Facciamo un esperimento mentale. Immaginate di avere appena vinto un premio di 2000 euro, e che al momento della riscossione vi vengano proposte due alternative: potete avere subito i 2000 euro, o scegliere di riceverne 100 ogni anno per il resto della vostra vita. Cosa scegliete? Secondo la psicologia economica è probabile che scegliate (come del resto farei io) di prendervi tutto il premio subito, e questo nonostante abbiate un’aspettativa di vita ragionevolmente superiore ai vent’anni.
Certo, ognuno può avere ragioni differenti per fare una scelta simile, ma i vari esperimenti condotti dagli anni ‘70 ad oggi individuano un trend preciso: tra l’uovo oggi e la gallina domani tendiamo a preferire l’uovo, soprattutto se quel domani è lontano e sparso nel tempo. È un comportamento talmente diffuso che è stato riscontrato perfino nei piccioni. E per quanto possa suonare assurdo, ne troviamo traccia anche nel modo in cui i governi si rapportano alla crisi climatica.
L’ossessione per il breve termine
Lo scorso 29 aprile la corte costituzionale tedesca ha bocciato una legge sul cambiamento climatico approvata nel 2019 perché fissava obiettivi poco ambiziosi sul breve termine, lasciando il grosso della riduzione di emissioni a dopo il 2030. Non si tratta di un caso isolato, e racconta bene come ci stiamo rapportando alla minaccia esistenziale più grande che l’essere umano si sia mai trovato ad affrontare.
Il rapporto IPCC sottoscritto da oltre duecento scienziati lo scorso agosto, del resto, parla chiaro: se vogliamo che questo mondo rimanga vivibile per la maggioranza delle persone dobbiamo mantenere il riscaldamento globale al di sotto degli 1,5 gradi rispetto al periodo pre-industriale. Per farlo c’è bisogno di un cambio di paradigma trasversale, ossia di uno sforzo collettivo mai visto nella storia dell’essere umano, un’iniziativa globale, sovranazionale e congiunta che pare quasi irraggiungibile in uno scenario frammentato e conflittuale come il nostro. Basti pensare a come Russia, Cina, India e Brasile questa settimana abbiano rifiutato di firmare l’accordo globale per la riduzione del 30% delle emissioni di metano entro il 2030, o alla ritrosia dell’Australia a partecipare alla COP26 di Glasgow a novembre, appuntamento in cui si decideranno letteralmente le sorti del mondo.
Ma se ancora fatichiamo a prendere il toro climatico per le corna, e a trattare questo problema come l’emergenza che è, non è solo colpa di un sistema economico incardinato sul profitto a breve termine, o delle false narrazioni che l’industria degli idrocarburi diffonde da almeno cinquant’anni, c’è anche un problema cognitivo, legato ai limiti del nostro modo di vedere il mondo.
Ci troviamo ad affrontare una minaccia che i nostri cervelli non sono in grado di capire, e soprattutto, per cui non riusciamo davvero a provare paura.
Abbiamo paura di tutto, tranne che di questo
Siamo tra le specie più codarde del mondo animale, per quanto ci piaccia pensare il contrario. Coviamo paure innate e acquisite, legate a traumi esistenti o proiettati, abbiamo paura dei serpenti e dei ragni, del buio e delle altezze, abbiamo paura di specifiche persone e di specifiche situazioni, abbiamo paura di ammalarci, di restare soli o senza lavoro, di essere traditi o feriti. Siamo talmente timorosi che persino cose che non esistono, come i fantasmi e le iatture, sono in grado di spaventarci.
Insomma, sappiamo provare paura per qualsiasi cosa, eppure non riusciamo a sviluppare una paura viscerale per la crisi climatica e tutti i disastri che già ora sta causando. Intendiamoci, non sto dicendo che non diamo importanza al problema, per fortuna negli ultimi anni la consapevolezza climatica sta aumentando sensibilmente, e la maggioranza delle persone è al corrente che il problema esiste e ci stravolgerà l’esistenza, ma si tratta di un tipo di paura razionale, legata ai dati e alle proiezioni, una paura fredda, che ci rende possibile restare seduti a guardare che succede. Non è lo stesso tipo di paura che durante la pandemia di Covid ci ha indotto a non far visita ai parenti più anziani per paura di infettarli, per capirci.
Ma com’è possibile allora che una specie tanto brava a individuare minacce rimanga sostanzialmente impassibile di fronte all’emergenza climatica?
Per capirlo dobbiamo ricordare che noi esseri umani siamo prima di tutto degli animali, e come tali siamo il prodotto di un percorso evolutivo. Se abbiamo certe caratteristiche fisiche e psichiche è perché quelle caratteristiche hanno consentito ai nostri antenati di sopravvivere in un mondo molto diverso da quello in cui viviamo oggi. Nello specifico, siamo i discendenti di chi era in grado di avvertire il pericolo per tempo e di mettersi in fuga. E in un mondo in cui le minacce letali erano all’ordine del giorno, una specie così vulnerabile poteva sopravvivere solo se era abbastanza vigile da percepire i pericoli in anticipo.
Il risultato è che oggi ci troviamo equipaggiati di un sistema di allarme incredibilmente sofisticato, calibrato però su un mondo che non esiste più. E che dunque si attiva solo di fronte a minacce che si presentino in modo immediato, riconducibili alla nostra sfera personale e causate da una persona o un’entità che percepiamo come antagonista. L’esempio più semplice: un predatore che sbuca da un cespuglio per aggredirci. Il cambiamento climatico invece è un fenomeno distribuito nello spazio e nel tempo, interconnesso, stratificato, e soprattutto non riconducibile all’opera di un antagonista preciso, di conseguenza non tocca nessuno di questi pulsanti.
È per questo motivo che negli ultimi decenni le narrazioni sulla crisi climatica che puntavano a metterci in stato d’allarme hanno fallito. La realtà è che non siamo in grado di provare una paura viscerale per questo problema, e probabilmente non lo saremo mai.
Il mondo che vediamo è solo una parte della realtà
Dicevamo: abbiamo ereditato un sistema d’allarme incredibilmente sensibile, talmente sensibile che può essere attivato anche da minacce potenziali, purché in linea con le caratteristiche che abbiamo visto. Ed ecco un’altra cosa di cui è importante tenere conto: la realtà che ci circonda è composta da una vastissima quantità di informazioni, oggetti, dettagli, dinamiche, sfumature; per dare un senso a questa abbondanza c’era bisogno di decidere a cosa dedicare attenzione e cosa invece lasciare sullo sfondo. Un cervello così sofisticato e vigile, insomma, aveva bisogno di contrappesi che gli impedissero di prendere sul serio ogni possibile segnale di pericolo e di andare quindi nel panico. La brutta notizia è che anche quei contrappesi ora ci stanno ostacolando.
In psicologia si parla di “bias cognitivi” per indicare alcune distorsioni del nostro sguardo sulla realtà. Una l’abbiamo già vista a inizio pezzo, è il cosiddetto bias del presente, ossia la tendenza a dare priorità alle esigenze più spazialmente e temporalmente vicine, ma ce ne sono moltissimi altri che ci stanno rendendo ancor più difficile gestire la crisi climatica. Qualche esempio: tendiamo a credere che un evento catastrofico colpirà altre persone, in altri luoghi, prima di noi (bias di ottimismo), e se anche questa catastrofe sta per colpire noi, prima di agire controlliamo come si stanno comportando le persone che abbiamo attorno (effetto spettatore). Tendiamo a credere che la situazione in cui viviamo non potrà cambiare radicalmente (bias di status quo), e siamo anche propensi a preferire che le cose rimangano come sono, soprattutto se ci abbiamo investito tempo e aspettative (errore costo-effetto). E ancora: siamo inclini a credere che bastino singole azioni individuali per porre rimedio a un problema (bias della singola azione), e quando ci viene fatto presente che non è così, ci convinciamo che qualunque cosa facciamo sia inutile (bias di pseudoinefficacia). Non bastasse, ci risulta difficile ampliare il nostro sguardo sul mondo anche perché tendiamo a selezionare notizie e informazioni che siano in linea con le nostre idee e convinzioni (bias di conferma).
Tutte queste distorsioni contribuiscono a nasconderci quanto il mondo in cui viviamo sia già cambiato, e a prestare ascolto a chi, spesso strumentalmente, ci dice che c’è ancora tempo per intervenire, che non sono necessarie azioni drastiche, che una “soluzione” la possiamo ancora trovare.
Fare attenzione alle scadenze
Non è un caso che il dibattito sulla crisi climatica sia costellato da date di scadenza: si parla di obiettivi da raggiungere entro il 2030, il 2050, il 2100. Ed è giusto che si faccia: già è difficile promuovere un’azione climatica drastica, farlo senza porsi obiettivi a termine sarebbe fantascienza.
Ma fissare delle scadenze è anche pericoloso, se non accompagnato a una comunicazione chiara, e questo perché può rinforzare l’idea diffusa secondo cui la crisi climatica si manifesterà sotto forma di apocalisse, e in un periodo specifico. Se c’è però una cosa che le alluvioni, le cappe di calore e gli altri eventi estremi di quest’estate dovrebbero averci insegnato è che la crisi climatica è già qui, sta già causando danni devastanti e per certi versi è già incontrovertibile. Questo non significa che non sia possibile porre rimedio alla situazione, anzi. Significa solamente che, se proprio vogliamo ragionare per punti di non ritorno, alcuni li abbiamo già superati.
Quando nel 2018 uscì un rapporto speciale dell’IPCC che avvertiva che il riscaldamento globale avrebbe potuto superare gli 1,5 gradi nel periodo compreso tra il 2030 e il 2052, molti si affrettarono a scrivere che il mondo aveva a disposizione “solo altri 12 anni”. Il che lasciò intendere ad alcuni che fino al 2030 il problema sarebbe stato gestibile, e dunque non fosse necessario avviare una transizione ecologica nell’immediato.
Il punto è che il riscaldamento globale non è qualcosa che possiamo arrestare schiacciando un pulsante, è il prodotto dell’enorme quantità di gas serra che abbiamo sputato nell’atmosfera dalla rivoluzione industriale a oggi e che lì rimarranno per molto tempo. Il cambiamento climatico che ne consegue è cominciato decenni fa e continuerà per altri decenni, non procede per tappe e soprattutto non rispetta scadenze.
Le scadenze, l’abbiamo detto, sono punti di fuga arbitrari, utili a organizzare uno sforzo sovranazionale altrimenti impossibile da coordinare. Ma occorre tenere bene a mente che il tempo è già scaduto. Se non troviamo il modo di sottrarci a queste distorsioni cognitive, se continueremo a pretendere tutto il premio subito, per tornare alla metafora di inizio pezzo, continueremo a promulgare leggi che rimandano il problema a periodi successivi, scaricando costi sempre meno sostenibili sulle spalle delle nuove generazioni.