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Opinioni
Festival di Sanremo 2025

Perché a Sanremo 2025 hanno vinto i cantautori e non le formule stanche del pop

Sanremo 2025 ha visto il fallimento delle formule che hanno funzionato nel pop degli ultimi anni, rivalutando scelte più cantautoriali. Proviamo a capire il perché.
A cura di Federico Pucci
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Da sx Brunori Sas, Olly e Lucio Corsi (ph Marco Alpozzi/LaPresse)
Da sx Brunori Sas, Olly e Lucio Corsi (ph Marco Alpozzi/LaPresse)
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«Felice chi è diverso / essendo egli diverso. / Ma guai a chi è diverso / essendo egli comune». Se proviamo a considerare nell’insieme il risultato finale e complessivo del Festival di Sanremo 2025, questi versi che aprono gli Appunti di Sandro Penna ci tornano comodi. Perché la classifica finale impone una riflessione sulla direzione non tanto della rassegna, ma dell’industria musicale. Un’occasione per ragionare su tutti i ribaltamenti di aspettative e dare un senso alle sue storie quasi miracolose – tra cui, il magnifico secondo posto di un cantautore che fino a cinque giorni fa era sconosciuto alla maggior parte degli italiani.

Se si esclude il giudizio di qualche illuminato giornalista che ci aveva visto lungo (ehm), il podio di sabato sera – Olly, Lucio Corsi e Brunori Sas – è un sovvertimento delle aspettative. Quasi un prodigio. Eppure, guardando con attenzione dentro le canzoni, si poteva immaginare un esito finale molto simile a questo. Come mai in una competizione riservata a pochi autori freelance, alla fine hanno trionfato tre cantautori? Tre artisti che, con tutte le differenze che li separano, hanno portato in gara canzoni composte con i collaboratori di una vita e non con i professionisti più richiesti dall’industria? Forse perché, a ben vedere, il pubblico si è stancato di un mercato musicale che replica sé stesso, e ha risposto con entusiasmo a qualcosa di diverso. Proviamo a capire perché.

Osservando la storia recente del Festival tutti concordano su un punto: la vittoria di Soldi di Mahmood nel 2019 fu una rivoluzione. Arrivato a sorpresa da Sanremo giovani, la futura popstar convinse una parte sufficiente del pubblico generalista della bontà della sua canzone, nonostante quel genere di pop influenzato dal rap non fosse esattamente sul menu festivaliero di quell’anno, né dei precedenti. Qualcuno vide in questo evento la vittoria del mercato sulla bolla sanremese: finalmente trionfava ciò che piaceva alla gente. Sì, ma è più sfumato di così. Per esempio, sfido chiunque a sfogliare la classifica dei 100 singoli più venduti nel 2018 e trovarvi proposte profondamente allineate con la musica di Mahmood. Affinità, forse sì. Ma Mahmood aveva convinto una parte sufficiente dell’ascoltatore del Festival, ignaro di chi fossero lui, Charlie Charles e Dardust, con la forza di una composizione e produzione che, semplicemente, suonavano inevitabili: forti, a prescindere da tutto. Un momento illuminante ma che non ispirò la lezione giusta, col senno di poi.

Visto il potenziale commerciale di questa trasformazione dei gusti (la musica urban e con un beat deciso funziona a Sanremo!) nei cinque anni successivi molte case discografiche hanno cambiato approccio al Festival. Se Mahmood era stato lanciato nella stratosfera con la sua versione del prodotto di moda del momento, forse questa magia poteva ripetersi. Forse, con un pubblico più giovane in arrivo su Rai1 per una settimana, Sanremo poteva diventare da passiva vetrina a dinamica strategia di marketing musicale.

Bisogna dire che, durante la gestione Amadeus, questo “rinnovamento” della proposta musicale pop non ha lasciato a desiderare. Una Elodie e una Annalisa alla volta, una Madame o The Kolors alla volta, abbiamo avuto pane per i nostri denti: era stata una traiettoria commerciale ed estetica nuova a portarli all’Ariston, e questa freschezza (anche nei revival, tipo quello italo-disco) si è sentita. Ma ogni festa, a un certo punto, deve finire. A quanto sembra, la campanella è suonata nel primo Festival della nuova gestione Conti.

Si è parlato tanto di passatismo, di “ritorno al Sanremo di una volta”. Quando penso a questa valutazione, non mi immagino la riesumazione di Claudio Villa o il recupero nostalgico del playback degli anni ‘80: penso, semmai, al consolidamento. Bastava calcolare l’equilibrio (molto sbilanciato) tra novità e familiarità per intuirlo da subito: contando il numero di partecipazioni dei concorrenti e la media degli anni passati dalla loro ultima visita in riviera, si trovava un coefficiente di freschezza molto basso. Anche solo la rediviva separazione tra Campioni e Nuove proposte doveva insospettirci. Ascoltare le canzoni ha confermato queste precoci impressioni.

Troppe canzoni in gara quest’anno ricordavano altrettante canzoni in gara nei quattro anni precedenti. Non sto parlando di melodie o armonie prese in prestito o citate, perché di plagi che non sono tali sono piene le strade di Sanremo! Per esempio, la retromania era evidente anche nelle canzoni finite sul podio. Volevo essere un duro ricorda per argomento e composizione diverse canzoni glam rock, comprese tracce di artisti come Lou Reed (da Vicious a Sweet Jane) che per Lucio Corsi sono esplicita fonte di ispirazione. E nella strofa de L’albero delle noci di Brunori si è intravista la melodia di Rimmel di De Gregori, paragone peraltro che accompagna il cantautore calabrese dai suoi esordi. Insomma, se volessimo partecipare a questo scadente gioco dell’originalità, non ne uscirebbe vivo nessuno. Del resto, è popular music, non la Biennale di Venezia.

Ma c’è imitazione e imitazione. La semplicità straordinaria della canzone di Corsi, per esempio, è funzionale a quel che racconta: l’ordinario che aspira al favoloso imparando a essere sé stessi, e non a imitare i modelli eroici degli altri. I versi di Penna citati all’inizio tornano utili anche qui, e in fondo la morale intera del Festival si potrebbe riassumere in questo gioiello rock’n’roll, che senza strategie decise da laureati alla Bocconi ha funzionato alla grande in tutto e per tutto. Una canzone che comunica il suo contenuto emotivo dal primo verso (e titolo), che non si nasconde, che non chiede letture esoteriche. Anche il duetto con Topo Gigio è stato funzionale ad amplificare il messaggio della canzone in gara: quasi sempre chi fa così nella serata cover, poi ha grandi soddisfazioni il sabato sera. Lucio Corsi ha trionfato non perché la sua canzone era completamente originale, ma perché tutto quello che ha portato sul palco ha contribuito a raccontare la sua storia e la storia della canzone. Un resoconto ben diverso emerge dalle posizioni più basse della classifica.

Qui abbondano le proposte che meglio di tutte rappresentano l’identità contraddittoria di questa edizione: produzioni dance-pop che nella timbrica e negli arrangiamenti assomigliavano terribilmente a proposte recenti, e che non sapevano giustificare questa adesione stilistica con nessun tipo di messaggio. Non restaurazione, ma consolidamento. Del resto, se proviamo a riprendere in mano le classifiche dei singoli più venduti, stavolta dell’anno scorso, notiamo un bel cambiamento rispetto alla precedente visita agli archivi FIMI: tra i primi 100 singoli del 2024, le canzoni del Festival o che assomigliano a quelle del Festival (magari interpretate dagli stessi artisti) sono diventate la maggioranza. Nel 2025 troppi concorrenti hanno portato canzoni perfettamente in linea con i trend dell’anno passato, e si è sentito.

Se tra qualche anno chiedessimo a uno sconosciuto di citare le canzoni del 2024, non dubito che citerebbe Sinceramente o Tuta Gold o Click Boom! o I p’ me, tu p’ te, tutte passate dall’Ariston. Se gli ponessimo la stessa domanda, ma per il 2025, siamo certi che citerà Febbre o Il ritmo delle cose o Anema e core o Fuorilegge? Copiare stili in voga non è un peccato mortale, e può dare anche esiti memorabili: il beat italiano, che ha prodotto capolavori, non era altro che un grande copia-e-incolla. Ma questo Festival ha dimostrato ancora che prima di tutto servono i pezzi – personalmente ringrazio questa legge universale, che mi garantisce un posto fisso con questa rubrica.

E i pezzi in questione, quelli che “hanno deluso” non hanno saputo giustificare con la scrittura (melodica, armonica, lirica) il loro debito nei confronti degli stili più in voga. Perché suonavano così uguali a canzoni di successo? Se non – si può ipotizzare – proprio perché quelle canzoni “imitate” avevano avuto successo? Certo, è comprensibile operare in questo modo se si pensa ai grandi team che dipendono dalla fortuna di un brano: è la stessa logica dei blockbuster cinematografici che puntano sulla ripetizione di formule e sono diventati un interminabile franchise. Ma a un certo punto, l’investimento non rientra più. Perfino Tu con chi fai l’amore dei The Kolors, per la quale comunque prevediamo una lunga permanenza nelle nostre sinapsi e si è difesa con un onorevole piazzamento a metà classifica, non ha saputo giustificare fino in fondo il recupero della formula tematica e sonora di Un ragazzo una ragazza, per esempio.

Forse è anche un caso di scarso interesse: io, che non credo alle visioni de-umanizzanti delle popstar come marionette di poteri forti della discografia, temo che semmai nelle loro bolle creative non penetri abbastanza musica da nutrire una cultura un gusto. Ma sono solo ipotesi. La realtà è che alle due di notte, nessuno dei “famigerati” autori che si sono divisi i crediti di gran parte dei brani era finito sul podio. Nessuna delle formule più in voga nell’ultimo quinquennio era arrivata tra i primi cinque posti – a malapena si potrebbe dire giusto per Fedez. Come mai? La mia ipotesi è che a furia di ingolfare il mercato di canzoni che ricorrono alle stesse formule e agli stessi cliché, la pazienza del pubblico si è esaurita. Una stanchezza che può diventare ancora più pesante secondo le attuali regole dello streaming per cui il catalogo è diventato preziosissimo, ben più del flusso continuo di nuove canzoni: infatti, l’80% degli ascolti è dedicato a musica “vecchia”, che può voler dire anche solo del 2022. Bene, se la comunicazione delle major mi ha convinto – legittimamente o meno – che nulla potrà mai superare le canzoni del Festival, pompate da febbraio fino a dicembre in tempo per presentare l’infornata nuova, dove troverò il posto nelle mie giornate per fare spazio anche alle nuove canzoni, pressoché indistinguibili dalle precedenti?

Questa stanchezza non è una novità di per sé. Nel suo libro sull’industria del pop, The Song Machine, il giornalista John Seabrook cita una legge non scritta della radiofonia americana: a ciascun periodo di grande diffusione del pop formulare segue una fase inevitabile di rifiuto che fa emergere soluzioni estreme. Una specie di reazione spontanea del pubblico a un’abbuffata, quando le pietanze cominciano ad avere un sapore indistinguibile fra loro. Il leggendario programmatore Guy Zapoleon definiva “the doldrums” (diciamo “crisi”, o “depressione” in senso statistico più che psicologico) questa flessione dell’interesse. E un’altra leggenda della radio americana come Tom Poleman ascriveva ai “doldrums” l’ascesa negli anni ‘90 di hip-hop e grunge. Naturalmente, il pop non smette di esistere, oggi come ieri, ma è in queste contingenze che i suoi autori, produttori e interpreti devono dare il massimo – qualunque cosa significhi – o cambiare strada. Quest’anno, tra i grandi nomi del pop tornati alla kermesse, si è visto poco di entrambi.

Tutto ciò non vuole togliere un grammo di merito ai risultati di Corsi e Brunori. Nemmeno di Olly, la cui canzone forse non si distingue per eccezionalità stilistica, ma è scritta in modo estremamente intelligente, come abbiamo già detto ben prima della vittoria. Anzi, è proprio perché hanno scritto bene, arrangiato bene, interpretato bene, gareggiato bene che le loro sorti sono migliori di quelle di altri colleghi. Ma bisogna anche valutare nell’insieme questo particolarissimo frangente storico come una possibile svolta, che ricorda per tanti versi il 2019. Nel 2025 una parte consistente del pubblico generalista ha detto “basta” alle soluzioni già sentite. Senza essere influenzato da strategie di comunicazione o grossi investimenti pubblicitari, senza sapere poi molto delle alternative, ha appoggiato di pancia la freschezza e la verità di queste proposte. “Altre”, sì, ma non estranee se si guarda l’industria musicale dall’alto.

Volevo essere un duro e L’albero delle noci non vengono dal nulla: l’indie, comunque lo si intenda, è già arrivato spesso a Sanremo; e, fuori dalle porte dell’Ariston, basta andare a un concerto di Brunori o Lucio (ma perché non dei Fast Animals and Slow Kids o dei Post Nebbia, di Whitemary o di Emma Nolde) per ricordarsi “come si fa”. Eppure, i percorsi di artisti che cercano semplicemente di essere sé stessi hanno smesso di nuovo di passare dalla Liguria. È arrivata l’ora di una nuova sveglia per l’industria: se davvero il mercato è tornato ricco come si dice, sarà il caso di investire quelle risorse extra in voci che resistono alla tentazione di omologarsi, che provano a dire la loro. Se la lezione del 2019 è finita in un mare di conformismo, speriamo che la lezione del 2025 porti a una vera primavera per la musica italiana d’autore, a qualunque cosa decida di assomigliare, alle sue condizioni.

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Federico Pucci è un giornalista musicale. Ha collaborato con ANSA dal 2012 al 2019, occupandosi di spettacoli e cultura per la sede di Milano. Tra il 2020 e il 2023 ha diretto il magazine musicale online Louder, creando e producendo oltre 200 videointerviste e format originali. Nel 2019 ha scritto un libro sui sessant'anni di storia di Carosello Records. Ogni settimana pubblica una newsletter chiamata Pucci.
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