Prima ancora di essere produttore e co-fondatore di Indigo, Nicola Giuliano è un rugbista. È una delle premesse che fa durante quest’intervista. Quando era giovane, racconta, avevo due passioni: il rugby e il cinema. E visto che ero un giocatore dilettante nella prima, alla fine ho scelto la seconda. La sua storia è la storia di chi ha sempre amato, in un modo o nell’altro, il suo lavoro. Prima ancora di farlo, probabilmente. Quando prova a spiegare qual è il suo ruolo, dice che legge tanto, che va al montaggio, studia le sceneggiature e interviene. Il mestiere del produttore, insomma, è un mestiere di passione e onestà. E i più bravi fanno esattamente questo: dicono quello che pensano; dicono la loro verità.
Nella sua carriera, Giuliano ha prodotto i film e le serie di talenti giovani e giovanissimi, di maestri, Premi Oscar e di esordienti. Una ricetta del successo, spiega, non esiste. Esiste un’altra cosa, ed è la qualità. Ecco, se Giuliano ha un obiettivo, è provare a fare esattamente il film che ha in mente, dando l’ultima parola agli autori con cui lavora e cercando di non avere nessun rimpianto. Il suo, più che un piano editoriale, sembra essere un pensiero filosofico. E probabilmente anche questo deriva dal suo essere rugbista.
Con L’uomo in più ha scoperto il talento di Paolo Sorrentino e con La grande bellezza, nel 2014, dieci anni fa, ha vinto l’Oscar per il miglior film straniero; ha prodotto La guerra di Mario di Antonio Capuano e Il passaggio della linea di Pietro Marcello, ha collaborato con Ivan Cotroneo, Riccardo Milani e Gabriele Salvatores. Ha prodotto Fortunata di Sergio Castellitto e gli esordi di Giuseppe G. Stasi e Giancarlo Fontana, Andrea Molaioli, Giuseppe Capotondi, Nicolangelo Gelormini, Francesco Lettieri e Piero Messina. L’anno scorso, era al cinema con Comandante di Edoardo De Angelis. E due anni prima ha prodotto Qui rido io di Mario Martone. Ha prodotto anche una delle serie più belle, e innovative e fresche, del panorama italiano: The Bad Guy. Questo è il suo Controcampo.
Perché hai studiato per fare il produttore?
In realtà, all’inizio ho studiato tutt’altro.
Cosa?
Giurisprudenza.
Poi, però, sei andato al Centro sperimentale.
Dopo la laurea, sì.
E come mai sei passato da giurisprudenza al cinema?
Perché ho seguito una delle mie due grandi passioni.
Una è il cinema, e l’ho capito. L’altra qual è?
Il rugby. Ho giocato per diciotto anni. E mentre studiavo giurisprudenza e giocavo a rugby, guardavo film in continuazione. Poi, quando mi sono laureato, visto che per fortuna non eravamo professionisti anche se giocatori di Serie A, ho provato a lavorare nel cinema.
Il rugby, comunque, è rimasto fondamentale nella tua vita.
Sulla mia tomba… anzi, sulla mia urna, dovranno scrivere: “rugbista”. E dovranno scriverlo ancora prima di aggiungere: “onesto lavoratore del cinema”.
Hai portato qualcosa di questo sport nel tuo mestiere?
Il rugby è una filosofia di vita, e quindi ho portato quella. La comunità del rugby è una comunità enorme, internazionale, che non conosce confini. Se sei stato rugbista una volta, lo sarai per sempre. E tutti, in ogni paese del mondo, continueranno a vederti come tale e a darti una mano se ne hai bisogno.
Non eri appassionato di calcio, da bambino? A Napoli, a volte, non sembra esserci altro.
Sulla storia del rugby napoletano sei poco preparato…
Lo confesso.
La Partenope ha vinto due scudetti nazionali e dieci titoli giovanili. È stata una realtà sempre viva. In questo momento, forse, lo è un po’ meno. Ma continua a essere un riferimento.
Torniamo all’altra tua grande passione: come sta oggi il cinema italiano?
Si trova in una situazione difficile causata dallo sgonfiamento della bolla di questi anni. Era una cosa che ci aspettavamo tutti. Doveva succedere, ce lo siamo ripetuti in continuazione, e alla fine è successo. Tu di che cosa vuoi parlare, del cinema o dell’audiovisivo in generale?
Partiamo dal cinema.
Il cinema affronta sempre delle fasi cicliche, basta studiarle. Da sempre, la locuzione “cinema italiano” viene preceduta da “crisi del”. Ci sono dei momenti precisi in cui le cose migliorano e altri in cui peggiorano. C’è stata l’età dell'oro, che ricordiamo tutti, e poi è arrivata la grande depressione. E il cinema italiano non esisteva più. C’erano moltissimi grandi vecchi maestri, proprio alla fine delle loro carriere, e poche novità.
E poi?
Poi c’è stata una nuova ondata di autori e registi. Prima, però, è stata proprio la crisi a permettere al nostro cinema di ritrovare una sua identità. Sto parlando della fine degli anni Ottanta e dell’inizio degli anni Novanta. In quella fase, si vedeva pochissimo cinema italiano e molto cinema internazionale. Dopo la crisi economica, sono arrivate le nuove generazioni e c’è stata una nuova esplosione con il ritorno prepotente dei nostri film in sala e all’estero. Ricordiamo che il cinema italiano è una delle industrie più premiate a livello mondiale.
Il problema, allora, qual è?
La percezione che ne abbiamo. Si sente dire in continuazione, tra gli italiani, che il nostro cinema fa schifo. Se parli però con una persona che viene da un altro paese, ti dirà che i nostri film sono bellissimi.
Abbiamo una visione distorta della realtà?
Ma non è questo. Il punto è che nelle nostre sale, chiaramente, arriva il meglio degli altri paesi. Vediamo due film spagnoli, due finlandesi, uno tedesco e ci sembrano tutti capolavori. In Spagna, Finlandia e Germania giudicano diversamente il nostro cinema per lo stesso motivo: guardano il meglio della nostra produzione e pensano che il nostro sia un cinema meraviglioso.
Perché si è creato questo cortocircuito? È in una fase calante, secondo te?
Non è affatto in una fase calante. Mi capita spesso di fare lezione con aspiranti sceneggiatori, produttori e registi. E quando chiedo che cosa guardano, partono innanzitutto esprimendo un forte pregiudizio sul cinema italiano. Alcuni arrivano a dire che non lo vedono per niente.
E tu come rispondi?
Gli chiedo che cosa vogliono fare. E quando mi rispondono il regista, lo sceneggiatore o il produttore, gli faccio un’altra domanda.
Quale?
E tu aro’ si’ nat? (E tu dove sei nato?, ndr). Quando girerai il tuo film, gli dico, sarà un film italiano e quelli che la pensano come te decideranno a priori di non vederlo. Insomma, non solo è importante conoscere i propri omologhi, quelli che già sono nella nostra industria, ma è importante anche capire che facendo così, mantenendo questo atteggiamento, c’è il rischio concreto di ricevere lo stesso trattamento dagli spettatori e dagli studenti della prossima generazione.
Secondo te, com’è nato questo pregiudizio?
Forse è più facile parlare del perché, alla fine, abbia resistito. Siamo abituati a una condivisione continua di informazioni e pareri, sui social e sui giornali, senza una minima attenzione per i dati. Ci si schiera, come allo stadio. E si crea un chiacchiericcio assolutamente inutile.
Cosa ha senso?
Studiare i dati e il mercato, e provare ad anticipare – anche se di poco – il suo percorso. Immagino che ti piacciano gli aneddoti…
Sì.
Quando stavamo girando L’attesa di Piero Messina, nel cast c’era Juliette Binoche. Stiamo parlando di un’opera prima, fatta da un ragazzo che non proviene da una famiglia di cinematografari. Ecco, un giorno, mentre eravamo sul set, Juliette Binoche mi ha detto: questo è un momento straordinario per il cinema italiano. E in quello stesso istante, altrove, c’era gente che gli sparava addosso. Lei vedeva il meglio. Solo quello.
Riallacciandomi alla cosa che mi hai detto prima, a proposito dei tuoi studenti, mi pare che ci sia un’aspirazione a essere subito autori. Non registi, non sceneggiatori: autori.
Questo però fa parte dell’eredità dei grandi autori. Siamo cresciuti così, con quell’idea di cinema. E ora, di conseguenza, tutti vogliono essere la stessa cosa. Per anni abbiamo avuto solo due generi, chiamiamoli così.
Quali?
Il cinema d’autore e il cinema – non commedia, no, ma – comico. Poi, lentamente, si è cominciato a fare qualcosa di diverso. Noi abbiamo iniziato a esplorare nuove strade già durante le nostre prime produzioni. Quando abbiamo fatto La ragazza del lago, ci dicevano che il giallo era appannaggio della televisione. Per Il ragazzo invisibile siamo stati considerati dei pazzi. E quando abbiamo fatto La doppia ora, la critica ci ha massacrato. Ma perché?
Te lo chiedo anche io.
Forse perché non riuscivano a identificarsi in quello che vedevano; per loro un regista e un produttore italiani non potevano fare un film come quello, di genere. E invece La doppia ora ha avuto un grande successo internazionale. Ricordo ancora che Il Corriere della Sera, il giorno dopo la premiazione di Venezia, titolò: “Film italiani a bocca asciutta”. Come se noi non avessimo vinto la Coppa Volpi. C’è questa spinta a dare il giusto riconoscimento solo all’autorialità, forse perché siamo il paese di Fellini, Visconti, Antonioni, Rossellini e De Sica.
Mi sembra che ci sia la tendenza, in generale, a dimenticare chi e che cosa era Fellini prima di diventare Fellini.
Ma Fellini è stato immediatamente riconoscibile, come autore. Fin dal primo film. Lui era l’eccezione, non la regola. Non basta voler essere un autore per riuscirci. Da un lato, abbiamo questa visione di chi vuole fare cinema. E dall’altro abbiamo una critica che non riconosce altro che determinate cose, legate com’è a una certa storia e tradizione. Pensa, appunto, ai film di genere.
Si fa ancora fatica a produrre quel tipo di titoli?
Scrivere un film di genere resta complicatissimo. Se sbagli una scena, una sola, crolla tutto il film. Registi e sceneggiatori hanno fatto dei passi giganteschi in avanti, proprio a livello di tecnica. Chi mi sembra davvero in difficoltà, rispetto alla comprensione di questi film, è la critica.
Era diverso prima?
Ma certo. Quando ero giovane e frequentavo l’università, leggevo Cosulich su Paese Sera e quello che consigliava lui era quello che io, poi, andavo a vedere. Adesso non credo che ci siano critici come lui. Lo spazio per gli spettacoli, nei giornali, si è ridotto.
Che cosa fa un produttore in Italia?
In che senso?
Tu che cosa fai, ogni giorno, come produttore e co-fondatore di Indigo?
Credo di fare quello che fanno i miei colleghi. Leggo tanto, lavoro sulle sceneggiature, sul montaggio, accompagno i vari progetti; parlo con gli autori, cerco finanziamenti e sinergie e risorse internazionali. Soprattutto, cerco di capire in che direzione andare.
Quanto intervieni in un film?
Dico sempre e solo quello che penso, che non significa necessariamente dire la cosa giusta. Non c’è una quantità di lavoro prestabilita. A volte ti può arrivare una prima stesura di sceneggiatura perfetta e non hai bisogno di metterci mano. A volte, invece, serve arrivare alla dodicesima stesura per capire che tipo di film si vuole girare. Stasi e Fontana, per dirti, li trovo frustranti.
Perché?
Perché al montaggio per me non c’è quasi niente da fare. Hanno montato il film nelle loro teste, prima ancora di girarlo. Questo non vuol dire che Stasi e Fontana siano più bravi di altri registi; significa che sono diversi, e di questa diversità, nel mio lavoro, bisogna sempre tenere conto.
A chi spetta l’ultima parola?
Per me, spetta all’autore. È quello che, in un film, rischia più di tutti. Penso che sia più facile riprendersi da un insuccesso per un produttore che per un regista. E non sto parlando di soldi, sto parlando di credibilità.
Come scegli gli autori, registi o sceneggiatori, con cui lavorare?
Ci si sceglie a vicenda, ma innanzitutto ne condivido la visione.
L’importante, quindi, qual è?
Esserci. Come sostegno e come punto di riferimento. Ed essere pronti a far sorgere dubbi e a segnalare prospettive diverse. Soprattutto, però, è importante credere nell’idea di qualcuno. Perché il regista vede qualcosa che tu non vedi finché il film non arriva sul grande schermo.
Quando sei arrivato a questa considerazione?
Ero sul set de L’amore molesto di Mario Martone, e ricordo che vedendo una sua inquadratura avevo solo dubbi; mi dicevo: ma che sta facendo. E invece, poi, nel montaggio quell’inquadratura aveva un senso profondo nella scena. Aveva visto qualcosa che io non ero riuscito nemmeno a intuire in quel momento. Ma mi è capitato anche altre volte, con altri registi; mi è successo, per esempio, con Paolo Sorrentino.
E quanto conta, allora, la fiducia?
È chiaro che tu ti affidi, figurati. Ma non appena vedi qualcosa che non ti convince, intervieni; lo dici all’altro. E spesso basta questo per cambiare, per andare avanti. Il mio lavoro è sulla sceneggiatura, sul montaggio e sul casting, che è un momento fondamentale. Quando leggo qualcosa, provo già a immaginare chi potrà interpretare un certo ruolo.
Tu che storie cerchi, di solito?
Io cerco storie interessanti, storie capaci di farmi pensare che quello che gireremo sarà un film bellissimo. Non ho una ricetta o un – diciamo così – “tipo”. Quando ho letto la sceneggiatura di Princess di Roberto De Paolis, non mi sono soffermato, banalmente, sulle sue possibilità economiche; mi sono immediatamente detto che era un film che valeva la pena di fare al di là degli incassi. Sul fronte completamente opposto, quando ho letto Comandante di De Angelis, ho pensato solo a farlo. Anche se si trattava di un’impresa titanica.
E alla fine ci sei riuscito: hai fatto Princess.
E di questa cosa sono contento, perché per me lo meritava. E anche perché, quando un giorno non ci sarò più, il mio nome sarà lì e potrò essere ricordato anche per questo.
Vorrei provare, adesso, a fare un passo indietro e ad allargare il quadro del discorso all’audiovisivo. Non più, quindi, solo al cinema. In Italia è ancora il grande momento della serialità? O è finito?
Non è un discorso solo italiano, questo. C’è un momento di contrazione piuttosto forte negli investimenti. Prima c’è stata una grandissima richiesta di prodotto e ora ce n’è di meno. Poi, secondo me, il vero discorso da fare è sulle piattaforme.
In che senso?
Quando sono arrivate sono state sicuramente portatrici di effetti estremamente positivi per l’intero mercato italiano, a cominciare dall’allargamento della competizione e del numero di interlocutori. E c’è stato più spazio per la sperimentazione.
E ora?
Ora mi sembra che stiamo attraversando una fase di ripiegamento. Si produce, sì, ma per il mercato locale. Prima c’era l’idea di rivolgersi al pubblico internazionale. Adesso la priorità è il nostro mercato. È come se si fosse deciso di abdicare alla potenzialità globale dei vari progetti. Noi, poi, siamo una delle più grandi industrie con una lingua propria: l’italiano si parla solo qui da noi e a Chiasso.
Ma come si fa a fare qualcosa, una serie o un film, adatto per il mondo intero?
La verità è che nessuno lo sa. Non c’è una ricetta. C’è solo una cosa: la qualità di quello che fai. Ed è la qualità, poi, a conquistare il mondo. Noi ci siamo convinti che un successo sia replicabile, e non è vero. Quanti film sono stati fatti sullo stile di Notte prima degli esami? E quanti hanno ricevuto la stessa risposta? Ci vuole la cosa giusta al momento giusto.
Si va avanti di moda in moda, spesso.
Tendiamo a fare sempre la stessa cosa perché chi prende le decisioni prova a conservare la sua posizione. E quindi: se ti appoggi sull’esistente, su quello che è già stato fatto, sul precedente positivo, nessuno ti potrà criticare se il film andrà male. Se invece sperimenti, prendi un’altra strada e vai male, rischi tutto. Personalmente ho sempre provato a sperimentare e a cambiare.
Quest’anno cade il decimo anniversario dell’Oscar vinto da La grande bellezza di Paolo Sorrentino. C’è stato un momento, mentre lavoravi a quel film, in cui ti sei detto: questo sarà un successo?
Mentre fai un film, qualunque film, lo pensi sempre. Se non lo pensi, non riesci nemmeno a girarlo. A volte sai che non sarà un successo commerciale, quello è chiaro; a volte, com’è stato per L’uomo in più, il primo film di Paolo, sai che stai lavorando per il futuro, per affermare un nuovo talento. Mentre facevamo La grande bellezza, pensavamo che fosse un bellissimo film. Ma la stessa cosa, ti ripeto, l’abbiamo pensata per gli altri film di Paolo.
E invece, dimmi, com’è andata la campagna Oscar? All’inizio, se non sbaglio, vi siete dovuti impegnare direttamente, in prima persona, per riuscire a portare La grande bellezza in cinquina.
È stata una campagna Oscar un po’ all’arrembaggio, diciamo così. Avevo giurato a Paolo che avrei fatto di tutto per fare entrare La grande bellezza nella cinquina. Non avevo nessuna sicurezza; anzi, più volte ho pensato di aver esagerato. Siamo partiti da lontano, dal festival di Toronto, e abbiamo fatto tutto noi.
Voi nel senso di casa di produzione.
Fino alla nomination non siamo stati supportati né dal distributore americano né da quello italiano e nemmeno da quello internazionale. E fino alla nomination, non siamo stati sostenuti nemmeno dalle istituzioni. Poi, quando siamo entrati in cinquina, siamo stati affiancati. E tutto è andato bene. All’inizio, però, è stata campagna fatta con le nostre risorse e le nostre forze. Siamo stati pure fortunati, non voglio negarlo. Ci siamo fatti una promessa.
Quale?
Di non avere rimpianti, se fosse andata male. E quindi ci siamo impegnati al massimo.
E che cosa ricordi del periodo in America?
Io e Paolo eravamo come Totò e Peppino. Dividevamo la stessa stanza, e quando c’era solo un matrimoniale dividevamo anche il letto. E andavamo in giro, con questa macchina a noleggio, e fare Q&A e a partecipare a cene ed eventi alla caccia di giurati da conquistare. Succedevano anche cose meravigliose, preciso. Incontri incredibili con registi e produttori che avevano visto il film e l’avevamo apprezzato.
Per esempio?
Ricordo un pranzo a New York con Al Ruddy, il produttore del Padrino, e William Friedkin. Non ci sembrava una cosa vera. Per niente. E a un certo punto, pensa, Friedkin mi ha fatto una carezza… Io non mi sono lavato la guancia per due settimane (ride, ndr). Perché Dio mi aveva toccato la faccia.
E perché ti aveva fatto una carezza?
Gli avevo raccontato che nell’edizione italiana de Il braccio violento della legge il personaggio di Gene Hackman era stato chiamato Papà anziché Popeye per motivi di doppiaggio. Lui si è messo a ridere e mi ha fatto una carezza.
In chiusura, voglio ritornare al cinema. Oggi chi sono i nuovi autori da tenere d’occhio?
Questa, però, non è una domanda da fare… Io lavoro con tanti registi… Che cosa vuoi, un elenco?
Per carità, no. Però, forse, c’è un nome che ti ispira particolarmente.
Se comincio a elencare nomi, ne dimenticherò sicuramente qualcuno. Quindi preferisco risponderti così: tra i lavori del produttore c’è pure quello di scovare, e di sostenere, i nuovi talenti. Perché ce n’è bisogno. E perché a me e ai miei soci piace particolarmente lavorare agli esordi. E poi perché è sicuramente il momento in cui un autore ha più bisogno di te.
Quanti progetti ricevi ogni mese?
Non so darti un numero preciso. Come faceva quella battuta di Massimo Troisi? “Io sono uno a leggere, loro sono milioni a scrivere…”.
Hai mai pensato di fare animazione?
Quello è un altro lavoro. Lo so che tu sei un appassionato, ma in Italia se ne fa pochissimo. La fanno bene Luciano Stella e Maria Carolina Terzi, per esempio. Noi abbiamo fatto un solo progetto d’animazione, La famosa invasione degli Orsi in Sicilia di Lorenzo Mattotti. Ma in quel caso abbiamo messo insieme le risorse e i finanziamenti. Per fare il produttore di animazione, ci vogliono altre competenze. Non dico che non mi piacerebbe; dico che il mercato in Italia è veramente complicato. Certo, se mi arriva un progetto bellissimo, mi impegnerò a capire e a imparare pur di farlo.
All’inizio ti ho chiesto dello stato di salute del nostro cinema. Ora, invece, ti chiedo: come immagini il suo futuro? Da qui ai prossimi cinque anni.
C’è questo modo di dire che fa: siamo come nani sulle spalle dei giganti. A me sembra che per anni siano stati i giganti ad appoggiarsi alle nostre spalle. Quando ho cominciato, la cosa che mi sentivo sempre ripetere è stata: tu mica sei Ponti, De Laurentiis, Cristaldi e Rizzoli. Agli attori veniva detto: tu non sei mica Mastroianni, Monica Vitti e Sophia Loren. E a chi faceva lo sceneggiatore: non sei Age & Scarpelli o Benvenuti. E per i registi era ancora peggio. Insomma, mi sembra che questi giganti siano rimasti sulle nostre spalle per tanto tempo. A un certo punto dobbiamo ricominciare a guardare a noi stessi con le nostre possibilità e con la nostra unicità. I film, alla fine, li giudica solo una cosa.
Cosa?
Il tempo. L’incasso e i premi sono importanti, è vero. Quello che però conta di più è quanto resiste nel tempo. Ci sono film meravigliosi che sono stati completamente ignorati e che, dopo quarant’anni, ricordiamo e vediamo ancora. E ci sono premi Oscar che non sappiamo nemmeno che sono stati girati.
È per questo che fai questo lavoro? Per resistere al tempo?
L’obiettivo, alla fine, è quello. Fare qualcosa capace di restare e di lasciare un segno. Quando sarò morto, che cosa conterà? ‘o tavut, lo sai, nun ten sacc. (La bara, lo sai, non ha tasche, ndr). Allora conta sapere che un giorno, forse tra sessant’anni, forse tra più tempo, un ragazzino vedrà uno dei film che ho prodotto e dirà: che bello. Ecco che cosa è importante.