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Quando l’italiano dei documenti ministeriali non è sbagliato come sembra

Il Piano per la formazione dei docenti 2016-2019 ha sollevato un polverone: motivo di scandalo, più che il contenuto, la lingua con cui è scritto. Termini inglesi ed espressioni di significato oscuro non mancano: qualcuno l’ha inquadrato come gergo aziendalistico, qualcuno ha addirittura parlato di ‘neolingua’. Ma sono critiche del tutto corrette?
A cura di Giorgio Moretti
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Ti stupiresti di non capire la descrizione tecnica di un motore, scritta dall’ingegnere che lo ha progettato? Io, che non sono un ingegnere e che so cambiare una lampadina solo con adeguate istruzioni, no. Ti sorprenderebbe non riuscire a seguire un articolo su una rivista specialistica di medicina che tratta delle verifiche sperimentali sul funzionamento di un farmaco? Neppure: so appena prenderli, i farmaci. E se invece ti arriva in mano un comunicato della Banca Centrale Europea rivolto alle banche nazionali? Dal basso della mia infarinatura di economia posso accettare di avere dei limiti.

In generale, comunque, è raro che qualcuno pretenda di capire meccanica, farmacologia e politica economica senza essere del settore, senza aver approfondito la disciplina in maniera almeno un po’ più che amatoriale. Ma per l’insegnamento non è così.

L’idea che l’insegnante sappia qualcosa che io non so e che dovrei seriamente studiare – non in campo disciplinare, proprio a livello didattico – è quasi inconcepibile, come la quinta dimensione, un colore fuori dall’iride. Ma è così, anche se tutti siamo andati a scuola per lunghi anni: andare a lungo dal dermatologo non ci rende dermatologi. Ed è questo il mio sospetto: sulla difesa dell’italiano nei documenti del Ministero dell’Istruzione pesa il livido spettro del pregiudizio. Il pregiudizio che la professione dell’insegnante non richieda conoscenze specifiche – o meglio, conoscenze che non sono immediatamente alla portata anche dei non addetti ai lavori. Beninteso, non è un pregiudizio espresso: nessuno direbbe pubblicamente che gli insegnanti non devono avere competenze didattiche che non sono alla portata della comprensione immediata del profano. Certi pregiudizi sono occulti, spesso inconsapevoli.

In effetti molti dei termini e delle sigle del Piano per la formazione dei docenti 2016-2019 e oggetto di critica non compongono la neolingua del MIUR, ma la lingua delle Scienze della Formazione. Non un gergo aziendalistico, ma un gergo scientifico. Il fatto che la ‘persona della strada’ (come si sputa aristocraticamente in diritto) non sappia che cos’è il modello di ricerca azione è del tutto normale – e non per questo è una dicitura barbara. È normale che chi non frequenta le scuole non sappia che cosa sia il PTOF o il RAV, così come chi non lavora come medico o infermiere non conosce le decine di sigle usate in ambito sanitario. E se un insegnante o un dirigente parla di cooperative learning (apprendimento cooperativo) o di flipped classrom (classe capovolta), sta parlando di metodologie didattiche specifiche – e non è strano che opti per il termine inglese usato nelle ricerche internazionali, così come fa quando parla di peer observation o peer review.

Anzi, non c’è da stupirsi se proprio nel percorso di un consolidamento della dignità martoriata della professione dell’insegnate si cerca di trovare, mettere in luce e promuovere conoscenze e pratiche specifiche con i nomi che hanno nel dibattito internazionale, e davanti a cui nessuno studente di Scienze della Formazione dovrebbe alzare un sopracciglio – non più di uno di Economia davanti al quantitative easing.

Il lessico dell’insegnamento, oggi più che mai, sta vivendo un’evoluzione che è diretta conseguenza del suo farsi scienza, più che mero artigianato. Si deve venire a patti con la realtà che l’insegnamento è una professione altamente specializzata, che impone un lunghissimo percorso di studi. E fra i ferri del mestiere dell’insegnante c’è un apparato lessicale parimenti specializzato: inutile domandarsi che cosa siano le competenze cross curricolari se non si sa la differenza fra conoscenza, abilità e competenza.

Ma quindi il documento del MIUR è scritto in maniera impeccabile? Certo che no. Semplicemente, i problemi del documento del Ministero sono i problemi del linguaggio burocratico in generale – in cui spicca, fra l’altro, il solito gusto esagerato per gli anglismi. Ma si deve discernere fra pseudo-tecnicismi à la page e termini tecnici veri e propri. Altrimenti si butta il bambino con l’acqua sporca. Altrimenti, per difendere la dignità dell’insegnamento, la si sminuisce.

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Nato nel 1989, fiorentino. Giurista e scrittore gioviale. Co-fondatore del sito “Una parola al giorno”, dal 2010 faccio divulgazione linguistica online. Con Edoardo Lombardi Vallauri ho pubblicato il libro “Parole di giornata” (Il Mulino, 2015).
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