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“Nannina”, così Stefania Spanò ha trovato un nuovo modo di raccontare Secondigliano

L’esordio alla forma romanzo di una scrittrice che ha trovato un nuovo modo di raccontare il quartiere e la sua gente, sempre schiacciata nel mito di Gomorra.
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“La cosa più importante dei cunti non è se ci stanno a sentire o no, ma il fatto stesso di accocchiarci qua, uno di fronte a un altro”. È una delle frasi chiave di “Nannina o dell’arte del cuntare” di Stefania Spanò, romanzo vincitore del torneo “Io Scrittore”, organizzato ogni anno dal gruppo GeMS per trovare nuove voci per il mercato editoriale. La scrittrice, cantastorie/cuntastroppole che manda avanti la tradizione di famiglia attraverso la sua associazione Partaking, al suo esordio alla forma romanzo incrocia le atmosfere di Elena Ferrante e di Donatella Di Pietrantonio, quest’ultima – non a caso – citata nei ringraziamenti. Tolti i riferimenti, i correlati che possono aiutare un lettore a orientarsi prima della lettura, è chiaro che la voce di Stefania Spanò emerge come unica e distinguibile.

“Nannina” è diviso in due parti. Una testatina apre ogni capitolo come un romanzo picaresco. La prima parte è tutta orientata alle vicende di questa cuntastroppole che inizia per gioco a fare i cunti, a raccontare storie nella strada sotto casa, poi via via la voce gira e Nannina diventa quasi un nome da cartellone. Passa il tempo e si ritrova – un po’ per sbaglio, un po’ per sfida – in manicomio e da cuntastroppole diventa semplicemente Nanninella ‘a pazza. 

La seconda parte, invece, è raccontata in prima persona da Stephanie, che di Nannina è la nipote. Le peripezie della cuntastroppole lasciano spazio a quelle di Stephanie, alla sua formazione. Emerge il rapporto conflittuale con sua madre Adelina. Una donna che riversa contro Stephanie tutti i suoi rimpianti e che ha paura dell’improvviso in nome del quale tiene la figlia segregata in casa fino a quando può: “Nei sogni la voce di mia madre è il suono della macchina per cucire e gli ospiti che non sono mai arrivati entrano e vengono ripassati sotto l’ago della grande macchina e poi adagiati sul divano. Lei è terrorizzata dall’improvviso e a casa mia in nome dell’improvviso si fanno un sacco di cose”. Passano i giorni e Stephanie va alla ricerca della sua identità – “Per il mondo di fuori vado da Adelina ‘a piccerella a Nipote della pazza senza mai passare per me” – e infine la trova quando scopre chi è davvero sua nonna: “Perché io per Secondigliano non sono la nipote della cuntastroppole invece che la nipote della pazza?”. 

Sembra chiaro che l’equilibrio tra la vita vera della scrittrice e quella dei suoi personaggi oscilla di continuo, ma non è una storia completamente autobiografica. Il cuore del romanzo è soprattutto un nuovo modo di raccontare Secondigliano, un tempo comune autonomo, e la sua gente. Giustizia è fatta per tutta una timorata umanità, una piccola borghesia, piccolissima, che pure esiste ancora ma che nella narrazione contemporanea resta schiacciata dal mito di Gomorra: “Secondigliano non è la vostra. Secondigliano è di chi la sa volere bene”.

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