Perché a Natale dovremmo ascoltare Fairytale of New York dei Pogues con Kirsty MacColl
A Natale si avverano i miracoli. Sotto sotto ci vogliamo credere tutti, religiosi e no. Forse lo facciamo perché la stagione ci invita a pensarlo: nel momento di massimo buio sull’emisfero settentrionale (tecnicamente ieri), e interrotte le attività lavorative, sentiamo il bisogno di augurarci una ripartenza, un riavvio. E se le canzoni natalizie – abbiamo visto – sembrano particolarmente efficaci a trasportare lo spirito delle feste, ce n’è una in particolare che ha catturato questo senso di catarsi e ce lo fa avvertire in ogni ascolto: Fairytale of New York dei Pogues con Kirsty MacColl.
La canzone, che per ammissione dello stesso cantante, autore e frontman Shane MacGowan richiese due anni per essere scritta, è divisa in tre sezioni con tre stati d’animo ben distinti, nonostante un’ossatura armonica identica. Una lunga introduzione in 4/4 fa da commosso preludio alla fairytale (“fiaba”) vera e propria, incorniciando il racconto in quello che sembra un sogno alcolico più che un resoconto affidabile: la voce narrante, sbattuta in galera a smaltire una sbornia alla vigilia di Natale, sente un compagno di cella cantare una canzone tradizionale e si commuove pensando alla sua amata, e mentre chiude gli occhi si augura che l’anno nuovo porti buoni auspici. I buoni auspici arrivano presto (troppo presto per essere vero?), nella strofa immediatamente successiva. Mentre ancora il pianoforte suonato da James Fearnley dondola, ecco gli archi della produzione di Steve Lillywhite (noto soprattutto per i primi tre album degli U2) a sottolineare la magia del momento: il protagonista ha puntato tutto su un cavallo scarso, dato 18 a 1, e ha vinto la somma necessaria per provare a rifarsi una vita a New York. Ma non da solo.
La seconda sezione è dove comincia il duetto e la fiaba si incarna. Per distinguere il sogno dal racconto serve un taglio netto: arriva quando il 4/4 zoppicante dell’intro cede il passo a un 6/8 salterino, il tempo tipico della giga irlandese, qui tecnicamente doppia giga rigidamente divisa in due sottounità ternarie (zùm-pa-pa zùm-pa-pa). Non più pianoforte e orchestra ma basso, batteria e fisarmonica accolgono la voce stentorea di Kirsty MacColl, pronta a dividersi l’aria con MacGowan, una terzina alla volta. La cantante, tragicamente scomparsa nel 2000, descrive le meraviglie di un’America che assomiglia al mitologico paese della Cuccagna: “Macchine grandi quanto bar e fiumi d’oro”. La sua interpretazione comunica l’attesa impaziente di chi non vede l’ora di rifarsi una vita, di trovare una nuova casa. E come nelle migliori canzoni, emozione e scrittura vanno di pari passo: in otto battute, dopo essere stata sbatacchiata come un pellegrino ed essersi posata momentaneamente su un Si e un Mi che non promettevano niente di buono, la melodia trova pace nella tonica (“Broadway was waiting for ME”: Re), adagiandosi dove era previsto che andasse, la nuova casa promessa per due ennesimi frutti della diaspora irlandese.
La fantasia di cui è imbevuta tutta questa prima strofa è tale da invadere anche il ritornello, dove si parla di un coro del dipartimento di polizia di New York che nella realtà non è mai esistito. Non importa, così come non importa stabilire se i gatti portino davvero gli stivali, perché Fairytale è una fiaba e quel coro immaginario ha una sola missione: togliere la parola ai due barcollanti protagonisti, per rendere tutti quanti partecipi del messaggio della loro storia. Anche qui, l’arrangiamento riflette quello che sul pentagramma ci dice la scrittura. Gli archi e il coro aumentano l’intensità, e così in nemmeno sette battute melodia e armonia fanno montare e rilasciano rapidamente la tensione: non serve il Conservatorio per sentire questa tensione, l’avverti tra “Galway Bay” e “Christmas Day”, il primo cantato sopra un Si minore che è il punto più lontano dalla “casa”, letteralmente (Galway Bay è il titolo di una nostalgicissima canzone irlandese), e il secondo sul Re maggiore che risolve tutto, come un bel regalo sotto l’albero.
Forse non sai che, da tradizione, la giga veniva ballata prima saltellando sul piede destro e poi saltellando sul sinistro, un po’ per gioco un po’ per simbolismo. Ecco, la seconda metà della sezione centrale di Fairytale of New York fa lo stesso, ma con la sua storia: la concordia svanisce, così come – apparentemente – il gruzzolo dei due. E così, alle sedici battute esaltate di poco fa seguono otto svelte e rabbiose battute cariche di insulti. La realtà di queste due persone imperfette li ha raggiunti: nemmeno la fiaba è al sicuro dalla dipendenza e dalla malasorte. Il secondo ritornello, allora, lascia un retrogusto decisamente amaro. La storia non può finire così. Ma come?
La terza e ultima sezione della canzone, sempre insistendo sui soliti accordi, risponde nel modo più umano a questa domanda: una sintesi. Il ritmo teso della giga si scioglie nell’andatura lacrimosa e morbida dell’introduzione, e abbiamo di nuovo un botta e risposta, ma quello che le due voci si rinfacciano è solo l’amara realizzazione di essere entrambi sbagliati, di avere una falla irrisolvibile, che neppure la più miracolosa vittoria ai cavalli potrà raddrizzare. Il finale è stato volutamente lasciato aperto da MacGowan: non sappiamo e non dobbiamo sapere se i due personaggi torneranno insieme. Ma sappiamo che, trovando un equilibrio (musicale ed emotivo) tra il sogno e la realtà si ottiene un vero miracolo: accettarsi nonostante gli sbagli, comprendere perché fin dal principio il sogno non era solitario, ma con un’altra persona. “Da solo non ce l’avrei mai fatta, ho costruito i miei sogni intorno a te”, dice Shane prima di lasciare spazio a un ultimo ritornello, stavolta davvero liberatorio (e una brevissima pausa a effetto lo sottolinea): non sappiamo, insomma, se tutto quello che abbiamo sentito sia solo una grande fantasia ubriaca. Ma sappiamo che, soprattutto a Natale, e in particolar modo dopo un anno difficile, abbiamo bisogno di riscoprire la voglia di costruire insieme. Questo è, tutto sommato, il significato ultimo dell’armonia.
Il 30 novembre Shane MacGowan è passato ai più dopo 65 anni complicati e spesso distruttivi come quelli di molti personaggi delle sue canzoni. Durante i suoi funerali, trasmessi in diretta dalla chiesa di Nenagh come se si trattasse di un santo o di un monarca, Fairytale of New York è stata cantata e suonata da Glen Hansard, Lisa O’Neill e i Pogues. Già al secondo ritornello le persone sedute nei primi banchi si sono alzate e hanno cominciato a ballare intorno al feretro. Non deve stranire, nella cultura irlandese le veglie funebri sono occasioni di canto e di danza: nel momento più buio si celebra la vita, in tutta la sua bellezza e imperfezione.
Che questo sia accaduto sulle note di Fairytale of New York non è un caso, perché è la canzone stessa a darci questo messaggio, che il vero miracolo di Natale (il primo giorno dopo il lungo buio) sia la speranza e la voglia di andare avanti, insieme, nonostante gli errori e i passi falsi. Sulla scia del lutto, il pubblico irlandese ha mandato la canzone dritto al numero 1 della classifica. Nel Regno Unito, ai tempi (1987), il primo posto fu occupato da Always On My Mind dei Pet Shop Boys, ma nemmeno quest’anno Fairytale è stata la Christmas Number One, nonostante una campagna con tanto di pubblicazione di un vinile: il primo posto natalizio è andato a Last Christmas, per la prima volta. Ma non possiamo rimproverare la Gran Bretagna. In Italia, il paese che solo sotto Natale si scopre nostalgico ed esterofilo facendo spazio in classifica a Mariah Carey e Michael Bublé, a Bobby Helms e Bing Crosby, Fairytale non si è mai piazzata nemmeno tra le prime 100. Chissà se anche questa storia avrà un finale alternativo, quando venerdì usciranno le classifiche della settimana di Natale.