Nicola Lagioia racconta La città dei vivi: “Un esempio di come le storie possono vivere più a lungo”
Nicola Lagioia è tra i finalisti del Premio Napoli per la Narrativa, assieme ad Aurelio Picca ed Enzo Moscato, con il suo ultimo libro "La città dei vivi" in cui indaga la morte di Luca Varani ucciso da Manuel Foffo e Marco Prato senza un motivo apparente. Un libro che ha riacceso la luce su un caso di cronaca che sconvolse il Paese e Roma, in particolare; un racconto che affonda le mani in un caso di cronaca con tutti gli strumenti possibili, da quello del giornalismo a quello della narrativa, per indagare il male e che ha dimostrato, nel tempo, di poter vivere anche in altre forme, dal podcast, alla serie, fino al teatro. Ne abbiamo parlato con Nicola Lagioia, atteso per il 21 dicembre alla serata finale del Premio Napoli che si terrà al Teatro Mercadante di Napoli e che vedrà tra gli ospiti anche lo scrittore francese Emmanuel Carrère.
La città dei Vivi continua a vivere, che difficoltà hai avuto rispetto ai tuoi precedenti?
Questo è un libro diverso rispetto agli altri che ho fatto. È la prima volta che facevo un libro di non finzione, anche se nei libri di finzione ci metti tutta la tua esperienza – cose successe a te o a persone che conosci – però non hai bisogno della documentazione di cui hai bisogno per fare un libro come questo. È un libro particolare, anche se 40 anni fa sarebbe stato più complicato farlo, perché io avevo i tabulati degli sms, dei messaggi Whatsapp, i vocali, e al tempo stesso ho catalogato tutte le interviste che ho fatto in maniera più semplice, mentre se questo libro lo avessi scritto 40 anni fa ci avrei messo il triplo del tempo. Per esempio, coi tabulati di Whatsapp che erano agli atti del processo sapevo cosa hanno detto e sapevo cosa avevano detto per sei mesi, quindi puoi entrare ancora di più nei personaggi.
Un libro che poi si è allargato diventando tante altre cose…
Questo libro è diventato tutta una serie di altre cose, i contenuti e le storie hanno più possibilità di andarsene in giro. Sky ha preso i diritti per una serie tv – vent'anni fa sarebbe stato per un film -, poi è diventato un podcast, non un audiolibro, perché non è la versione audio del libro ma segue un'altra strategia narrativa. Questa cosa mi è piaciuta perché mi è sembrata una forma narrativa i cui codici non sono ancora del tutto canonizzati, quindi c'è ancora una prateria per inventarti delle cose. Mi sembrano – con tutte le proporzioni anche economiche – quello che erano le serie dieci anni fa, quando ancora non esistevano gli algoritmi rigidi che ti permettono un livello medio molto buono ma ti impediscono una serie di guizzi, a parte per registi particolarmente famosi. E i podcast pare che vivano quella situazione. Dopo il podcast c'è stato un recital teatrale in cui ci siamo io e un musicista alla consolle: io racconto e lui mette le voci che intercala con suoni e musiche.
Tutte queste possibilità allungano la vita dei libri allargandone le prospettive e le possibilità, no?
Questo libro sta avendo vita lunga, è uscito nell'ottobre del 2020 e adesso che siamo a dicembre 2021 il libro è ancora lì, non è ancora tascabile e ha creato attorno a sé una comunità importante. Questa è un'altra novità, ovvero la comunità che si stringe attorno al libro, perché è cambiato tutto, penso anche ai social.
In che senso? Che influenza hanno su uno scrittore come te?
Io sono uno scrittore abbastanza lento, da un libro all'altro faccio passare cinque o sei anni e ai tempi de "La ferocia" ad esempio Instagram non era forte come adesso e io comunque non c'ero. Nel frattempo mi ci sono iscritto e ho visto che è un social molto meno violento di Twitter, dove si parla più di questioni politiche, mentre su IG c'è una comunità fortissima di lettori, è uno dei luoghi in cui si è trasferito il passaparola. Lì mi hanno raggiunto un numero enorme di persone, anche giovani, c'è un abbassamento di soglia anagrafica rispetto ai luoghi canonici che è interessante.
Il caso di cronaca è tornato in auge anche grazie al tuo libro, cosa ha risvegliato?
Questo è stato un omicidio che all'epoca sconvolse molta gente, però non era il massacro del Circeo o il rapimento di Aldo Moro, quindi intorno a cosa si è concentrata l'attenzione? Davanti all'atto gratuito, secondo me. Davanti al fatto che rispetto ad altri omicidi non c'era alcun vantaggio che Manuel Foffo e Marco Prato avrebbero potuto trarre dall'ammazzare Luca Varani e il fatto che non se ne capacitassero oltre al loro narcisismo sono tutti fattori che hanno colpito l'opinione pubblica. Noi viviamo in un periodo in cui sembra che tutto vada fuori controllo: loro si raccontano come due persone normali – qualunque sia il valore che vogliamo dare a quest'aggettivo – che hanno evocato delle forze che non sono riusciti a dominare. Oggi diciamo che siamo nell'Antropocene, il primo periodo dell'umanità in cui i maggiori cambiamenti sono dovuti all'uomo, ma è anche un periodo fuori controllo perché abbiamo innescato un cambiamento per noi dannosi che non riusciamo a fermare e a ricondurre a delle responsabilità individuali.
Hai avuto risposte da parte degli attori in causa?
Con i genitori di Varani ho parlato molte volte, ma credo che il libro non abbiano voluto leggere, loro sono in difficoltà anche perché oltre al dolore enorme di aver perso un figlio, il papà di Luca Varani ha perso anche un aiuto materiale sul lavoro e in più anche essendosi costituito come parte civile non ha ricevuto un euro perché i due assassini pur essendo di buona famiglia non avevano intestato nulla. Con la famiglia Foffo sono stato più in contatto, col padre in particolar modo, ma anche con Manuel Foffo che ha letto il libro, pare che sia stato doloroso perché ha ripercorso tutte le tappe però forse gli è servito per concentrarsi su alcuni aspetti. La famiglia Prato, invece, non vuole parlare più di questa storia a differenza degli amici che ancora sono stupefatti, qualcuno addirittura ha cambiato città.
Non è la tua prima volta al Premio Napoli…
Sono felice di tornare al Premio Napoli, c'ero venuto molti anni fa con "Occidente per Principianti" e ho un ricordo bellissimo di quella edizione, da una parte perché per la saggistica concorreva – e quindi avemmo l'opportunità di stare insieme – Alberto Arbasino che era lì con "Marescialli e libertini" e per me che avevo amato molti suoi libri fu una bella occasione, lui tra l'altro fu molto gentile. E sempre a proposito di non fiction e reportage, quell'anno al Premio Napoli arrivò Ryszard Kapuściński, un grandissimo maestro che ti ritrovavi davanti in carne e ossa. Sono contento di tornarci tanti anni dopo, anche perché significa che ho continuato a scrivere libri – all'epoca ero molto giovane – e la mia vita letteraria è andata avanti. Ritrovarsi è molto bello.
Hai anche un bel rapporto con Napoli, giusto?
Io sostengo sempre che in Italia ci siano tre città-mondo: Napoli, Roma e Palermo. Sono città che hanno un immaginario, un modo di funzionare, una poetica che sono solo loro e nella bilancia dell'immaginario italiano pesano moltissimo, basti pensare ai film, alla musica, al teatro, alla letteratura. Se non ci fossero queste tre città gran parte dell'ispirazione dell'immaginario di questo Paese legato alle Arti non esisterebbe e l'Italia sarebbe qualcosa di diverso anche nella percezione e nella sensibilità legate alle arti. Questa cosa è interessante per chi abita a Roma, perché Roma e Napoli sono separate solo da un'ora di treno, una distanza ancora inferiore da quella che divide – io sono pugliese – Bari e Foggia, eppure ti ritrovi in un mondo completamente diverso. Questa cosa mi ha sempre affascinato, il fatto che che a un'ora di treno da dove abito c'è un altro mondo. Amo questo quando vado a Napoli, ritrovarmi in un sistema di simboli, poetica così potente, forte e viva generazione dopo generazione.