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Non chiamiamolo ‘olocausto’, chiamiamolo ‘Shoah’

Non tutti colgono che il termine ‘olocausto’ dà allo sterminio nazista il colore di un sacrificio religioso: ‘olocausto’ è una parola ricca e complessa, perfino brillante, porta significati non solo dignitosi, ma alti. Per significare un atto d’assassinio così vasto e malvagio serve un nome diverso: ‘Shoah’.
A cura di Giorgio Moretti
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"Con tutto ‘l core e con quella favella
ch’è una in tutti, a Dio feci olocausto"

Fra le prime attestazioni di questa parola in italiano, è la più celebre: sono due versi del XIV canto del Paradiso di Dante. Il poeta pellegrino si accorge di essere stato innalzato al cielo di Marte insieme a Beatrice, e soverchiato dalla grazia si offre a Dio completamente, come in un sacrificio totale di sé, con tutto il cuore, con l'unica, misteriosa lingua (favella) della preghiera.

Sacrificio di animali bruciati completamente nella liturgia (specie ebraica ma non solo), sacrificio come offerta totale di sé, sacrificio in genere: questa è la batteria di significati con cui l'olocausto ha attraversato i secoli, fino al Novecento.
Per una serie di usi di ribalta, complice la severità che hanno le parole antiche della religione e non senza una certa influenza anglosassone, il nome ‘olocausto' è stato cucito su due atti terribili ma molto diversi che hanno segnato la Seconda Guerra mondiale: l'olocausto nucleare, e l'olocausto nazista. Ora, non è un termine sbagliato, in questi usi, anzi calza con raccapricciante descrittività: l'olocausto è propriamente il sacrificio di consumazione totale nel fuoco della vittima sacrificale, e non può non echeggiare la consumazione del forno crematorio e di un'esplosione atomica. Per quanto riguarda il genocidio nazista, poi, è un sacrificio proprio della tradizione religiosa ebraica, quindi non suona affatto impertinente.

Il problema non è che si tratta di una parola sbagliata, ma di una parola troppo sfaccettata, ambigua. Di profilo pare che vada benissimo, ma ha in sé un universo positivo: il sacrificio è una forma di preghiera, di riconoscimento alto del valore, di difesa. Con il sacrificio che cosa mai possono entrarci (l'ha evocato il nostro Presidente Mattarella nel suo profondissimo discorso) le madri che con le ultime forze rincuorano i loro piccoli "nel buio tremendo delle camere a gas"? Niente. Non si è trattato di un sacrificio, ma di una distruzione sistematica perpetrata da umani come noi su umani come noi. Qui c'è qualcuno che viene torturato, ucciso e bruciato senza alcun fine se non quello della sua distruzione.

Shoah. In ebraico la catastrofe, la calamità, la distruzione, la desolazione. Non furono solo persone ebree ad essere uccise da persone naziste nei loro campi di sterminio: come sappiamo quasi non ci fu minoranza che la scampò. Ma furono la maggioranza relativa. Con questa tragica autorevolezza sono decenni che le comunità ebraiche di ogni parte del mondo optano per il nome Shoah in contrapposizione al termine ‘Olocausto', ai suoi omologhi stranieri. Perché non si parla di un sacrificio: si parla di uno dei più terrificanti attacchi alla dignità umana, condotto da nonni dei nostri coetanei. E visto che certi tratti di quei nonni, certi loro modi fare, di pensare stanno tornando in voga, e di giorno in giorno paiono meno inaccettabili, è bene stringere la sorveglianza anche sulle parole, scegliere non quelle che suonano più ricercate e auliche, che presentano i nessi più sagaci, ma quelle più corrette. La Shoah non è irripetibile e non è un sacrificio.

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Nato nel 1989, fiorentino. Giurista e scrittore gioviale. Co-fondatore del sito “Una parola al giorno”, dal 2010 faccio divulgazione linguistica online. Con Edoardo Lombardi Vallauri ho pubblicato il libro “Parole di giornata” (Il Mulino, 2015).
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