Marco Peano torna con Morsi: “Diventare adulti è un orrore”
"Credo che sia un libro perfettamente in linea con L'invenzione della madre, certo che il lettore che ha letto quell'altra cosa si ritrova una sassata in faccia" mi dice Marco Peano quando lo chiamo per chiedergli di Morsi, secondo libro a distanza di sette anni da L'invenzione della madre, appunto, con cui Peano si è fatto conoscere al grande pubblico. Due libri in cui lo scrittore affronta il tema della crescita e della perdita, ma da prospettive, di trama e di stile, completamente diversi. Morsi, pubblicato da Bompiani, è un libro che racconta la storia di Sonia Ala e Teo Savant, due preadolscenti che si trovano a dover affrontare l'abbandono dell'infanzia verso la vita adulta e lo fanno attraversando una linea d'ombra che è quello che Marco Peano definisce "l'incidente" e che non sveleremo per lasciare un po' di gusto in più al lettore. Questo incidente, avvenuto nella loro scuola – e la scuola, come lo scrittore spiega a Fanpage, è un luogo non casuale -, è anche l'innesco per il cambio improvviso di registro stilistico che vira verso il perturbante, verso "il genere", verso qualcosa che dà ancora più gusto alla storia, complice anche la precisione con cui Peano scrive, pensa e imbastisce le fondamenta di questa storia (niente avviene a caso in Morsi). La narrazione e le atmosfere cambiano, il lettore è portato a vivere una dimensione meno rassicurante, accompagnando le vicissitudini di questo luogo in cui a un certo punto Sonia e Teo resteranno i soli protagonisti, ultimi baluardi verso la crescita. Verso quello che chiamiamo "essere adulti", ovvero il momento in cui, realmente, comincia l'orrore.
Da dove nasce Morsi?
Morsi nasce da due movimenti differenti: il primo arriva da molto lontano e cioè che è inevitabile che siano precipitate dentro molte mie letture, molte suggestioni di libri che mi hanno formato, soprattutto quando ero ragazzo, per cui uno dei temi del romanzo, quello della paura e del perturbante, l'ho voluto agganciare a quello che era il centro de "L'invenzione della madre" e cioè la crescita e la difficoltà del prendere atto del tempo che passa, nell'accettare che il cambiamento è qualcosa che lascia indietro degli elementi, rispetto al quale perdi alcuni bagagli esperenziali e culturali ma ne acquisisci anche degli altri. Il secondo movimento è quello per cui avendo a che fare con il mio secondo romanzo mi sono anche chiesto quale fosse la direzione giusta, perché avevo la sensazione che con l'Invenzione della madre avessi detto delle cose che per me erano importanti, ma non avessi del tutto esaurito l'argomento: era come se rimanesse, permanesse, uno strato residuale di temi e argomenti che volevo esplorare. Le possibilità che avevo erano o quelle di proseguire su una linea che avevo già tracciato o quella di provare a immaginare una linea completamente diversa.
E come ne sei venuto a capo?
L'obiettivo un po' ambizioso, alla fine, è stato quello di tenere saldate entrambe le cose, cioè proseguire una linea ma stare da un'altra parte. Morsi è nato così, è nato dall'esigenza di voler ancora indagare e raccontare che cosa significa crescere: se nell'Invenzione della madre, il protagonista era un 27enne che era cristallizzato nella sua adolescenza, in Morsi i protagonisti, Sonia – alla quale sono molto legato, credo di essere lei, la ragazzina protagonista – e il suo complementare Teo sono a metà strada, anche loro hanno un piede impigliato nell'infanzia, non possono più dirsi completamente bambini, perché stanno già crescendo ma non possono ancora dichiararsi adolescenti. Sono in quella fase che oggi chiameremo preadolescenza. Il fatto di averlo ambientato nel 1996 , in provincia, mi ha aiutato anche a retrodatare una serie di informazioni che li riguardano e di permettere loro di essere ancora un po' più bambini anche se la minaccia che incombe sul paesino in cui è ambientato il romanzo li costringerà a diventare adulti molto prima del previsto.
"Diventare grandi significa imparare a dire addio", come scrivi. Il libro è nato con l'idea in testa dell'incidente – che non sveleremo per il gusto della lettura – o ti è venuta mano mano, scrivendo?
Quella direzione che tu non nomini per evitare di rivelare troppo era un'idea che ha a che fare sicuramente con il perturbante e con un dialogo ininterrotto col presente. Mi sono chiesto: quelli che sono gli adulti di oggi, che passato hanno avuto? E quanto il passato davvero agisce sulle persone che siamo diventate? A un certo punto ho capito che quello che nel romanzo chiamo l'incidente, quello che avviene in una classe – e la scuola per me è centrale – e che poi viene rivelato da Teo a Sonia, è che una prof di italiano, non molto simpatica, molto esigente e piena di sé, forse anche un po' arrabbiata col mondo, si chiude dentro un'aula di una scuola media e fa una cosa terrificante che terrorizza tutti quanti i ragazzini presenti. Da lì in poi la piega del libro cambia direzione.
Il fatto che avvenga a scuola ha un significato preciso, dicevi, no?
La scuola dovrebbe essere al contempo il posto in cui noi incameriamo i nostri incubi, perché la scuola è la strettoia da cui tutti dobbiamo passare e che tu abbia un ricordo piacevole o meno, quella leggera ansia, quel primo confronto col mondo esterno, coi tuoi coetanei, è inevitabilmente una prova di crescita e di misura di dove arriva il tuo universo e dove arriva quello degli altri. Ma dovrebbe essere il posto che ti protegge di più, quello in cui i genitori sono tranquilli perché sai che tuo figlio si ritrova nel luogo in cui non solo riceverà un'istruzione ma nel momento in cui non puoi occupartene, qualcuno si prende cura di lui. Mettere lì dentro una minaccia per me significava provare a minare nel sottosuolo la parte più fragile della costruzione di un futuro essere umano.
Come si legano l'incidente che avviene e la storia di Sonia e Teo?
A un certo punto ho capito che l'incidente poteva essere la parte intorno alla quale costruire la trama di Morsi, che a differenza dell'Invenzione della madre è molto un romanzo di trama. Col mio precedente romanzo avevo lavorato molto su un tipo di storia in cui gli accadimenti erano pochi e l'emotività si concentrava tutta in pochi singoli gesti. Qua, invece, le cose che accadono sono tante ma al di là di quello che accade ero incuriosito dal costruire una storia che portasse i due protagonisti a essere il più possibile soli. Parlando del 1996 parliamo di provincia e di un'epoca in cui non esistevano – o se c'erano erano ad appannaggio di altri -, i cellulari, quindi tutte le soluzioni pratiche che ti permettevano di risolvere una questione in maniera rapida, anche semplicemente sapere dove sei e chiamare qualcuno all'esterno, erano difficilmente percorribili, e in questo modo ho costretto i personaggi dentro a un recinto. Quando ho trovato l'incidente, intorno ho costruito una serie di tasselli, una serie di situazioni sapendo che volevo arrivare a un punto in cui i personaggi sarebbero diventati grandi loro malgrado.
Parliamo del lavoro sulla lingua: benché siamo nella provincia piemontese a metà degli anni ’90 hai scelto di usare prevalentemente l’italiano, meno il dialetto, al punto che Teo a un certo punto, nel ventaglio di possibilità, dice “Mi rincresce”. Poteva dire “Scusa” o “mi dispiace”, invece lì mi pare che ci sia, forte, la mano dello scrittore, la scelta del tono che lo scrittore vuole dare alla storia.
È una cosa alla quale tengo in modo particolare, la lingua e il modo in cui la storia è raccontata. La storia ha sicuramente al centro il potere delle parole e delle narrazioni: Sonia è una ragazzina che, quando si addormenta, nel momento in cui inizia a sognare, sogna delle parole, una sequenza di parole che si susseguono nella sua testa e lei cerca di acchiappare per capire se c'è un messaggio nascosto. La lingua con cui ho scritto Morsi era una lingua che volevo fosse precipitata in un tempo preciso e che avesse delle contaminazioni legate inevitabilmente al luogo in cui accade ma che fosse complementare, ovvero: tanto Sonia spera, crede, cerca di portare a casa dei buoni voti per non fare arrabbiare i genitori, ha intuito che se studia ce la può fare, se ne può andare dal posto in cui si trova, che le sta stretto, così Teo è un ragazzino con i genitori che gestiscono un'enorme cascina che produce latticini, formaggi, salumi e che hanno il culto del lavoro, e per lui la scuola è un impiccio, qualcosa di secondario, l'importante è usare le braccia e la sua forza per dare da mangiare ai maiali. Ha capito che invece per lui quello è un posto importante in cui restare e ci vuole restare tanto che all'inizio fa quasi resistenza perché i suoi genitori non gliel'hanno insegnato a utilizzare l'italiano, per questo si esprime in dialetto. Da queste due contaminazioni nasce il "mi rincresce" che tu mi indichi, perché questo ragazzino che è cresciuto probabilmente in un contesto in cui l'italiano era imbastardito col dialetto, non poteva che diventare più adulto linguisticamente, perdendo qualcosa che era la lingua neutra dell'italiano.
Quanto lo stile, quindi, è fondamentale nella dinamica del romanzo?
Per me lo stile è sempre qualcosa di centrale e fondamentale, è il modo attraverso il quale la storia prende forma. La prima cosa è stata cercare di capire qual era la voce di questo romanzo e la voce era stare il più possibile vicino ai pensieri dei miei protagonisti, nonostante sia raccontato in terza persona, eccetto tre inserti che chiamo Interludi, che interrompono la narrazione e sono delle forme di scritture in prima persone. Ma volevo stare il più possibile vicino ai pensieri dei personaggi e anche il narratore è molto prossimo alla forma linguistica che loro hanno. Insomma è nata prima la lingua e poi la storia o almeno per me sono nati insieme e potevo solo raccontarla così questa storia così. È fondamentale, così come nell'Invenzione della madre aveva davvero quel tipo di lingua che era unica nel senso di necessaria per quel tipo di narrazione, così Morsi ha un impianto linguistico che si regge sul fatto che il racconto riguarda quei personaggi.
Infatti a un certo punto scrivi che "Conoscere il nome delle cose significa salvarsi. Le parole salvano sempre" che è una sorta di manifesto. Cosa significa materialmente che le parole salvano?
"Conoscere il nome delle cose significa salvarsi" ha per me un'indicazione precisa, nel senso che questo passaggio particolare di Morsi avviene in una scena cruciale del libro verso la fine della storia quando Sonia ha una specie di agnizione e capisce che non è soltanto la somma dei suoi genitori, non è soltanto chi l'ha generata ad aver prodotto e permesso di diventare la persona che diventerà, ma è tutto quello che ha imparato, quello di cui è stata permeata: sono le narrazioni, le storie, quello che è successo, non soltanto nella storia del romanzo. All'inizio del libro Teo le racconta e le spiega quello che è accaduto nella classe della professoressa Cardone e le spiega nel dettaglio più crudo di cosa tratta l'incidente, che è una cosa spaventosa, terribile e io lì ho voluto seminare due livelli di lettura: quello di qualcuno che ti sta raccontando una storia, ed è una storia di paura e questa paura tu la vivi perché non la stai guardando ma hai solo delle parole a cui appigliarti (molto spesso nel romanzo dico che Sonia ha soltanto le parole di Leo a cui aggrapparsi e può solo fare fede su quelle), e quello per cui contemporaneamente lui, come ciascuno di noi quando racconta un episodio, sta dando la sua precisa versione della verità e quella verità verrò moltiplicata perché nel momento in cui Sonia dovesse raccontarla a qualcun altro, assumendo un'altra versione. Ma lì dentro lei si figura tutto quello che può immaginare e tutto ciò che può immaginare è molto più forte, molto più vivido, di qualunque rappresentazione che non passi attraverso le parole. Quindi per me le parole salvano sempre e le storie salvano sempre.
E dalle parole il lettore può ricavare le sue verità…
Mi interessa cercare di capire dove sta l'io, dove stanno i personaggi rispetto alla storia raccontata e anche dove sta il lettore. Il lettore si può fidare di ciò che viene narrato nel libro? A me piacciono tanto i narratori inattendibili, quelli che ti portano in una direzione, quelli che tu credi che sia la verità, ma hanno loro le briglie della storie, quindi all'improvviso scartano e stanno da un'altra parte. Io un pochino ho giocato con questa cosa, non solo perché ho giocato con molti generi, nel libro, ma perché mi sembrava più interessante permettere al lettore di ricavare da questa storia la sua versione della verità e quindi il fatto che ciascuno potesse utilizzare le parole a suo piacimento e come dice Michele Mari in Verderame, per me libro capitale, le storie delle parole ti devono interessare fino a un certo punto – lo sto parafrasando – quello che ti interessa è il modo in cui le parole ti servono e bisogna prendere quelle parole e metterle da parte e questo thesaurus che è privato è un giacimento preziosissimo.
A volte noi lettori tendiamo a sovrainterpretare però ti chiedo, senza svelare troppo, se quello che chiami incidente, se l'autodistruzione che c'è nel libro, è metafora di qualcosa più ampio, dalla distruzione dell'ambiente al Capitalismo e così via. Non voglio neanche sapere di cosa, ma se era nella mente dello scrittore mentre scriveva.
Ho cominciato a scrivere questo libro nell'estate del 2018 e l'ho terminato più o meno nella prima metà del 2020, non mi interessava tanto né ordire una metafora né lasciare un messaggio, però mi interessava capire che cosa significa crescere. Qual è il modo in cui ciascuno di noi vive i mostri che sono gli adulti nel momento in cui ci si rende conto con una precisione spaventosa che la persona di cui hai più paura o di cui hai più disprezzo, ovvero i tuoi genitori o gli adulti in generale, sono quello che tu diventerai. Ragionando con la mia editor, Beatrice Masini, mi sono anche detto che di fatto una delle cose che volevo dire – e che non avevo così chiaro, l'ho capito con lei – è quanto le persone verso le quali nutriamo un sospetto, che ci chiudono in casa dicendoci che da lì non possiamo uscire – come avviene a Sonia nel romanzo – ci stanno costringendo a una carcerazione forzata o è una protezione da ciò che accade fuori. Se da ragazzini ci viene detto di no, noi ci arrabbiamo e basta, sentiamo una ferocia montarci dentro, ma non abbiamo le idee così chiare sul perché quella cosa non vada fatta; crescendo capiamo che forse era un modo per proteggerci da qualcosa. Quindi no, non c'era alcun messaggio nascosto, ma oggi siamo tutti così chini sulla nostra pancia, le nostre viscere, a guardarle e ci stiamo rappresentando mentre siamo intenti a divorare noi stessi e a non guardare troppo quello che abbiamo vicino. Poi all'interno ci sono mille suggestioni, le letture fatte, quelle che mi hanno formato: mi sembrava un modo archetipico di provare a raccontare quello che significa crescere, mostrare che quella parte mostruosa e buia che riguarda la tua infanzia è un passaggio e non è neanche quello più traumatico, perché il vero orrore comincia dopo, quando sei più adulto.
Nella musica, oggi, si parla sempre più di abbattimento delle barriere di genere, che restano spesso etichette utili a chi la racconta più che a chi la fa. Nella Letteratura possiamo dire la stessa cosa?
Io ho la sensazione che stiamo acquisendo una nuova consapevolezza, come lettori, pubblico e come editori. Non c'è nulla di più entusiasmante di capire – e lo dico con un conflitto di interessi molto forte perché l'ho fatto in Morsi – come usare gli strumenti del genere per dire qualcosa. È vero, questo è sempre stato fatto, ma è come se i lettori fossero progressivamente meno interessati a capire la classificazione dei libri che trovano distribuiti sui banconi delle libreria e quindi possono spaziare. Come lettore, i libri inclassificabili sono quelli che mi stimolano di più, perché poter trovare dentro un gioco consapevole, lucido, di mescolamento di consapevolezze, di tecniche e di stili ti permette molto spesso di dire che il genere non deve essere qualcosa che fa paura.
Il tuo senza dubbio gioca con i generi…
Per quanto riguarda il mio romanzo alcuni hanno usato la parola horror che secondo me è limitante, ma non perché non ci siano elementi spaventosi o perturbanti, però nel nostro Paese l'horror, così come il thriller e il giallo sono sempre stati confinati in un angolo che ci sembra più neutro, perché la vera letteratura e le vere narrazioni devono essere da un'altra parte. Ci sono fior di autori che hanno una consapevolezza tale, che l'utilizzo degli strumenti di genere è semplicemente uno dei tanti modi che hanno di raccontare la realtà oppure ciò che gli sta più a cuore; per me usare alcuni elementi perturbanti era un modo per raccontare un'età complicata che era quello della crescita e tornare ad affrontare alcuni temi che avevo lasciato in sospeso col mio precedente romanzo e che volevo affrontare in un modo diverso, che non mi annoiasse come scrittore e spero non annoi i lettori. Per me questo è veramente un inno alle storie e un tentativo di raccontare qualcosa che riguarda tutti noi.
Correndo il rischio di limitarmi nella catalogazione di una materia enorme come la letteratura, direi che a un certo punto abbiamo cominciato ad avvilupparci su noi stessi, uscendo dalla trama…
Che è quello che ho fatto anche io, attenzione! Mi sono reso conto che stavo esattamente dentro una determinata cosa, ma mi pare che anche per il momento storico che stiamo vivendo tornare alle storie che non siano inventate, ma al racconto per il racconto, ci stia nutrendo molto, portandoci in una situazione fertile.
Quali sono gli autori che ti stimolano come lettore?
C'è stata una persona che mi ha chiesto se dovessi collocare il mio libo tra due libri di una libreria ideale dove lo metterei: uno è sicuramente Michele Mari – soprattutto con Verderame – che è stato fondamentale come lettore e nello smantellare il mio immaginario e poi c'è un altro libro che è una scrittrice di bestseller che scrive una vola ogni tanto ed è "Il piccolo amico" di Donna Tartt. Lei scrive un libro ogni tanti anni, ma ogni volta che lo fa arriva con qualcosa di diversissimo e profondamente suo.