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Moni Ovadia e il suo “Cabaret Yiddish” al Teatro Nuovo

Moni Ovadia è in scena al Teatro Nuovo con “Cabaret Yiddish” lo spettacolo che insieme a “Oylem Goylem” lo ha reso famoso in Italia e all’estero e ha diffuso la conoscenza della cultura Yiddish e della musica Klezmer. Sul palcoscenico, oltre all’autore e interprete, la TheaterOrchestra.
A cura di Andrea Esposito
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Moni Ovadia

Sono passati venticinque anni dal debutto di “Cabaret Yiddish”, lo spettacolo che insieme a “Oylem Goylem” ha fatto conoscere Moni Ovadia in Italia e all’estero e ha diffuso la conoscenza della cultura Yiddish e della musica Klezmer.

Lo spettacolo è una sorta di “vademecum teatrale e musicale”, come lo definisce Giovanni Raboni nel lontano 1991, “un’immersione totale – prosegue Raboni – nella più minoritaria, perseguitata e minacciata delle culture, la cultura ebraica della diaspora e dell’esilio; e più precisamente in quella parte di essa che si esprime attraverso le sonorità infantili, tenere e strazianti di una lingua insieme antichissima e giovanissima come lo yiddish, e di una musica che sembra farsi dolcemente carico di tutta la nostalgia, la malinconia e la gaiezza del mondo come lo klezmer, la musica tradizionale (a far tempo dal XVI secolo) degli ebrei dell’Est europeo”.

Lo Yiddish è una lingua unica, miscuglio di tedesco, ebraico, polacco, russo, ucraino e romeno, “è lingua d’esilio” come ci racconta nel corso dell’intervista Ovadia, una lingua che racconta la condizione universale dell’Ebreo errante, del suo essere senza patria sempre e comunque.

Sul palcoscenico Ovadia è accompagnato dai musicisti della TheaterOrchestra che lo seguono fin dagli esordi: al violino Maurizio Dehò, al clarinetto Paolo Rocca, alla fisarmonica Albert Florian Mihai e al contrabbasso Luca Garlaschelli. La musica accompagna e talvolta intramezza i racconti che spaziano da storie tratte dal repertorio umoristico ebraico a brani dotti, citazioni e riflessioni di natura filosofica.

Insomma si ride (o meglio, è previsto che si debba ridere) e, in alcuni casi, ci si può commuovere quando Ovadia alterna alle caricature e le smorfiette (che data l'età riescono un pò così-così) i versi di Carolus Cergoly dedicati ai morti della Risiera o ai racconti delle storie di Auschwitz e Treblinka. Garbata la performance dell'orchestrina che, nelle intenzioni di Ovadia, rievoca la condizione dei musicisti ebrei durante la persecuzione:  “I musicisti internati – racconta l'autore – raggruppati a caso dal destino comune della deportazione, vissero l’orrore del ‘privilegio’ di essere simultaneamente testimoni e vittime dell’abisso, il loro stare in scena come attori oltre che musicisti, ricalca quella condizione di disagio e di instabilità”.

Più in generale il lungo, forse troppo, monologo di Ovadia lascia emergere non senza un accurata premeditazione quel fondo di verità dal sapore tipicamente popolare per spiegare i cardini della cultura sionista, dal dialogo con il divino a quello con la famiglia matriarcale passando per il rapporto con il denaro, con i caratteri somatici, con il razzismo e il confronto con le altre religioni.

Ho scelto di dimenticare la “filologia” per percorrere un’altra possibilità proclamando che questa musica trascende le sue coordinate spazio-temporali ‘scientificamente determinate’ per parlarci delle lontananze dell’uomo, della sua anima ferita, dei suoi sentimenti assoluti, dei suoi rapporti con il mondo naturale e sociale, del suo essere ‘santo’, della sua possibilità di ergersi di fronte all’universo, debole ma sublime. Gli umili che hanno creato tutto ciò prima di poter diventare uomini liberi, sono stati depredati della loro cultura e trasformati in consumatori inebetiti ma sono comunque riusciti a lasciarci una chance postuma, una musica che si genera laddove la distanza fra cielo e terra ha la consistenza di una sottile membrana imenea che vibrando, magari solo per il tempo di una canzonetta, suggerisce, anche se è andata male, che forse siamo stati messi qui per qualcos’altro”.

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