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Festival di Sanremo 2025

Perché Balorda Nostalgia di Olly ha ottime chance di trionfare a Sanremo 2025

Balorda Nostalgia è la canzone con cui Olly partecipa per la seconda volta al Festival di Sanremo: ecco perché è una delle più amate.
A cura di Federico Pucci
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Olly
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Una chitarra accenna un motivo, sotto una progressione di quattro accordi, ben incastrati tra loro. Non lo sappiamo ancora, ma un minimo di esperienza con il pop formulare degli ultimi 20 anni potrebbe farcelo sospettare: questo giro di accordi e questa sequenza di note stanno “spoilerando” il ritornello. Ma non è davvero uno “spoiler”, perché questa anticipazione non è pensata per rovinare il consumo, ma per prepararlo, come un antipasto aiuta lo stomaco a godersi la portata principale. Così ha inizio Balorda Nostalgia di Olly, una canzone che non a caso sta incontrando molti favori nel pubblico. Perché nella composizione dello stesso Olly con JVLI e Pierfrancesco Pasini fa uso di accorgimenti tanto semplici quanto efficaci.

Quello che hai appena sentito, mentre la canzone sta partendo, potrebbe già essere definito un hook. La critica associa al pop contemporaneo i “ganci strumentali”, cioè questi brevi incisi melodici che si possono trovare in ogni angolo delle produzioni moderne, dove rivestono la stessa funzione dei richiami degli uccelli usati dai cacciatori. Ma vengono, in realtà da lontano, e senza scomodare la scrittura operistica, possiamo andare a una sorgente della popular music: “da dan da da dan dan dan”, all’inizio di From Me To You dei Beatles è un esempio da manuale di anticipazione del contenuto melodico del brano, perché funge realmente da introduzione, cioè pone le basi per quello che sentiremo a breve. Nel caso di Olly, abbiamo queste sette note, e successive variazioni, compreso un slide cromatico che dona giusto quel pizzico di blues e incertezza subito all’inizio del motivo: le ritroveremo nel giro di un minuto. E a quel punto, forti di una familiarità subliminale con quel concetto, saremo definitivamente “agganciati”.

Se andiamo a mettere le mani dentro gli accordi del ritornello, troviamo un volto familiare: il cosiddetto “giro di Do”, di cui parlammo già una volta a proposito di Angelina Mango. Si tratta di quattro accordi (un maggiore, due minori, un maggiore) separati fra loro dal più soddisfacente degli intervalli armonici che la tradizione occidentale ci ha insegnato a riconoscere con l’orecchio: una sorta di sezione aurea uditiva, un rapporto di spazi pieni e vuoti che ci consola e a cui siamo abituati, specie se si considera l’uso ripetuto che ne ha fatto un maestro della canzone italiana come Gino Paoli. Il ritornello – come direbbe qualche critico spocchioso nella settimana in cui ci si sente tutti più protagonisti – “non inventa niente”. Ma il Festival di Sanremo non è il Festival delle Invenzioni, e una soluzione familiare può andare benissimo. A patto che ci convinca di questo riutilizzo.

Olly ci convince senz’altro con la sua interpretazione: la voce (e anche l’abito, una combinazione di jeans e maglietta che strilla “semplicità”) non vuole illuderci che la sua canzone sia qualcosa che non è. La canzone qualunque di una persona qualunque che si sfoga nel modo più normale che ci sia. Tanto normale da risultare quasi rétro e fare il giro. Se sappiamo bene che la proiezione del pubblico sull’artista può sbloccare livelli di successo immani, Olly usa la sua personalità per invitare l’ascoltatore a identificarsi nella sua “balorda nostalgia”, un sentimento comune ai vecchi spettatori di Sanremo ma anche ai giovani coetanei del cantante, per i quali davvero la comparsa di questa sensazione può sembrare “balorda”: un’epoca di insoddisfazioni e incertezze diffuse come la nostra, invece, ci ha reso tutti partecipi di questa malinconia, il rimpianto di qualcosa che può essere successo due giorni fa come vent’anni fa, ma ha ugualmente il sapore agrodolce di un capitolo chiuso per sempre. Ma il personaggio-Olly da solo non basta per comunicare l’adesione del pubblico: per partecipare al giro di giostra di Balorda nostalgia e apprezzare il suo esatto contenuto emotivo bisogna accettare il dolce con l’amaro, e comprendere l’energia quasi euforica più che disperata con cui il cantante interpreta la sua canzone.

In che modo la nostalgia di Olly è “balorda”? Come mai la sua canzone si chiude con l’ingenua e genuina dichiarazione “magari è già finita, però ti voglio bene ed è stata tutta vita”? Sul significato del testo rimando a una spiegazione dettagliata, ma una risposta esaustiva la troviamo già scritta nella musica. Come sempre, quando una composizione “funziona”. Fai caso, se puoi, al differente colore delle due strofe. Nella prima, l’arrangiamento più orchestrale e meno pop-rock fa apprezzare tutte le estensioni degli accordi, sottolineando in particolare il languore dell’accordo di settima maggiore (già esplorato parlando di Mahmood), che ci suggerisce come il punto di partenza e di arrivo della voce narrante/cantante è in questo momento di grande insoddisfazione. Nella seconda questa nuance viene meno; o meglio, è sepolta da un’altra priorità: la spinta del protagonista (sottolineata dalla batteria marciante in quattro quarti) verso una prospettiva “altra”, una soluzione alla sua mestizia.

Puoi sentire chiaramente la differenza tra gli Olly delle due strofe: il primo è mogio e inconsolabile, il secondo è rassegnato ma forte. Nota, per esempio, come nella prima strofa si metta un forte rilievo sull’inserimento di un accordo fuori tonalità, un Sol bemolle minore che – non casualmente – senti per la prima volta dopo le parole “tornare insieme”. Senti come l’atmosfera sonora si incupisce? Questo movimento in tre parti (dall’accordo di sottodominante, al parallelo minore, all’accordo di tonica, per i nerd presenti) ha proprio la funzione di deviare la normale risoluzione, portarla brevemente fuori dal suo tracciato per mostrarci un istante di orrore e caos: se ci fai caso, l’hai già sentita un milione di volte, in passaggi particolarmente malinconici come il “when September (ends)” dell’arcinota canzone dei Green Day. Ecco, questo senso di incompiutezza e di ansia svanisce quasi del tutto nella seconda strofa, dove lo stesso passaggio incerto e mesto si trasforma in uno slancio disilluso ma eroico: “che bella tiritera, ti sembra la maniera che vai e mi lasci qua” toglie di mezzo le preoccupazioni, e punta dritto verso l’accordo di dominante, che ci deposita trionfalmente di nuovo all’accordo di partenza, dove ogni cosa ormai è salda e placida.

La canzone, insomma, ci presenta una crescita del personaggio, un tragitto indietro al quale possiamo – se ne abbiamo intenzione – accodarci senza bisogno di ulteriori filtri, spiegazioni, prefazioni: qualsiasi esperto di storytelling ti direbbe che senza un cambiamento del protagonista il pubblico perde interesse. Balorda nostalgia, correttamente, opta per un songwriting cinetico: dove lo sviluppo lirico si abbina a un’evoluzione musicale e teatrale. Del resto, la differenza tra i due Olly la vedi ben espressa anche sul palco grazie a un linguaggio fisico molto netto, assolutamente privo di sfumature: sotto i riflettori dell’Ariston si notano solo i chiaroscuri, e i gradienti più delicati si perdono per strada.

Ma ogni buona storia, per ambire alla tua completa attenzione, ha bisogno di un punto di svolta clamoroso. Forse è per questo motivo che nel pop contemporaneo così sovraffollato di proposte, il pre-ritornello è un momento assolutamente cruciale: perché è il luogo nel quale la fiducia momentaneamente ricevuta nella strofa deve essere guadagnata, dandoci una buona ragione per ascoltare anche il ritornello. E Balorda nostalgia non fallisce, facendo di necessità virtù: se i tempi delle canzoni sono stretti, ancora di più quelle sanremesi magari già preparate in ottica Eurovision Song Contest, non si può andare troppo lunghi su questa sezione, il “vorrei vorrei vorrei” gridato in crescendo da Olly non è nient’altro che una rampa di lancio. Con sintesi estrema, la canzone ci comunica qui l’esatta qualità della strana malinconia di Olly: non è una sconfitta, ma è un’insoddisfazione che chiede riscatto.

Ci siamo passati tutti: quel momento dell’elaborazione del lutto (di una separazione) in cui, dopo rabbia e depressione, arriva l’accettazione. Nulla di strano, tutto molto comune, ma ben congegnato. Alla fine il pop è questo, lo spazio di possibilità anche per le imperfezioni più comuni: come l’erre moscia di Olly, che si sente così chiaramente su “tiritera”, forse la rima più in vista di tutta la canzone, incoronata dall’arrangiamento tutt’intorno. Parliamo di una parola comune, anzi gergale, che non ha nessuna pretesa di elevarsi dal parlato quotidiano, proprio come la sintassi dei due versi immediatamente successivi. Eppure, questa parola banale non era mai stata usata prima in 75 anni di Festival di Sanremo. Una canzone pop ben riuscita funziona così: prende una cosa comune; la rende eccezionale; e infine, diffondendosi nelle orecchie di tutti quanti, la riporta alla sua splendente normalità.

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