Ci si raccomanda di scolare gli spaghetti ardenti, lo studente si scusa, il suo errore è stato un raptus, si cuce un costume per la festa di Aulin, la conferenza è tenuta da un ottimo delatore (mica come quello di ieri che non spiaccicava parola), e la signora che incontriamo quando andiamo all’ospedale per il ketchup ci racconta che non si è sposata ed è ancora nobile (mentre il signore accanto è celebre, e occhieggiano).
La nostra vita è intessuta di malapropismi, anche se non molti li sanno chiamare col loro nome (accontentandosi di termini meno sottili come ‘errori’ o ‘strafalcioni’ o perfino ‘papere’). Questi scambi sbagliati fra parole simili (fra paronimi) hanno la meraviglia del candore, dell’ingenuità che spesso accompagna l’ignoranza; si manifestano in particolare come effetto della scarsa padronanza di termini aulici, o tecnici, o stranieri, che paradossalmente si vorrebbero usare per parlare e scrivere in maniera più colta, raffinata e appropriata.
Proprio il loro candore è alla base della loro arcinota carica comica, carica che li rende strumenti quasi indispensabili nella borsa di chi vuol far ridere.
Al malapropismo hanno ricorso comici italiani d’ogni tempo, da Totò (che voleva adire alle vie letali) a Frassica (col suo amore plutonico) a Checco Zalone (non si possono cancellare sei anni d’amore con photoshock). Ma è uno strumento universale, usatissimo, per esempio, anche nei Simpson.
Quando a Springfield discutono se costruire un muro per tenere fuori gli immigrati, Homer afferma «Condivido la tua xilofobia» e Lisa «Papi, vorrai dire xenofobia. La xilofobia è la paura degli xilofoni.» e Homer «Io ho paura degli xilofoni! È la musica che si sente quando ballano gli scheletri!» (Nota a margine: la xilofobia in realtà è la paura del legno, Lisa.)
Questo termine, ‘malapropismo’, nasce dal nome della protagonista della commedia di Sheridan “The Rivals”, del 1775: Mrs. Malaprop. Per tutta la durata di questa commedia, Mrs. Malaprop scambia parole simili: pineapple per pinnacle (cioè ‘ananas' per ‘cima'), allegory per alligator (‘allegoria' per ‘alligatore') e così via, con risultati comici tanto travolgenti che la lingua ne ha immortalato il nome. (Nome che, fra l’altro, è costruito a partire dal francese mal à propos ‘a sproposito'.)
Ma ecco, Maccio Capatonda ci apre uno scorcio su un uso superbo del malapropismo. Anche solo vedendo “Omicidio all’italiana” si capisce che nelle sue mani non resta un mero strumento comico da usare per suscitare il riso: il malapropismo nelle sue opere diventa un sistema. La ricerca di paronimi, di parole simili da scambiare e mescolare in nomi e battute è costante, ed è funzionale non tanto a far ridere dell’ignoranza dei personaggi, ma a calarci in un luogo di connessioni e pensieri diversi e deformi, in un divertito senso di confusione. Confusione che si rivela sorprendentemente utile alla compassione, e alla comprensione di quel ribaltamento che è l’ironia. Non si tratta di giochi di parole, ma di giochi di concetti.
Della serie: quando la comicità mostra una consapevolezza linguistica che spesso il dramma vede col binocolo.