata e scartata dalla costruzione delle popstar di oggi, la cui immagine e produzione musicale al contrario presenta semmai le caratteristiche del prodotto commerciale curato in ogni dettaglio, ideato, manufatto e certificato nel modo più neutrale e universale possibile, per ottenere una distribuzione globale priva di intoppi. Aspirando precisamente a questo, la dominazione globale, molti artisti hanno scelto la strada in discesa, un percorso che abbiamo visto spesso anche in Italia: la banalizzazione dei temi trattati; l’omologazione delle scritture, composizioni e produzioni, ormai in mano a un manipolo ristretto di professionisti della creazione della hit; un’adesione religiosa ad alcune regole su come una canzone “deve” suonare e cosa “deve” dire affinché possa raggiungere più persone. In un paese dove ormai il rap è il vero mainstream, per esempio, questo processo si nota nello spazio sempre maggiore concesso a ballate, lenti e altre canzoni d’amore, dove gli angoli più ruvidi del genere si smussano a sufficienza per lasciarsi ascoltare anche da un pubblico “altro” rispetto a quello di provenienza.
Tutto ciò, per molti versi, è inevitabile: gli artisti popolari diventano ben presto dei team di lavoro che hanno bisogno di una costanza di introiti per essere mantenuti in piedi. Questo spinge naturalmente la musica più popolare ad appiattirsi su certe costanti. Ma non ci si deve scandalizzare, perché è sempre andata così, da quando Elvis ha cominciato a imitare i bluesmen che vedeva nei juke-joint tra Tennessee e Mississippi fino alla nascita dei Monkees come cloni dei Beatles; anzi, si potrebbe dire che il pop vive proprio nell’equilibrio tra l’imitazione e la novità, un pendolo che gli artisti si trovano a cavalcare per restare attuali e appetibili sul mercato.
Ma – dicevamo – questo è del tutto normale. Il pop di una volta non funzionava diversamente, anch’esso aveva l’obiettivo di colpire con un solo gesto le viscere e la testa dell’ascoltatore, anch’esso era radicalmente figlio del proprio tempo. Nessuna musica autenticamente pop e interessante ha mai ignorato il suo contesto storico. È perfettamente naturale nutrire un attaccamento speciale per quello è stato popolare “ai nostri tempi”, ma esiste una strana perversione che spinge alcuni a considerare in modo automatico “migliore” il pop di una volta, proprio in virtù dell’omologazione di cui parlavamo sopra. Ma ogni età del pop è stata a suo modo conformista. Il giro di Do “obbligatorio” negli anni di Gino Paoli è stato mutato nel giro I-V-vi-IV, ma non cambia la banalità della scelta. E il jazz, la bossa nova o la disco music che hanno influenzato tanta parte degli anni ‘70 sono così differenti dal nu-jazz, il latin-pop o la house che influenzano tanto pop odierno? Se non ci si riconosce in nessuna forma di pop della propria epoca non si sta compiendo solo una scelta di gusto (i nostalgici non sono certo un’invenzione originale del 2024 e nessuno vuole dar loro la caccia!), ma si sta rinunciando a vedere le ragioni di certe permeabilità. Farlo sulla scorta della convinzione che gli artisti del passato fossero migliori di per sé equivale a ribadire il mito dell’età dell’oro di Esiodo in chiave musicale, una favola.
Ma ogni epoca ha domande nuove da porre agli artisti pop, nuove idee da mettere in pratica con nuovi strumenti, nuovi modi di bilanciare il familiare e l’inaspettato, nuove possibilità di lasciare un’impronta. Per questo, se umanamente parlando è più che giustificata, la nostalgia come mezzo creativo e di valutazione della musica non può funzionare. I criteri estetici si muovono, il gusto si evolve: seguire quelli di un pop del passato non ha alcun senso, se si vuole non solo godere di tre minuti di suoni piacevoli, ma tener conto di una società in movimento. Pensare che un artista pop di oggi sia meno valido di un artista pop di ieri solamente perché “non corrisponde al nostro gusto” è il segnale di un relativismo e una personalizzazione dell’ascolto che soltanto la nostra epoca estremamente frammentata e profondamente consumista potrebbe considerare normali. Non è vero che non ci sono più gli artisti di una volta: di artisti eccellenti sono piene le playlist. Basta saperli ascoltare, se si è interessati a farlo. O, in alternativa, rinchiudersi nei propri ascolti del passato senza pretendere di avere molto da insegnare al presente.
Ed ecco che torniamo a Charli xcx. Circondata da queste voci di corridoio riguardo Girl, so confusing, l’artista ha deciso di chiamare Lorde e “risolvere la questione” in un remix, facendo spazio alla neozelandese per una strofa originale. Nei suoi versi Lorde restituisce a Charli il proprio punto di vista su quest’amicizia che non si è mai verificata e su questo misurarsi a distanza. Parte della ragione dei tanti mancati appuntamenti, canta Lorde, è che negli ultimi anni ha dovuto fare i conti con una dismorfia che le rendeva difficile uscire e farsi vedere in pubblico. Non si sentiva pronta per i paparazzi, per i commenti online, per il giudizio costruito intorno a un’immagine rubata. Anzi, l’apparenza è pericolosa perché – continua Lorde – specie quando ci si comporta da dure, è un atto di auto-difesa che rischia di diventare un’arma, una proiezione di sé fallace, vulnerabile alle narrazioni di rivalità e invidie “femminili”.
Cogliendo perfettamente il senso del testo, Lorde lo amplia, lo rende ancora più palese: essere una ragazza oggi è molto complicato, in somma sintesi. Significa dover vivere più di una vita, aderire a leggi scritte secoli fa da società apertamente patriarcali che in qualche modo si è deciso debbano valere anche nel 2024. Significa essere tra i bersagli preferiti di un’umanità che non ha ancora appreso i mezzi e la deontologia per comunicare su scala globale. E quindi ci si può solo fare forza a vicenda, con l’onestà e il coraggio necessari per tirare fuori quello che si ha da dire, veramente senza tanti filtri, cioè senza piaggerie, senza l’intenzione di raccogliere simpatie e farsi compatire. Rischiando perfino di sembrare antipatiche.
Per capire tutto questo, bisogna mettersi in ascolto e accettare che qualcuno più giovane di noi abbia qualcosa di importante da dire, e noi nulla da aggiungere. Charli (31 anni) e Lorde (27 anni) sono ragazze dell’ultima coda della generazione millennial, forse la più esposta alle molte disillusioni del nuovo secolo. The girl, so confusing version with lorde è una canzone che parla di molte incertezze e paure di questa e delle generazioni successive: è musica non esattamente per ragazzini, insomma, ma che chiaramente ha molto da dire anche a più giovani – musica per un target ampio, cioè pop. Pop, però, che ha l’accortezza di riflettere su sé stesso non tanto per ammirarsi allo specchio, ma per svelare alcuni dei fili delle marionette: "Siamo due facce della stessa moneta che l’industria adora spendere", dice Lorde. La ragazza introspettiva e la ragazza estroversa hanno molto in comune, più di quanto non credano: ci sono voluti un messaggio audio, un meme, una voce di corridoio, un video virale, un trend di TikTok e una canzone da 7 milioni di ascolti per dirselo apertamente. Ed effettivamente, come predetto da Charli, “internet è impazzito”.
L’importanza di questa canzone non è solo nei numeri – ottimi ma non più straordinari come 10 anni fa. Piuttosto, va cercata nel suo essere un autentico trionfo del pop: perché accosta target differenti; perché è un serbatoio di emozioni diverse e compresenti, dalla chiassosità del beat all’onestà cruda del testo; perché non esisterebbe senza il ciclo di informazioni e rimandi intertestuali della rete, e quindi è figlia del suo tempo; perché proprio alla luce del contesto in cui è nata descrive le sfide di una società che non esisteva più di 20 anni fa; perché è, nel profondo, un’occasione di contatto umano genuino attraverso l’arte. Ed è estremamente importante perché fa tutto questo arrivando alle estreme conseguenze di una scelta musicale sperimentale maturata quasi 10 anni fa, e che man mano (basta osservare i percorsi recenti di Camila Cabello e Katy Perry) sta prendendo piede per conto proprio. Insomma, lo fa con la scommessa del diverso e del caos, preparando il terreno per una nuova fase musicale all’orizzonte, che sappia incarnare magari le propensioni più creative, rumorose, orgogliose e vibranti di un’epoca che deve avere il coraggio di lasciare la propria firma sulla storia della musica, e non soltanto ricopiare la firma dei genitori. Il pop riesce a fare tutto questo e molto di più, se lo si ascolta con curiosità e apertura, con il dubbio sano che il meglio non sia stato già pubblicato tanti anni fa.