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Michela Ponzani sul 25 aprile: “La nostra Costituzione è antifascista perché parla di libertà”

In occasione della Festa della Liberazione del 25 aprile la storica Michela Ponzani ci parla di Resistenza, fascismo, Costituzione e dell’importanza di questo giorno.
A cura di Francesco Raiola
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Il 25 aprile si festeggia la Liberazione dal nazifascismo, ma come ogni anno con l'avvicinarsi di questa data si moltiplicano anche le polemiche tra chi vorrebbe ridimensionarne la portata e chi, invece, rivendica quella data come un momento fondamentale di transizione verso la democrazia e l'Italia repubblicana. Una polemica che ha cominciato a farsi sentire fin da subito portando anche a un processo continuo alla Resistenza e ai partigiani e alle partigiane che dal 43 al 45 avevano combattuto per liberare il Paese dal giogo nazifascista. Questo Processo alla Resistenza è anche il titolo dell'ultimo libro della storica Michela Ponzani, pubblicato per Einaudi, in cui si analizza come coloro che avevano combattuto al di fuori dall'"ufficialità", contribuendo in maniera sostanziale – e con enormi perdite di vite – a liberare il Paese, si ritrovarono alla sbarra – anche da parte degli Alleati -, perché considerati fuorilegge che avevano agito al di fuori delle regole. Abbiamo chiesto alla Professoressa Ponzani cosa successe e perché ancora oggi è così difficile fare i conti con quel periodo storico.

Professoressa, ci ripete qual è l'importanza del 25 aprile?

Il 25 aprile è la Festa dalla Liberazione dal nazifascismo, una festa voluta da De Gasperi nel 1946 in occasione della preparazione del tavolo delle trattative di pace che gli alleati stavano stilando. In quel periodo Giorgio Amendola suggerì proprio a De Gasperi di istituire una festa della Liberazione che ricordasse a tutti gli italiani, anche a coloro che non avevano preso parte alla lotta al nazifascismo, che il 25 aprile – giorno della proclamazione dell'insurrezione generale da parte del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia – si concludeva non soltanto una fase relativa al secondo conflitto mondiale, ma una lotta sanguinosa e difficile iniziata con l'avvento del fascismo e non con la dichiarazione di guerra del 1940. Si volevano ricordare non soltanto tutti quelli che erano caduti nella lotta antifascista nella Resistenza, ma anche gli antifascisti confinati, incarcerati, perseguitati fin dai primi anni dell'avvento del fascismo, per questo è una festa importante, che deve rimanere nel nostro calendario civile e che dovrebbe essere celebrata, ricordata da tutti gli italiani.

Dovrebbe ma non succede…

Purtroppo ancora oggi c'è una parte consistente, non solo dell'opinione pubblica ma delle classi dirigenti di questo Paese, che fatica molto a riconoscersi in quella data.

Come mai, secondo lei?

Perché c'è ancora una visione autoassolutoria e discolpante rispetto all'esperienza del Ventennio fascista. Il Processo alla Resistenza che racconto nel libro si celebra nell'Italia del dopoguerra e nelle aule di Giustizia per vari motivi: perché rimangono in vigore delle leggi eccezionali contro i fuorilegge, i nemici della nazione, che erano state approvate durante il Ventennio; perché resta in vigore una Magistratura che durante quel Ventennio ha fatto carriera e ovviamente non poteva giudicare bene coloro che avevano cercato di rovesciare il regime fascista. Quello alla Resistenza è un processo anche mediatico, che finisce per alimentare una serie infinita di polemiche a posteriori, come quella sulla legittimità della Resistenza. È un processo di lunga durata perché gli italiani faticano ancora molto a fare i conti con quel periodo e perché permane nell'opinione pubblica una visione bonaria e autoassolutoria del Regime che alcuni vedevano come da operetta, che avrebbe fatto anche cose buone o per l'immagine degli italiani brava gente. Sono tutti temi che tornano prepotentemente nel dibattito pubblico a causa anche di un pezzo di classe dirigente di questo Paese che continua ad adottare questo filone narrativo, perdendo anche una grande occasione. Come ha detto lo stesso Gianfranco Fini più volte in questi giorni, quello che la Destra sta facendo oggi è perdere una grande occasione: bisognerebbe riconoscere la natura dell'antifascismo e la sua eredità nella Repubblica, riconoscere il fatto che se dovessimo rinunciare al 25 aprile e alla stagione dell'antifascismo dovremmo mandare in pensione anche la Repubblica democratica che nasce da quella esperienza storica.

Dopo la Liberazione, molti pezzi del vecchio apparato fascista non scompaiono, anzi diventano parte importante della Storia del nostro Paese: che succede?

Pezzi consistenti degli apparati, dell'amministrazione e della polizia si riciclano indenni in questo passaggio di transizione dalla Monarchia e dal fascismo alla Repubblica. Daranno vita a quell'anima nera della Repubblica che arricchisce anche tante leggende nere come quella narrazione per cui i Partigiani sarebbero stati nient'altro che assassini, terroristi, con le loro azioni sconsiderate o inutili perché tanto ci avrebbero liberato gli Alleati. Sono tutti temi della propaganda missina che prepotentemente ritornano a ondate nel dibattito pubblico. È interessante notare che se osserviamo i rotocalchi, le inchieste dei settimanali, le lettere anonime che arrivavano ai giornali negli anni 50, quindi nella fase più calda della Guerra Fredda, pesantemente influenzata dal clima anticomunista, vediamo gran parte dell'opinione pubblica sposare questa narrazione del partigiano delinquente che non ha fatto altro che attentare al bene della patria e scatenare la guerra civile laddove l'Italia sarebbe stata salvata dai militi della Repubblica Sociale Italiana che avevano a cuore l'interesse nazionale. Questa è la narrazione che passa ed è anche molto pervasiva e di lunghissima durata perché resta ancora oggi molto forte nel dibattito pubblico e nel tempo è stata anche alimentata da esponente illustri della propaganda antiresistenziale.

Tipo?

Penso ai libri di Giampaolo Pansa. È interessante notare come in questi giorni il suo libro "Il sangue dei vinti" sia di nuovo un caso editoriale, in ristampa e questo la dice lunga su tante cose.

A fronte di un Fini che parlava di fascismo come male assoluto, questo bisogno di riappacificazione ha portato anche a sinistra ad alleggerire la presa sull'importanza della Resistenza?

La sinistra ha fatto errori clamorosi, a partire dalle dichiarazioni di Luciano Violante, quando era presidente della Camera e non solo. Ci fu un famoso convegno organizzato a Trieste, che vide proprio Fini e Violante dialogare sull'eredità delle Foibe, come se un pezzo della classe dirigente della Sinistra di questo Paese dovesse chiedere scusa per la Resistenza e l'antifascismo, considerando che sono fenomeni diversi, che non c'entrano nulla l'uno con l'altro. È come dire "Ok, parliamo di Shoah, riconosciamo i crimini compiuti dal Fascismo, ma in un'ottica compensativa parliamo anche di Foibe". L'uso pubblico della Storia che è stato fatto, nell'ottica di ottenere una riappacificazione nazionale, è stato un gravissimo errore.

Ci spieghi meglio.

Intanto parlare di memoria condivisa è assurdo, nel senso che ogni gruppo sociale, politico, ogni famiglia e ogni persona hanno una propria memoria ed è giusto così. Forse sarebbe il caso di cominciare a parlare di una memoria collettiva, più che condivisa, riconoscere che così sono andati i fatti, che c'è stata una lotta antifascista in questo Paese costata migliaia di morti nel Dopoguerra e milioni durante il secondo conflitto mondiale e quindi non sottrarre moralità alla Resistenza, bensì riconoscerla. Non si può continuare a dipingere la Resistenza o i partigiani come assassini assetati di sangue, è una rappresentazione che non ha più alcun senso, se non altro perché la Destra non ha più bisogno di legittimarsi come negli anni 90, per questo dico che perde una grande occasione. Per una destra moderata, liberale, arrivata al Governo, continuare a riprendere questi temi dei primi anni 90 è un'occasione perduta.

Il riferimento a La Russa che dice che la Costituzione non include il termine antifascista è un esempio di quello che dice, immagino.

Le potrei rispondere dicendole che è Umberto Terracini a firmare il testo finale della nostra Costituzione approvato dall'Assemblea costituente. Terracini è un antifascista della prima ora, il condannato per eccellenza al carcere al confino dal regime fascista nonché colui che su 21 anni ne sconta 18, insomma è l'emblema di quella stagione di lotta antifascista che vede perseguitati non solo comunisti, ma anche liberali, cattolici, socialisti, una stagione di lotta antifascista che nel 45 si chiude, non si apre.

E sull'obiezione che la Costituzione non contiene il termine antifascista?

Potrei dirle che la Costituzione non contiene il termine antifascista perché non ce n'era bisogno, contiene termini come libertà, giustizia, giustizia sociale. L'articolo 3, ovvero quello che recita che  "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali" è scritto da Lelio Basso e cita tutte le cose non previste nel regime fascista. Questa Costituzione parla di solidarietà, parla di cittadinanza comune, di democrazia, di libertà, parola non presente durante il Ventennio fascista. Penso anche ai diritti civili che le donne sono state in grado di conquistarsi, alle 21 donne elette nell'Assemblea costituente e che avevano una diretta esperienza nella lotta antifascista e nella lotta partigiana resistente e grazie a loro abbiamo avuto l'approvazione di tutta una serie di leggi che hanno permesso alle donne di non essere licenziate se erano incinte, per esempio: la prima legge approvata è del 1950 ed è scritta da due antifasciste storiche ovvero Teresa Noce e Ada Maria Federici. Quell'affermazione non ha senso.

Con gli anni che passano e i testimoni diretti che ormai sono pochissimi, come si può mantenere vivo il ricordo nei più giovani?

Purtroppo l'era del testimone sta finendo, i protagonisti di quella stagione non ci sono quasi più, i pochi rimasti hanno più di 100 anni. Noi dobbiamo puntare non più solo sulla memoria ma dobbiamo conoscere la Storia e per conoscerla e far sì che i ragazzi se ne appassionino bisogna ritornare alle fonti, alle esperienze di quella stagione, ai racconti di quei tanti ragazzi e ragazze che fecero una scelta molto dolorosa e carica di responsabilità in quel 43-45. Dobbiamo farlo senza retorica, senza fare della Resistenza un monumento cristallizzato e retorico, che si ricorda soltanto nelle celebrazioni. Il rischio è che non dica più niente alle generazioni future, un po' come accaduto per le guerre risorgimentali o per le lotte mazzniane. È normale che con il passare del tempo questa memoria svanisca un po', per questo è importante tornare alla Costituzione, anche qui fuor di retorica.

Si è fatta troppa retorica sull'argomento?

La retorica degli ultimi anni ha contribuito ad allontanare molto i ragazzi dallo studio della storia. Penso alla retorica che si fa il 27 gennaio sulla questione della Shoah, quando si obbligano i ragazzi ad ascoltare un racconto memoriale che però, piuttosto, va spiegato e fatto sentire. Quando comincio a parlare ai ragazzi di Resistenza iniziano a sbadigliare, poi faccio leggere loro le testimonianze dei ragazzi che quando avevano la loro età decisero di salire in montagna e a quel punto gli occhi si accendono perché sentono un legame diretto. È importante la memoria ma è importante soprattutto la conoscenza della storia perché senza memoria non abbiamo futuro, ma senza conoscenza della Storia non abbiamo la possibilità di andare da nessuna parte.

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