“Non mi avrete mai”: la storia vera di una vita al massimo
“Ma comm’aggio fatt’ a finì ccà dint’? [..] Guardo il soffitto e cerco un altro ricordo da unire alla mia costellazione di buchi e macchie, qualcosa che mi aiuti a capire, a rispondere. Mi viene in mente solo una cosa, un fatto vecchio, roba di vent’anni fa. Tenevo sette anni. Non avevo fatto niente di male. A parte essere povero”. Inizia così l’autobiografa di Salvatore Capone, nato negli anni ’70 in una famiglia di dieci fratelli, tra le palazzine di Scampia, legge 167, edificate quando attorno a quella che sarebbe diventata la più grande piazza di spaccio d’Europa c’era ancora tanto verde.
Salvatore è in realtà Gaetano Di Vaio, produttore cinematografico fondatore dei “Figli del Bronx”, la sua seconda vita, dopo i primi vent’anni trascorsi tra furti, rapine, droga da spacciare, da tirare o spararsi in vena e soldi, così facili, prima da fare e poi da perdere. “Non mi avrete mai” è il racconto della sua mala educazione, scritto insieme a Guido Lombardi, il regista di “Là-bas”, film che ha lanciato definitivamente “Figli del Bronx” nell’alveo delle produzioni da tenere d’occhio in Italia, avendo portato a casa un Leone Del Futuro alla 68° edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Tra Di Vaio e Lombardi c’è una sinergia creativa che è riuscita ad esprimersi anche nella forma del romanzo, scritto in un napoletano colloquiale, rigorosamente di strada.
Il “ccà dint’” della citazione iniziale è, ovviamente, il carcere di Poggioreale: la narrazione procede infatti su due binari, i flashback della vita di “Stelletella”, ovvero Salvatore (pseudonimo per poter aver la libertà di romanzare, sebbene i fatti siano quasi totalmente reali) e la vita all’interno del carcere, quelle stanze in cui a dormire si sta in quindici invece di cinque, in cui la doccia è calda per 3 minuti alla settimana e le guardie ti sorvegliano in qualsiasi momento, per individuare quello giusto in cui poterti pestare. Detta così su “Non mi avrete mai” sembrerebbe che non ci sia null’altro da dire: una storia di un Bronx come un altro, quel Bronx nostrano ormai arcinoto dall’esplosione “Gomorra” in poi. Invece il libro colpisce, e anche duramente, riempiendo una casella inaspettata nel panorama della letteratura criminale per vari motivi.
Prima di tutto per il punto di vista adottato nella narrazione: tutto è personale, tutto deriva
dall’inquietudine, dalla rabbia che sono sì suscitate dai contesti, ma per ammissione del protagonista, non sono altro che sua colpa. Napoli è un’ambientazione precisa e specifica, ma la responsabilità non è né della città, né dei “politici”, né del “Sistema”, perennemente sullo sfondo con le sue lusinghe di dominio. Da qui l’altra novità del romanzo, cioè il tono ironico, persino canzonatorio con il quale Salvatore enumera delle vicende al limite, che fanno del romanzo una di quelle letture viscerali, da concludere vorticosamente nel giro di poche ore. Nessuno scandalo o sensazionalismo, la vita di Capone/Di Vaio è la storia di un ragazzo irrequieto che non sapeva dove convogliare il suo eccesso di vita, perché in contesti familiari e sociali così estremi, senza alcuna volontà o cattiveria, semplicemente nessuno ha il tempo di guidarti.
Cani sciolti prede e carnefici al contempo, vittime sia di loro stessi che dell’orrore quotidiano. “Sono stato capace di fare cose brutte, lo so, ma non le voglio fare più, anche se continuo ad avere la faccia da delinquente”. La redenzione arriva nella maniera più tradizionale, e cioè attraverso un’espiazione fisica e morale, intessuta di rapporti umani, letture, nuove scoperte al di là della violenza e della brutalità. E più che altro attraverso un amore, tanto acerbo e ingenuo quanto indistruttibile come la speranza che riesce ad edificare, quella speranza che concede alla libertà individuale un valore, finalmente, di sola costruzione.