Marco D’Eramo: “Settant’anni fa i neoliberisti erano confinati nelle catacombe, oggi sono egemoni”
Marco D'Eramo, fisico, firma di antica data di Mondoperaio e del manifesto e collaboratore abituale di testate come MicroMega e The New Left Review, è autore del saggio Dominio (Feltrinelli, 2021). Un libro che ha fatto molto discutere e che ha avuto il merito di mettere in luce il grande non detto che ha caratterizzato il paradigma della lotta di classe dell'ultimo mezzo secolo: tradizionalmente siamo abituati a concepire il conflitto nella forma di una rivoluzione dei dominati contro i dominanti, ma quella a cui abbiamo assistito da cinquant'anni a questa parte è stata un'insorgenza di natura completamente differente, ossia una "controrivoluzione" attuata dai ricchi nei confronti dei poveri e portata avanti attraverso le leve dell'ideologia e le iniezioni di liquidità di fondazioni filantropiche esentasse e sempre più pervasive. Insorgere contro questo dominio sembra, ormai, una follia impronunciabile (come scrisse Mark Fisher prendendo in prestito un adagio attribuito, a seconda delle circostanze, a Slavoj Žižek o Fredric Jameson: "È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo"); eppure, secondo D'Eramo, è necessario attivare le adeguate contromisure per forgiare un nuovo senso comune: c'è vita oltre il "There is no alternative" tatcheriano.
D'Eramo, leggendo il suo libro, a colpire è soprattutto il ribaltamento di prospettiva: siamo abituati a pensare alla lotta di classe in una logica “bottom up”, dal basso verso l’alto. In Dominio, invece, il paradigma viene completamente rovesciato: sono le classi egemoni a muovere la “rivoluzione” contro quelle dominate.
Succedono entrambe le cose: a volte sono le classi basse che si rivoltano contro le classi alte, altre volte il contrario. D'altra parte, se non ci fosse un conflitto tra le classi in perenne dispiegamento, i potenti smetterebbero di essere potenti, perché verrebbero sopraffatti; i dominanti sono in perenne conflitto con i dominati. Lo spiegava già Aristotele 2400 anni fa in uno splendido – e inspiegabilmente passato in sordina – passaggio della Politica: quelli che sono inferiori si ribellano per essere eguali, quelli che sono eguali per essere più grandi. Si tratta di uno schema consolidato e destinato a riprodursi; per quanto riguarda il periodo di tempo preso in riferimento da Dominio, ossia l'ultimo mezzo secolo, ciò che è accaduto è che le classi basse erano riuscite a ottenere dei progressi senza precedenti, come le pensioni, le ferie retribuite, l'assistenza sanitaria, l'educazione, il diritto di voto, una voce in capitolo precedentemente inimmaginabile sui contratti di lavoro. Ebbene, questo avanzamento delle classi basse ha finito inevitabilmente per scalfire l'arbitrio e il potere delle classi alte, che a un certo punto si sono riorganizzate per programmare la controffensiva e riguadagnare il terreno perduto: hanno cercato di riconquistare l'egemonia. Ecco perché quella che descrivo in Dominio non è tanto una "rivoluzione", quanto piuttosto una "controrivoluzione", quella che i neoliberisti chiamano counter-intellighentsia (in analogia alla contro-guerriglia), ossia una strategia volta a stabilire un sistema di valori intellettuali, di opinione e di dottrine che contrastassero l'egemonia della sinistra. Settant'anni fa, questi capitalisti un po' beceri erano confinati nelle catacombe, quasi in clandestinità: in pochi decenni sono diventati la maggioranza egemone.
Una parte importante di Dominio è dedicata al ruolo delle fondazioni e alla loro ricerca di “teste di ponte” (economisti, docenti universitari, giornalisti) che possano facilitare la penetrazione delle logiche neoliberiste all’interno delle istituzioni e delle università: in Italia sono stati replicati esempi del genere? Se sì, quali?
Contrariamente a quello che si può pensare, in Italia non c'è mai stata una borghesia forte e in salute. Certo, ci sono state persone e famiglie ricche, ma mai un gruppo sociale di capitalisti che agisse in modo coordinato e razionale; forse se ne è avuto qualche abbozzo nella borghesia lombarda, ma si è trattato di parentesi sporadiche e poco significative. Nel nostro paese la borghesia che descrivo in Dominio è sostanzialmente inesistente, e anche se ci fosse non sarebbe abbastanza lungimirante. Basti pensare che l'ultimo borghese lungimirante che si può nominare è Adriano Olivetti: sono passati più di cinquant'anni. Nel libro racconto come dei gretti, buzzurri industriali del Midwest, che però sono talmente previdenti da finanziare cose che sembrano assolutamente assurde, siano riusciti a finanziare intellettuali, docenti e scrittori per insinuarsi nelle sede istituzionali a suon di miliardi e colonizzarle dal punto di vista ideologico (tanto per fare un esempio, è come se in Italia gli industriali del Piombino bresciano avessero donato dieci milioni di euro a Gianni Vattimo per fare proselitismo). In Italia i privati non finanziano la ricerca, figuriamoci le teste di ponte; certo, hanno un po' di scribacchini e giornali al loro servizio, ma anche quelli li trattano abbastanza male. È quasi ridicolo che Il Sole 24 Ore, il giornale dell'imprenditoria italiana, non sia un'impresa florida e rischi il default.
Cosa intende quando parla di "Tirannia della benevolenza"?
Le fondazioni che vanno per la maggiore, come ad esempio la Fondazione Gates o la Fondazione Walton, hanno una disponibilità smisurata, superiore a quella di grandi imprese multinazionali. Tutti questi soldi, però, non sono di certo piovuti dal cielo, ma sono il risultato di una combinazione di sfruttamento e esenzioni fiscali: non è un caso che le prime fondazioni siano state formate da coloro che, negli Stati Uniti, venivano etichettati come "Baroni ladri" (Robber barons), ossia i grandi capitalisti dell'Ottocento, come i Rockfeller e i Carnegie. Parliamo di gente che sparava sui propri operai (letteralmente!). La stessa esistenza delle fondazioni è già di per sé la testimonianza che qualcuno sta facendo profitti spropositati sulla pelle degli altri. Per di più, le fondazioni godono di una serie di esenzioni fiscali frutto di svariati stratagemmi: ad esempio, negli Stati Uniti, le donazioni che un capitalista dà a una fondazione non vengono tassate, dato che vengono liquidate come aliquota fiscale; questi privilegi fiscali fanno sì che le fondazioni siano in grado di autoalimentarsi: per quanto continuino a regalare soldi in giro, il loro capitale aumenta, dato che ciò che distribuiscono non è altro che una parte infinitesimale dei frutti dei propri investimenti. Se parlo di tirannia è perché di fronte alle fondazioni siamo sempre dei questuanti: mendichiamo perché la fondazione finanzi un nostro progetto, un festival a cui teniamo particolarmente o un nuovo giornale. Si tratta di enti che pongono tutti gli altri in una condizione di mendicanza e godono di un arbitrio simile a quello di un tiranno.
Nel suo lavoro si ritrovano echi di Mark Fisher e del suo saggio più celebre, Realismo Capitalista. Quanto deve Dominio a questo testo?
Fisher è un pensatore importante, ma un po' demoralizzante: io non sono pessimista come lui. Penso che sia giusto, nel momento in cui si subisce una sconfitta, analizzare le ragioni della disfatta. Nessun essere umano può essere privato del futuro, perché significherebbe rinchiuderlo nel presente e in un'infelicità senza desiderio, priva di una spinta indispensabile come la tensione verso un dopo. L'ideologia neoliberista ha dimostrato ampiamente di non tenere minimamente in considerazione il futuro, né dal punto di vista ambientale, né dal punto di vista della giustizia sociale e intergenerazionale: il capitalismo senza freni vince solo se noi non siamo in grado di offrire una versione di futuro alternativa.
È sempre stato piuttosto critico nei confronti del Sessantotto: potrebbe specificare questa posizione?
Quel movimento fu capace di fare presa non tanto perché si basava su un'ideologia di sinistra, ma perché era fondato sull'evidenza della menzogna che ci stavano propinando: la maggior parte dei sessantottini credeva che l'America fosse una democrazia, un paese libero capace di assicurare parità di opportunità a chiunque. Gli studenti che si rivoltarono a Berkley nel '62 e '63 lo fecero perché credevano alla democrazia americana, quella stessa democrazia che stava massacrando i vietnamiti e confinando le persone nere. Inoltre, a quel movimento aderirono fasce della popolazione che venivano da famiglie conservatrici o addirittura reazionarie: ecco il motivo per cui mal sopporto la nostalgia del Sessantotto.
Come abbiamo introiettato questa nuova ideologia, che ci vede costantemente calati nei panni di massimatori di razionali di profitto, "imprenditori di noi stessi"?
Non la definirei ideologia: è la prassi. Qualche tempo fa sono stato invitato in una trasmissione televisiva per parlare di Dominio. Hanno richiesto la mia partecipazione perché stavano mandando in onda un documentario demenziale sui rider: sembrava che fosse la professione più bella del mondo, incastonata in un'immagine idillica. Addirittura, uno dei rider intervistati diceva di avere la possibilità di "vedere Roma come non la vede nessuno". Il rider è la conseguenza pratica dell'ideologia neoliberista che cala gli esseri umani nei panni "imprenditori di sé stessi", un'ideologia che si riverbera anche nella pratica costante dei contratti: lavorano tutti con contratti di collaborazione o a partita iva, come se fossero tutti imprenditori. Il ragionamento di fondo è "siccome non paghiamo le ferie al dentista o al notaio, perché dovremmo pagarle all'imprenditrice-colf o all'imprenditore-lavapiatti?".
I fautori del Dominio hanno risentito degli sviluppi della pandemia?
Approfittando della pandemia, hanno cercato di vedere se fosse possibile applicare il modello sociale dell'isolamento totale, che per un padrone sarebbe una cosa perfetta. Immagini: ognuno a casa propria, costi del lavoro ridotti all'osso e sorveglianza costante. Una sorta di utopia realizzata. Per fortuna, non è andato tutto secondo i piani.
Nel suo libro si percepisce un certo risentimento per una sinistra che tende a specchiarsi su sé stessa e a sottovalutare le doti dell'avversario. Ad esempio, spiega come quell'oggetto amorfo che definiamo "neoliberismo" sia riuscito a utilizzare l'ideologia per convincere l'opinione pubblica di non essere un'ideologia e, allo stesso tempo, accusare la sinistra di essere eccessivamente ideologizzata, stigmatizzandola. Che lezioni possono trarre i dominati dai dominanti?
In primis bisogna smetterla di vergognarsi dell'ideologia, che è un elemento importantissimo ed essenziale, quasi come l'aria: non te ne accorgi, ma la respiri lo stesso. Inoltre, i dominanti ci hanno indicato dei terreni di lotta ben precisi: le idee, la scuola, le tasse e la giustizia. Questi sono i 4 terreni da cui ripartire per rovesciare il paradigma. Per fare un esempio molto concreto, se un partito di sinistra non parla in maniera convinta di ristrutturazione del debito, vuol dire che si è già venduto e non bisogna votarlo.