Perché di femminismo dobbiamo parlarne tutt*: un’intervista a Giulia Blasi
"Abbiamo guardato per 4000 anni, adesso abbiamo visto" dice uno dei punti del manifesto di Rivolta femminile elaborato da Carla Lonzi, Carla Accardi ed Elvira Banotti. Il femminismo è un argomento che dovrebbe interessare tutt*, perché parlarne è indagare la società che ci circonda, parlarne è considerarne le sue storture, è analizzare i privilegi che una società prettamente patriarcale ha cristallizzato nel tempo. Eppure viviamo in un mondo che spesso guarda al femminismo come a qualcosa di lontano da sé, come a qualcosa che, addirittura, arreca disturbo, parlare di femminismo oggi è come, paradossalmente, parlare di minoranze, di qualcosa che il potere tende a stigmatizzare e prendere in giro e che sempre più costruisce delle credenze e dei privilegi di cui quasi non ci si rende conto. Le brave bambine che non si devono arrabbiare, i maschi che devono "fare gli uomini" sono solo due esempi di ciò che fin da piccoli ci viene raccontato ma che è assolutamente qualcosa di profondamente ingiusto: perché le donne non possono arrabbiarsi e perché gli uomini non possono provare debolezze. Senza arrivare alle cose estreme, come le giustificazioni allo stupro: "Beh, se si veste così…" come se un vestito giustificasse una violenza. Oggi, però, il victim blaming (la colpevolizzazione della vittima) è quasi una normalità. Come si può scardinare tutto questo? Con l'educazione, sicuramente, e con la presa di coscienza di cosa non va. Per questo Giulia Blasi, scrittrice e divulgatrice, ha scritto "Rivoluzione Z. Diventare adulti migliori con il femminismo" – un libro che fa il paio con il primo "Manuale per ragazze rivoluzionarie. Perché il femminismo ci rende felici", entrambi pubblicati per Rizzoli – in cui Blasi si rivolge ai ragazzi e alle ragazze, perché è quando non si è ancora adulti che bisogna cominciare a decostruire questa realtà. Sono i giovani coloro da cui si può partire per scardinare pregiudizi e cliché: l'adolescenza, i social, le aspettative sociali, il sesso, la mascolinità tossica.
Cosa vuol dire oggi scrivere un testo femminista? Un testo rivolto a chi ancora sta cominciando a familiarizzare con la parola e l'idea femminista?
Ho scritto questi due libri per fare in modo che le persone, se ne hanno voglia e lo ritengono necessario, possano approfondire il tema del femminismo avendo un minimo di base, sapendo da dove devono partire. Per arrivare a comprendere i testi base del femminismo devi avere la consapevolezza del problema, e a volte capita che chi ha questa consapevolezza, poi, dia per scontato che tutti sappiano che esiste il problema. Invece stiamo ancora al punto per cui ogni volta che si fa presente che le donne non ci sono in una determinata categoria, arriva qualcuno che dice: "Ma basta che siano persone di valore!" e tu ti senti come quella che deve reinventare la ruota daccapo, perché ci sono cose che non puoi dare per scontato, c'è ancora tanto da spiegare.
Rivoluzione Z è un testo di divulgazione e primo approccio, quindi, giusto?
Sì, non ho mai pensato di scrivere dei testi avanzati, non ne ho le qualifiche, non sono una studiosa. È divulgazione, anzi, per la precisione, non sto neanche facendo divulgazione sul femminismo, io parlo di temi che sono centrali al femminismo, ma ne parlo da un punto di vista di osservazione personale, di elaborazione di dati, è una forma di creazione e costruzione del pensiero che non ha a che vedere con la teoria femminista in sé e per sé. Io non mi metto a spiegarti Judith Butler, magari la cito per farti capire che non è una cosa che ho inventato io, però quella cosa lì è entrata abbastanza nel discorso comune da permettermi di usarla per spiegarti alcune cose. Ogni tanto capita che qualcuno dica che quelli che cito siano testi basilari, che loro li conoscono già, ok, bene, vai avanti, evidentemente non è roba per te.
Parlare di femminismi è ancora oggi come parlare minoranze, come mai?
Ce ne siamo resi conto abbastanza di recente, ma il femminismo bianco borghese è straordinariamente impermeabile alle istanze, alle necessità e ai bisogni delle minoranze, perché la donna bianca borghese ha raggiunto una serie di obiettivi personali e politici che la mettono quasi al riparo dalla misoginia. Quasi. È arrivata a un punto di privilegio tale che devono succedere delle cose molto grosse perché si renda conto che in realtà quel sistema non la protegge davvero, anzi contrabbanda come grandi privilegi e inclinazioni naturali cose che in realtà sono delle costruzioni culturali, come il fatto che le donne si prendano cura della famiglia e dei figli.
Come mai il femminismo è visto da alcuni, non pochi, come qualcosa di lontano dalla gente, mentre in realtà studiarlo è come leggere la società che ci circonda?
Mancano proprio le basi e questo è dovuto a due fattori: al fatto che i femminismi si sono mossi soprattutto in ambito accademico, hanno fatto pensiero strutturato avanzato ma si sono dimenticati di fare divulgazione. C'è da dire che questo vale più qui che in altri Paesi: negli Usa, per esempio, esistono fior di testi pop e approcciabili che decostruiscono la realtà da un punto di vista femminista. Il secondo è che abbiamo perso 20 anni, perché nel momento in cui le donne della generazione precedente alla mia avrebbero dovuto passare il testimone, non solo dandoci gli strumenti per continuare la lotta, ma anche quelli per armare quelle dopo di noi, si sono tirate indietro, hanno detto "Siamo stanche, qua è fatto, a posto così" e non ci sono venute incontro.
Nel libro parli anche e soprattutto di te come di una ragazza di provincia che non aveva proprio un accesso facilitato alla questione. Questo è uno dei problemi?
Le attiviste delle grandi città protestano contro quello che ti dicevo prima, si arrabbiano, chiedono perché non si parli di loro, delle cose che hanno fatto e di come ci hanno formato. Io le guardo e dico che ok: Roma, Milano, Napoli, Bologna, ma io che stavo in Friuli Venezia Giulia come arrivavo a tutto questo? Per questo questi due libri e buona parte di quello che ho fatto negli ultimi dieci anni non l'ho fatto per le romane, le milanesi, le bolognesi quelle che stanno nelle grandi città e hanno a disposizione collettivi, azioni, rivolte, case delle donne, ma l'ho fatto per le ragazzine che stanno in provincia e non solo non hanno idea di cosa sia veramente il femminismo, o perché non è arrivato o perché quello che è arrivato è arrivato rinarrato dalla narrazione mainstream, ovvero femminismo come aggressione, rabbia.
Una delle più grandi sfide che vi trovate a dover affrontare è proprio il ribaltamento del concetto di aggressività: il problema, praticamente, pare che per alcuni non sia il potere, ma chi chiede pari opportunità, come mai?
La cosa interessante è che continuano a ripeterci che non dobbiamo fare la guerra contro i maschi, non è giusto farla, però poi i maschi la guerra contro di noi la fanno. A volte in maniera implicita, senza rendersi conto di essere maschilisti, di escluderci, di bullizzarci, di avere dei pregiudizi contro le donne, altre volte, invece, rendendosene perfettamente conto e non fregandosene nulla. Quello che è successo con Erosive, a Verona, è stata una reazione forte e visibile al fatto che qualcuno non si è vergognato in nessun modo di aver discriminato apertamente le donne. Gli organizzatori del Festival dell'Eros hanno detto, anno dopo anno, cose false, tipo che le donne non sono capaci di tenere un palco, non vendono biglietti, quest'anno hanno usato il Covid come scusa, ma la verità è che fanno un festival sull'eros e la bellezza dando per scontato che le donne non possano parlarne, ma debbano essere oggetto di quella narrazione, questa è una discriminazione, abbassa la qualità di qualsiasi cosa: se tagli fuori il 50% della popolazione puoi stare sicuro che in quella percentuale c'era gente brava che non hai considerato perché femmina. E ci chiedono di non essere arrabbiate per questo…
Quali sono i punti principali che bisognerebbe spiegare a un ragazzo o a una ragazza che si approccia a questo mondo per le prime volte?
Quello che ho notato è che la cosa più difficile da far capire è la nozione di privilegio: ragazzi e ragazze non hanno problemi a comprendere il concetto della parità, dopodiché soprattutto i ragazzi, quando cominci a fargli notare che sono in una posizione privilegiata reagiscono male. Questo perché la maggior parte delle persone ha un'immagine di sé circoscritta al suo mondo, non ha idea di sé come appartenente a una macrocategoria di persone, a una classe, quindi se non sei Lapo Elkann difficilmente vedrai te stesso come qualcuno che gode di una qualche forma di privilegio, che è invisibile: se ce l'hai non lo vedi a meno che qualcuno non te lo mostri. E a questo serve prestare orecchio agli attivisti e alle attiviste che non condividono la nostra esperienza. Se tu non sei una persona con disabilità ascolta gli attivisti con disabilità, i neri italiani che hanno un'esperienza radicalmente diversa dai bianchi italiani e così via. Il tuo privilegio è soltanto nel rapportarti con l'esperienza altrui, con l'esperienza di persone che stanno in una posizione diversa dalla tua e di cui sei, spesso, simbolicamente oppressore.
Insomma, far prendere coscienza del concetto di privilegio sarebbe già un bel passo avanti?
Sì, ed è difficilissimo spiegare il concetto di privilegio senza che passi per il solito discorso del "Non siamo tutti così", che è una richiesta costante di un'assoluzione a priori rispetto a un'accusa mai formulata, semplicemente per non doversi mettere in discussione. Se riesci a far passare il concetto di privilegio diventa tutto più semplice, perché da quel punto lì tutto può essere decostruito, capisci che anche maschio è un genere e che tu sei espressione di una cultura di genere esattamente come le donne, esattamente come chiunque altro e da lì è abbastanza in discesa. Ovviamente continua a non essere facilissimo perché ci si inceppa sui ruoli di genere, sulle aspettative reciproche: se sei cresciuto in un ambiente in cui fissare le donne per strada è normale, le donne se l'aspettano e tu lo fai perché le donne se l'aspettano, come fai a dirti che non devi farlo più? C'è una codificazione di certi comportamenti, prendi per esempio le scenate di gelosia: il controllarsi reciprocamente è stato contrabbandato per tantissimo tempo come un segno di attenzione, e come fai a smontare una cosa così senza entrare nei dettagli della vita privata delle persone? È complicato. Ci si aggrappa a certi costrutti perché danno sicurezza.
A che punto si è della battaglia?
Quello che non è ancora successo, ma succederà, è passare dalla consapevolezza all'organizzazione, perché il problema qui non è capire chi potrà fare il lavoro al posto mio quando non ci sono. Non basta più la reazione individuale, bisogna arrivare a un cambiamento radicale del sistema, ridistribuire la ricchezza, fare in modo che non esistano più oppressioni sistemiche, che non ci siano persone destinate dalla nascita a vivere in povertà e situazioni di disagio. Manchiamo nell'agire sulle disuguaglianze e tutto questo viene conservato dando a chi è in una posizione comoda la sensazione che "produci, consuma, crepa" sia l'unica soluzione possibile. C'è da risolvere un problema socio-economico e credo che stiamo cominciando a farlo solo adesso, però contro questa ricostruzione della narrazione abbiamo un intero sistema mediatico, potentissimo, che punta costantemente alla conservazione.
Quali sono i peggiori luoghi comuni da smantellare, quindi?
Ce n'è uno che ritorna spessissimo, ovvero quello della donna come oggetto del desiderio, per cui la funzione primaria di una donna sia quello di abbellire, decorare, essere bella ed essere desiderata e desiderabile. Leggevo della storia di una denuncia per stalking da parte di una donna e la narrazione era "Vabbè, lui mandava dei fiori, delle rose e invece lei l'ha denunciato". Quella però è un'invasione, anche se la narrazione corrente è che se un uomo non ti fa violenza fisica, quell'attenzione non solo deve essere gradita ma deve essere accolta perché è misura del tuo valore, devi esserne grata, non devi denunciare. Questa cosa è una manifestazione pratica e visibile di come le donne siano costantemente considerate degli oggetti e delle creature che non possono decidere da chi devono essere guardate e chi può entrare nel loro spazio.
Un'altra cosa di cui si parla poco è che spesso parliamo di donne, ma in realtà dovremmo fare riferimento a una pluralità di generi…
Sì, è questa cosa è problematica nel momento in cui cominciamo a parlare di rappresentazione, perché uno dei problemi è che anche se dici che bisogna avere il 50% di donne dappertutto, quel 50% non è reale, è un 50% di "altro da". Quindi c'è una fetta monolitica di maschi bianchi, etero, cis che tiene quelle posizioni di privilegio e, nella migliore delle ipotesi, gli altri si spartiscono quello che avanza. In più a volte escono frange di femminismi che tendono a negare l'esistenza specifica delle donne trans (non degli uomini trans) e tu capisci, in filigrana, che è sempre una questione di potere e spartizione dello spazio: se c'è un'attenzione nei confronti delle donne trans, si assume che ce ne sarà meno per quello delle donne cis. Non si capisce che siamo tutti individui, tutte persone che hanno diritto a essere rappresentate non come categoria ma anche semplicemente come individui e voci. Se dovessimo avere una proporzionalità della rappresentatività, infatti, i maschi etero cis sarebbero una fettina molto esigua o comunque molto più esigua di così. Però non si tende alla matematica ma all'attenzione verso voci che non siano sempre le stesse: poi succede spesso che le donne siano chiamate a parlare di donne, gli afroitaliani di come essere afroitaliani, le persone LGBTQ+ a parlare di persone LGBTQ+, ma se io sono donna e voglio parlare di calciomercato perché non lo posso fare?
Torniamo alla questione educativa e culturale: viviamo ancora in un mondo in cui al maschio si regala il pallone e alla femmina la cucina.
Qui entra in gioco la questione della rappresentazione: non puoi essere quello che non vedi. Nel momento in cui sei circondato da una società che ti propone dei ruoli di genere definiti, quindi, non soltanto nella propria famiglia, ma nel mondo, in tv, nelle serie, non possiamo essere quello che non possiamo vedere. Non abbiamo ancora avuto una Presidente del Consiglio, ad esempio, perché la politica italiana respinge la leadership femminile, se vuoi fare politica devi sapere che sarai sempre gregaria di un uomo, difficilmente sarai leader di partito, a meno che tu non sia portatrice di una cultura conservatrice, nel qual caso puoi farlo, perché non sei di disturbo al sistema. È quello che succede con Giorgia Meloni. In quel caso la struttura sociale, che è patriarcale e capitalista, non è minacciata da Meloni, perché lei non vuole cambiare il sistema, anzi, vuole riavvolgere i diritti per ripristinare maggiori privilegi per quelli che sono i suoi potenziali elettori. Ma anche nel PD, per dire, la leadership femminile fatica.
Un altro paradosso è quello per cui la donna non può vivere lo spazio come fa un uomo.
Talvolta viviamo la violenza maschile come un'inevitabilità, e il meglio che possiamo fare, come persone, è proteggerci, quindi se viviamo lo spazio in un modo che per gli uomini è normale – tipo andare in un locale, ubriacarci e ballare – veniamo punite e ci viene scaricata la colpa della nostra aggressione, semplicemente perché la violenza maschile viene vissuta come inevitabile.
Sia dagli uomini che dalle donne?
È vero che alcune donne reagiscono facendo del maternage rispetto a quelle che vengono aggredite, però ho notato che spesso, quando una donna racconta una molestia in pubblico, la reazione delle altre donne è soprattutto di solidarietà. Dagli uomini, invece, arriva spessissimo un "Ti dovevi proteggere", "Non dovevi uscire da sola", "Potevi dargli uno sganassone": da una parte, quindi, c'è una reazione di autoassoluzione, dall'altro una fantasia di violenza delle donne nei confronti degli uomini, come se quello risolvesse il problema, come se così si fosse pari. Poi c'è una chiamata fortissima a esprimersi su una cosa su cui forse è meglio ascoltare piuttosto che dire cose a caso o esibire il tipo di contrizione inutile che è sempre individuale, tipo "Mi vergogno per il mio genere". No zì, non ce ne frega niente che tu ti vergogni, taci e fai qualcosa.
Torniamo sempre lì, allo sguardo dell'uomo, insomma…
Agli uomini viene richiesto esplicitamente di essere lo sguardo che giudica il mondo e anche lo sguardo che giudica la donna, quindi l'uomo – anche esteticamente brutto – sente il dovere di esprimere un'opinione sulla bellezza o meno di una donna, non pensa di doversi mettere sullo stesso piano estetico della persona che sta giudicando, semplicemente lui è un maschio, gli viene garantito il diritto di esprimere un'opinione su quel corpo. Questo avviene perché abbiamo costruito i corpi delle donne come qualcosa che deve essere costantemente costruito, decostruito e giudicato, siamo costantemente ridotte alle parti dei nostri corpi: i piedi di Chiara Ferragni, le cosce di Beyoncé, la pancia di Vanessa Incontrada.