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Perché Basile andrebbe al cinema a vedere “Il racconto dei racconti” di Garrone

Matteo Garrone torna a Cannes e riporta alla ribalta un grande classico del Barocco napoletano, Lo cunto de li cunti, prima raccolta fiabesca dell’epoca moderna. Ne viene fuori un film molto particolare, visivamente complesso, a modo suo unico. In un confronto tra il film e il libro, indaghiamo insieme le ragioni di questa singolare trasposizione.
A cura di Luca Marangolo
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Riemerge un nome troppo a lungo dimenticato della letteratura italiana e napoletana grazie agli onori della Croisette e al talento visivo di Matteo Garrone, è il nome di Giovan Battista Basile e delle sue macabre barocchissime fiabe. E subito grazie ai riflettori puntati su Napoli si scopre che il cuore pulsante della fiaba europea è l’opera postuma (1634-36) di un letterato e madrigalista partenopeo che girò le corti d’Italia.

Il nuovo film di Matteo Garrone – autore de L’imbalsamatore (2002) Primo amore (2004)  Gomorra (2008) Reality (2012)- è tratto da Lo cunto de Li cunti, scritto in napoletano seicentesco e tradotto per la prima volta in italiano da Benedetto Croce, con Vincent Cassel e Salma Hayek. È un film che stimola tantissime riflessioni sul cinema, sul rapporto tra la letteratura e il cinema, sull’importanza della fiaba come genere letterario, su quanto questo genere sia utile per capire l’idea di narrazione che noi tutti abbiamo oggi: ovvero l’idea di narrazione che ci viene da internet, dalla tv, dal cinema. Ma procediamo con calma e iniziamo dal film.

Garrone ha trasposto 3 novelle della prima giornata: l'opera è divisa, come il Decameron, in giornate, solo che sono cinque: per questo viene anche detto Pentamerone. Si tratta de La polece, La cerva fatata e La vecchia scortecata. Se si apre la ottima edizione economica del Cunto di Michele Rak (Garzanti, ma esiste anche una prestigiosa edizione della Salerno di Carolina Stromboli del 2013) si viene subito catapultati nelle grandi potenzialità trasgressive della fiaba: la fiaba è un genere in cui le strutture dell’immaginazione prevaricano la coerenza logica della storia; in altre parole in una fiaba non importa la linearità del racconto, quella che va da un inizio ad una fine: i fatti avvengono spesso senza una ragione precisa, i motivi e gli elementi del racconto si sovrappongono e a volte si accavallano con grande libertà.

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Sono tre storie terribili, storie in cui una vecchia viene scorticata per tornare bella, in cui il cuore di un drago viene divorato, in cui  sgorga sangue dalla radice di un albero, storie in cui violenza e magia si danno la mano e viaggiano insieme. La bizzarria con cui si sviluppano questi tre racconti pieni di eventi fantastici, pulci giganti allevate sotto al letto, incantesimi assurdi, figure grottesche, fa il paio con la nudità pulsiva con la quale i personaggi principali vengono rappresentati, e le incantevoli principesse divengono capaci di efferati omicidi e sottili inganni, così come re e regine vittime di raggiri più o meno carnevaleschi. Se ci si pensa, è quanto di più lontano dagli schemi di Hollywood. Senza rievocare gli happy ending di Walt Disney, perfino l’ultima versione di Cenerentola di Branagh non era avulsa dalla rilettura post-moderna della fiaba.

Ma nel caso del film di Garrone queste considerazioni sono solo il punto di partenza: la cosa bella di The Tale of Tales sta nel fatto che – con buona pace di Hollywood – le fiabe vere, le fiabe grottesche, hanno un enorme potenziale cinematografico, e non solo, ma questo potenziale cinematografico è tale esattamente perché, probabilmente, c’è una componente strutturale del modo trasgressivo di narrare proprio della fiaba già in tutte le produzioni di intrattenimento più di successo sul mercato: Spiderman, Hulk o quant’altro. Il film di Garrone è un film importante proprio perché si rivolge al pubblico di massa con i mezzi del cinema di massa e gli mostra quanto di sano e giusto ci sia nell’intrattenimento che va cercando, realizzando un film autoriale proprio perché lontano dal qualsiasi spocchia pseudo-autoriale.

Già Walter Benjamin puntualizzava che non ha nessun senso sacralizzare l’arte colta condannando l’arte popolare: in realtà entrambe funzionano con gli stessi meccanismi, la vera differenza è fra un'arte libera, (genericamente “progressista”, direbbe Benjamin) ed un'arte reazionaria, basata su criteri eteronomi, lontani dal linguaggio e dalle potenzialità dell'arte, come sono il mercato editoriale o le Majors.

Garrone sembra aver compreso proprio questo: le fiabe seicentesche di Basile, con tutta manifestazione estetica della loro crudezza, col loro essere uno spazio franco, deforme, in cui mostrare violenza e passione, sesso, scaltrezza e morte, sono una valida alternativa a film fantastici dei supereroi che popolano i nostri cinema, perché soddisfano le stesse, basilari esigenze, profonde e a volte inconsce: esorcizzare tale violenza, essere uno sfogo liberatorio per paure e desideri di identificazione. Non a caso, in mani capaci, proprio il cinema blockbuster ha prodotto alcuni grandi capolavori recenti (il cavaliere oscuro, Spider-man II)

Vincent Cassel, Salma Hayek, Matteo Garrone
Vincent Cassel, Salma Hayek, Matteo Garrone

E allora Garrone si appropria dei mezzi del linguaggio del cinema di massa, lo riveste di rimandi estetici ad autori che compirono operazioni in una certa misura analoghe (quasi scontato il riferimento al Decameron di Pasolini) e grazie al contesto inedito, fiabesco e seicentesco rivivifica lo stupore nel vedere sullo schermo un drago costruito in digitale, rende omaggio a una fiaba bellissima e dimenticata come La cerva fatata ricostruendo sullo schermo l’immagine di una Salma Hayek-regina che divora il cuore di un drago, che risalta rosso al centro dello schermo contro la parete di un bianco acceso; infine fa riunire tutti i suoi personaggi sullo sfondo algido di Castel del Monte radicandoli ancora di più in un'atmosfera volutamente irreale.

Certo, un’operazione del genere, per via della sua radicalità linguistica, ha i suoi rischi: a volte sembra quasi che l’impianto “da film americano” divori un po’ la costruzione di insieme, e ad un vasto pubblico – abituato a tutt'altri contesti e altri mondi – si chiede molto nel dare una chance a queste fiabe così strambe e respingenti, così diverse dalle trame abituali dei film fantastici.

Tuttavia da come sembra essere stato accolto il film tale operazione pare abbastanza riuscita, ed è un po’ il rovescio di quello che questo regista ha sempre cercato di fare mostrando il potenziale di choc estetico forte di fenomeni che sono molto reali e concreti intorno a noi, ma che non avvertiamo perché lo rimuoviamo: la camorra, ovvero la crudeltà del mondo, l’emarginazione delle persone (vedi Reality e L'imbalsamatore), tutti temi che la fiaba popolare esorcizza e reinventa a modo suo attraverso ghirigori magici: ecco perché il regista ha potuto affermare che, alla fin fine, l’immagine della vecchia scorticata, così cruda e bizzarra al centro della scena, non era altro che un modo per continuare a riflettere in maniera più sublimata – più fiabesca – sulla violenza e sul corpo, come aveva  già fatto in Primo amore.

Questo perché il potenziale estetico del cinema di massa è intorno a noi, in tutte le narrazioni che consumiamo, le storie che vediamo ogni giorno sullo schermo; la fiaba è stata, in questo caso, una forma in grado di riappropriarsene.

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