Per un nuovo galateo di genere: lingua e linguaggio, attenzione alle parole che offendono
Il linguaggio, lo abbiamo detto più volte, può offendere, sminuire, escludere, intimidire e, anche inconsciamente, rafforzare stereotipi e disuguaglianze. La non accettazione di ciò che è altro non si nasconde solo dietro atti e gesti violenti, ma anche dietro le parole, perfino (e forse soprattutto) quelle utilizzate con ironia. È di qualche anno fa, ad esempio, la campagna di comunicazione Non fa ridere, condotta da Arcigay nell’ambito di un progetto di respiro europeo, che smonta le narrazioni che si costruiscono attorno all’hatespeech che si registra online. Spesso infatti si usano paragoni, metafore o allusioni al mondo omosessuale con intento apparentemente scherzoso – almeno così dicono gli autori – per relativizzare un problema, insultare e disprezzare oppure semplicemente per riferirsi a qualcosa o qualcuno senza voler effettivamente commentare l’orientamento sessuale.
Tuttavia, indipendentemente dall’intenzione, queste frasi paragonano l’essere omosessuale a qualcosa di strano, sbagliato o addirittura inferiore. Quello dell’omofobia è solo uno dei possibili esempi e forse il più evidente. Esistono, però, tanti modi di offendere le persone anche senza rendersene conto. Ad esempio facendo domande e/o battute fuori luogo o inopportune. Il consiglio del galateo in questi due casi è quello di chiedersi se quella battuta o quella domanda siano davvero utili e educate: è solo curiosità (morbosa) o arricchisce la conversazione? E se fossi dall’altra parte, sarei a mio agio a rispondere a domande del genere? Mi sentirei a disagio se si ironizzasse o si facesse una battuta del genere su un tema per me importante, intimo o delicato? Attenzione a non liquidare la risposta con troppa velocità e facilità. È sempre buona norma provare a immedesimarsi nell’altra persona tenendo conto, però, che le persone LGBTQIA+ subiscono sistematicamente discriminazioni, bullismo e ironia gratuita ed è dunque giusto far appello a una dose maggiore di tatto e sensibilità.
Ulteriore elemento da tenere in considerazione è che la terminologia LGBTQIA+ è in continua evoluzione e cambia nel tempo e nello spazio, in base al luogo, alla cultura o alla religione di appartenenza, per cui meglio non dare nulla per scontato e informarsi regolarmente. Cosa fare? Innanzitutto evitiamo di fare, come si suol dire, di tutta l’erba un fascio. Le sigle che individuano le diverse comunità hanno dei significati ben precisi e non possono essere utilizzate come sinonimi. E poi teniamoci aggiornati.
Termini che prima erano correnti, ad esempio, possono entrare in disuso, assumere una connotazione negativa o essere sostituiti da altri che si avvertono come più appropriati. Un esempio è quello della parola “transessuale” ormai sostituita, come suggerito dall’amica Antonia Monopoli, da “transgender” sia per svincolare il termine dalla sfera medica e chirurgica, sia per una questione di privacy e delicatezza, giacché potrebbe rivelare in modo implicito lo stadio di transizione a cui una persona è giunta o suscitare curiosità a tal proposito. Ci sono poi tre parole che possono essere molto offensive se usate con troppa leggerezza:
- Orientamento. A volte si usa la locuzione “orientamento sessuale” per riferirsi in modo generico alle persone LGBTQIA+. “Orientamento” però è una parola che fa riferimento all’attrazione di una persona verso altre persone e non include automaticamente le questioni di identità di genere.
- Cambio sesso. Non si dovrebbe mai chiedere a una persona transgender se abbia o meno subito un’operazione. Inoltre parlare di “cambio” sesso può essere piuttosto indelicato. Di fatto si tratta solo di affermare il genere, non di cambiarlo, per cui se proprio non possiamo fare a meno di chiedere, parliamo di completare la transizione.
- Preferire. Sembrerà strano, ma il galateo autorizza a fare alcune domande personali come chiedere il pronome se queste aiutano a creare una relazione. Naturalmente in modo rispettoso e soprattutto in privato. Attenzione però a non usare la parola “preferire”: l’identità non è qualcosa che si preferisce, ma un modo di essere. Evitiamo quindi di chiedere “Quale pronome preferisci?” e chiediamo piuttosto “Quale pronome usi?”.
Seguire la lingua che cambia non è sempre facile e nessuna persona potrà mai considerarsi davvero esperta di queste questioni, ma chiunque può continuare a monitorarne cambiamenti ed evoluzioni per assicurarsi di utilizzare sempre i migliori modi di relazione possibili. Qualche caduta di stile, se saltuaria e fatta con evidente ingenuità, può essere perdonata. Se invece l’errore è frequente e sistematico non ci sarà scusante capace di mitigare la maleducazione.
Questo intervento è tratto da "Il nuovo galateo di genere" (Newton Compton Editori) di Samuele Briatore, presidente dell’Accademia Italiana Galateo, coordinatore del Master in cerimoniale, galateo ed eventi istituzionali e assegnista di ricerca sulle tematiche inerenti il galateo presso Sapienza Università di Roma