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No, il piccolo Lucio non fa rap: è solo un neomelodico

Pop, rap, balli latinoamericani, scenografia a stelle e strisce e genere neomelodico. Null’altro che trovate pubblicitarie. Siamo ancora alla ricerca di un “new wave” mediterraneo.
A cura di Marcello Ravveduto
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“Che cavolo stai dicendo Willis!?” era il tormentone che Gary Coleman, protagonista della sitcom Il mio amico Arnold, ripeteva al fratello quando il padre adottivo, il ricco magnate Philip Drummond, scopriva i guai che avevano combinato insieme alla sorellastra Kimberly. La mia generazione è cresciuta vedendo questa serie televisiva, attratta unicamente dalle peripezie del fanciullo afroamericano, goloso e irrequieto, le cui guance, pizzicate, strapazzate e straziate, erano la passione dei personaggi che si alternavano puntata dopo puntata. Il faccione del piccolo neomelodico Lucio Vario mi ricorda Arnold. Ha lo stesso volto paffuto che ispira simpatia e quella irrefrenabile voglia di strappare a pizzicotti le grassocce gote. Molto probabilmente il paragone con un attore di colore al giovanotto non farà piacere visto che è stato beccato insieme al padre mentre sfoggiano un saluto romano in fasciostyle. Lucio è assurto agli onori della cronaca nazionale per la sua Me piace ‘a Nutella che ha raggiunto su Youtube quasi 9 milioni e mezzo di visualizzazioni.

Un vero e proprio video cult della scena neomelodica napoletana dominata, sempre più, dalla presenza di cantanti minorenni pronti a brandire il microfono come uno scettro. Indubbiamente il successo di Lucio deriva dalla parodia di se stesso, ovvero quel presentarsi come il chiattoncello napoletano, mezzo scugnizzo e mezzo figlio di papà, che insegue il cibo come un’ossessione: si ingozza di cioccolata, se magna nu bombolone, beve la coca cola, ingurgita caramelle, si rifiuta di andare a scuola e si dimena come un ballerino, in spiaggia e in discoteca, circondato da piccole donne estasiate. Un ragazzino tanto capriccioso quanto adorabile al punto da non riuscire a distinguere il personaggio interpretato dal bambino realmente protagonista. Le canzoni di Lucio sono la rappresentazione stereotipata di uno stile di vita preadolescenziale che si lascia suggestionare dalle mode musicali del momento: il pop, i balli latinoamericani e, infine, il rap, tutti ricondotti nell’alveo del genere neomelodico. L’ultima trovata, infatti, è Per amore (il video pubblicato su Youtube il 12 marzo ha già raggiunto quasi 300mila visualizzazioni) che sembra essere ispirata dal desiderio di contaminare rap e neomelodia per rinnovare la canzone vernacolare napoletana.

Insomma, una prova per saggiare la disponibilità dell’audience ad accettare un cambiamento d’immagine senza modificare i gusti del pubblico. A mio avviso, più che imitare Rocco Hunt, Lucio fa il verso ai rapper americani, indossando cappelli e magliette della NBA con l’immancabile catena al collo, che si circondano di belle squinzie in video patinati ad alta definizione. Non c’è nessun riferimento al degrado del ghetto, né alla delinquenza metropolitana, né alla retorica dell’impegno civile. Lo sfondo è un asettico studio fotografico con qualche immagine girata in una discoteca glamour. Il tema della canzone è la solita passioncella d’amore per una ragazzina che, questa volta, impazzisce per il rap. Il brano è una parodia dell’hip hop divenuto, grazie al vincitore di Sanremo, un genere musicale alla moda. Lucio disobbedisce ai genitori, alla maestra e al parroco per conquistare il cuore dell’amata trasformandosi in un rapper, presentato al suo pubblico come un sovvertitore dell’ordine costituito: trasgressore sì, ma per amore. Si tratta, dunque, non di un rap neomelodico ma di una neomelodia rappata finalizzata a richiamare l’attenzione di chi ascolta prevalentemente canzoni neomelodiche ma che comincia ad essere affascinato da un rap orecchiabile.

Se proprio vogliamo risalire ad una prima forma di contaminazione dei generi bisogna tornare al 1998 e rievocare le collaborazioni del veteromelodico Franco Ricciardi con i 99 posse, Luca Persico, Maurizio Capone e Speaker Cenzou. Dal mio punto di vista il primo pezzo crossover è L’unico fuoco in cui cantano insieme Franco Ricciardi, Clementino e Ivan Granatino.

Immersi in un’atmosfera napoletana/newyorkese, tra i grattacieli del centro direzionale trasfigurato in una Manhattan dei poveri, raccontano il divenire di una storia d’amore che cede il passo alla violenza criminale. I protagonisti sono ripresi spesso dal basso per evidenziare una superiorità fisica determinata dalla deliberata volontà di calpestare la città, sia per punirla sia per destarla. La vera novità, tuttavia, sta nell’alternanza tra sequenze ritmate e armonia melodica che corrispondono, in immagini, all’indissolubile intreccio tra amore e morte, fuse in un unico fuoco.

Più che perdere tempo dietro le trovate pubblicitarie dei manager di Lucio Vario sarebbe necessario rintracciare e far emergere la new wave che unisce il neorealismo delle storie di periferia con la melodia dei suoni mediterranei. Ovvero raccogliere i frammenti di una narrazione meno ideologica ma più politica, meno arrabbiata ma più efficace, meno rivoluzionaria ma più quotidiana che può dar luogo alla confluenza di due categorie di ascoltatori ancora lontane: i neorealisti della neomelodica e i ribelli dell’hip hop. Quando le storie d’amore neomelodiche incroceranno la denuncia sociale del rap forse avremo un nuovo neorealismo musicale in cui si riconosceranno non solo i marginali o i ribelli antisistema ma anche la gente che incontri tutti i santi giorni per strada e che finalmente avrà trovato voce grazie ad una canzone.

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