Maurizio De Giovanni cambia tutto: “Spero che i lettori siano indulgenti con questa storia diversa”
Da anni Maurizio De Giovanni è uno degli scrittori italiani più amati e venduti del Paese. Ogni libro è un caso a sé e ormai anche la televisione è invasa dai suoi personaggi, dal Commissario Ricciardi ai Bastardi di Pizzofalcone, passando per Mina Settembre. Riuscire a tenere i lettori incollati alle pagine e all'attesa di una nuova uscita è un talento che non sono in tanti, in Italia, ad avere, ma De Giovanni non si crogiola nella serialità, anzi, si diverte, ogni tanto, a tentare strade diverse, come avvenuto ne "L'equazione del cuore", ultimo libro dello scrittore napoletano pubblicato da Mondadori. Un libro diverso, che prende le distanze da ciò che solitamente viene catalogato "di genere" e raccoglie un'idea che lo scrittore aveva nel cassetto da anni e di cui Alessandro Gassmann vorrebbe trarne qualcosa di visivo, un film per il Cinema, come dice lo stesso De Giovanni a Fanpage.it, raccontando della storia di Massimo, professore di matematica in pensione che dopo la moglie della moglie si ritrova a dover affrontare la morte della figlia e del genero e che dovrà stare a fianco al nipotino Checco, in coma.
Come nasce L’equazione del cuore?
Mi imbatto nell'idea di questo libro facendo le ricerche per scrivere un Ricciardi una dozzina di anni fa. Vedo che nel 1928 un giovane matematico inglese Paul Dirac scopre un'equazione che nel 1933 gli farà vincere il Premio Nobel. Questa equazione, che è alla base della meccanica quantistica, spiega, in sintesi, che due sistemi, una volta entrati in contatti, se separati risentiranno per sempre l'uno dell'altro. È un'equazione bellissima perché in realtà spiega anche l'amore, i sentimenti, la vicinanza, le relazioni umane, anche quelle peggiori, ognuno di noi influenza indefinitivamente e per sempre qualcun altro.
Come mai la scelta di allontanare la storia da Napoli?
Mi serviva un luogo non accogliente, respingente, difensivo, chiuso. Questa città non è così non può esserlo, non sarebbe credibile una storia che racconta le difficoltà d'ingresso, d'accesso, a un determinato contesto sociale, quindi ho scelto una città senza nome, una piccola città del Nord, in un momento, un novembre molto nevoso e freddo, in cui quest'uomo, Massimo, si trova a dover per forza cercare di capire certe dinamiche.
L'inizio però è a Procida…
Sì, questo romanzo che si svolge d'inverno, in questa città sotto la neve, comincia invece, d'estate a Procida. Il un primo momento c'è quest'uomo che va a pesca con il suo nipotino con cui interagisce poco perché è una persona chiusa, piuttosto anaffettiva, un po' misantropa e questo bambino lo guarda con una certa venerazione. I primi quattro capitoli lo vedono nel suo contesto: mi serviva per far capire per quale motivo per tutto il resto della storia la sua idea è di tornare il prima possibile a casa: perché prova disagio a stare lontano da quel luogo e si ritrova a dover interagire col mondo di sua figlia che non c'è più, per capire quello che è successo.
Perché scriverne ora?
Perché adesso ho dei lettori affezionati e consolidati che spero siano indulgenti rispetto a una storia un po' diversa dalle altre, poi perché ne ho parlato con Alessandro Gassmann che mi ha detto che amerebbe farne qualcosa di visivo, penso a un film per il cinema, io mi fido di lui, quindi serviva il romanzo per poter fare questo progetto.
Qual è il tuo rapporto con l'etichetta di genere?
Sai, i generi servono alle librerie per tenere i libri in certi scaffali invece che in altri, ma in realtà sappiamo benissimo che ogni libro ha una sua dignità, ogni libro è diverso da tutti gli altri. Se ti viene un'altra storia hai il dovere di raccontarla. È come tenere un figlio chiuso in casa senza farlo mai uscire, è sbagliato, devi consentire a ogni storia di volare. Se dovesse non piacere non fa niente, l'importante era scriverla.