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Milano zona rossa: la terribile normalità del secondo lockdown

Nel primo weekend in zona rossa a Milano, non c’è il surreale e angosciante deserto di aprile, sembra non ci sia più quella sensazione di ansia e terrore che ci teneva segregati in casa. Ma è evidente che stiamo imparando a convivere con la paura, perché abbiamo cominciato ad adattarci. In realtà, il paese è spaccato in due: da una parte chi cerca di continuare a condurre una vita normale nonostante tutto e dall’altra chi viene accatastato nei corridoi degli ospedali in attesa di cure.
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È lunedì mattina a Milano. Ma non uno qualsiasi, è forse il peggior lunedì della storia dei maledetti lunedì: è il primo in zona rossa, il primo nel nuovo lockdown o "soft lockdown" se preferite.

Ed è un lunedì molto strano perché siamo protagonisti di un paradosso: viviamo una condizione di normalità, pur trovandoci in una situazione che normale non lo è affatto. Come tutte le mattine io e la mia ragazza ci svegliamo presto, facciamo colazione, prepariamo il piccolino e la piccolina, e poi li accompagniamo a scuola e all’asilo, come se nulla fosse, anche se c’è una pandemia tutt’intorno. È chiaro che abbiamo cominciato a convivere con la paura, perché, come da prerogativa di noi esseri umani, abbiamo cominciato ad adattarci.

Lockdown per le strade di Milano

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Per strada a Milano non c’è il surreale e angosciante deserto di Aprile, sembra non ci sia più quella sensazione di ansia e paura che ci teneva segregati in casa e che scatenava un astio immotivato nei confronti del povero runner di turno: i parchi (vuoti) sono popolati di corridori, più o meno tutti distanziati; per strada la gente cammina piano in cerca delle serrande alzate; davanti ai supermercati, ci sono sì le file ma non quelle post apocalittiche dei mesi passati.

Si avverte una strana sensazione, come se la vita fosse sospesa in una bolla di apparente normalità dove si affronta il tutto con una diversa consapevolezza, che nel primo lockdown non avevamo. Sappiamo cosa ci aspetta e nessuno ha più voglia di urlare “Ce la faremo” dal balcone, ma piuttosto vuole continuare a vivere una certa quotidianità sapendo che “L’Inverno sta arrivando”. E chi ha visto Games of Thrones, sa bene quanto lunga e fredda sia la stagione che ci aspetta. (E comunque – SPOILER – alla fine vincono i buoni quindi tutto sommato ce la dovremmo fare).

Va detto però che in questo nuovo lockdown non è tutto chiaro, e non si riesce a capire bene quali siano queste attività essenziali: i negozi che non vendono beni di prima necessità dovrebbero essere chiusi, ma guardandomi in giro scopro che anche giocattoli, calze, calzini e addirittura infradito sarebbero essenziali (perché si, a Milano, in centro, c’è un negozio che vende solo, esclusivamente infradito), il che mi conferma un’impressione che avevo già nei giorni scorsi ovvero che c’è una gran confusione su tutto, sul perché alcuni luoghi siano chiusi e altri no, su quali siano i parametri adottati e perché, nonché sulla comprensione della drammaticità della situazione. Di una cosa però ho avuto definitiva certezza: che seppur i libri siano stati considerati beni essenziali, le librerie restano comunque vuote, tanto che le potremmo eleggere a roccaforte della sicurezza e del distanziamento sociale. Ma quello che, nonostante tutto, mi ha fatto ridere, è stato vedere la fila davanti ad un Cannabis Shop, rimasto aperto grazie alla vendita di prodotti per il giardinaggio (ritenuti di prima necessità dal DPCM): una fila talmente ordinata e nel pieno rispetto delle regole e delle leggi, da chiedermi se tutto ciò non fosse poi in realtà segno di un’imminente apocalisse.

Un paese spaccato in due: tra zona rossa e "nera"

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A vedere queste scene sembrerebbe quasi che la paura sia stata sostituita (parzialmente) dalla consapevolezza: più ne sai, più ti proteggi, più riesci ad essere tranquillo, e sembrano lontani (per quanto siano in realtà vicinissimi e pronti a tornare) i tempi del “Coviddi non ge n’è”.

Ma in realtà il paese rimane ancora spaccato in due: da una parte chi cerca di continuare a condurre una vita normale nonostante tutto e dall’altra chi viene accatastato nei corridoi degli ospedali in attesa di cure; da una parte chi urla contro la dittatura sanitaria e porta la mascherina sotto il mento, dall’altra chi cerca, come un pirla, di rispettare le regole; da una parte i racconti di chi non ha più lavoro oramai da mesi e dall’altra i messaggi disperati di chi viene portato d’urgenza in Pronto Soccorso e non essendoci posti, viene sbattuto e abbandonato in un ufficio qualunque di chissà quale piano, con il terrore di non riuscire più a respirare da un momento all’altro senza nemmeno avere la possibilità di chiedere aiuto a qualcuno; da una parte le preoccupazioni di chi, ormai allo strenuo delle forze, comincia a domandarsi come farà a dar da mangiare ai proprio figli e dall’altra le rimostranze di chi non ha nessuna intenzione di rinunciare al cenone di natale e capodanno.

E così le cronache di questi primi giorni di zona rossa, ci restituiscono un paese (purtroppo) sempre più diviso, spaccato, polarizzato, dove ci si abitua a tutto e tutto sembra normale, come sempre e sempre più velocemente.

Mentre andiamo a scuola, il mio piccolino mi dice: “Papone quest’anno forse la letterina a Babbo Natale dovremmo farla un po’ prima”. “Perché” gli domando. “Bè perché magari qualche elfo si prende il virus e si ammala e allora Babbo avrà bisogno di un po’ più di tempo per fare le cose”. Siamo esseri umani e ci adattiamo sempre a tutto.

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