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Marco Cassini, da Foster Wallace a Cortázar: “Una cosa divertente che farò per altri trent’anni”

Marco Cassini compie 30 anni da editore, appellativo che nasconde le sue tante vite, da minimumfax a Sur Edizioni è colui che ha portato in Italia la nuova Letteratura americana e da anni ha deciso di dedicarsi al Sud America, senza dimenticare gli Stati Uniti.
A cura di Francesco Raiola
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Marco Cassini e David Foster Wallace (per gentile concessione di Marco Cassini)
Marco Cassini e David Foster Wallace (per gentile concessione di Marco Cassini)

"Marco Cassini, per brevità editore", scherza il fondatore di minimumfax e SUR – due case editrici che a modo loro hanno scritto un pezzo di Storia dell'editoria italiana – dovendo riassumere le tantissime vite vissute in questi anni: editore, appunto, ma anche scrittore, traduttore, libraio, imprenditore, consulente. Cassini, per capirsi, è colui che per primo ha tradotto David Foster Wallace, autore pescato in una libreria di San Francisco quando lo scrittore di "Una cosa divertente che non farò mai più" e "Infinite Jest" non esisteva se non per i lettori angloamericani.

Ma è anche colui che ha ridato vita a Raymond Carver, colui che con minimumfax e Martina Testa ha raccolto il meglio della letteratura americana contemporanea, conquistando la fiducia di scrittori come Jonathan Lethem, Aimee Bender, George Saunders e tanti altri che hanno dato vita a una raccolta cult come Burned Children of America (probabilmente la prima antologia di scrittori americani a nascere in Italia e poi venduta nel mercato anglosassone).

Ma Cassini è anche colui che ha ripubblicato in Italia Bernadine Evaristo dandole enorme visibilità (prima lo avevano fatto Fandango, Besa e Playground), che ha tradotto per primo il libro Premio Pulitzer "La ferrovia sotterranea" di Colson Whitehead, ritradotto José Lezama Lima, fatto scoprire Camila Sosa Villada, tradotto e ripubblicato tantissimi libri di Julio Cortázar, ripubblicato Il colore viola di Alice Walker e a cui è voluta tornare la scrittrice Ali Smith. Quest'anno Cassini compie 30 anni di carriera e riassumerla in poche righe – o anche solo un'intervista – è impossibile, ci vorrebbe un libro a parte, ma lui si schernirebbe.

Eppure in pochi possono vantare una serie di conoscenze e di aneddoti come lui, e di chiacchierate piene di "Questa la teniamo off record". Questo è il riassunto di una lunga chiacchierata fatta di persona a Roma e poi continuata, lungamente, su Whatsapp.

Se dovessi chiederti che lavoro fai, cosa risponderesti?

Per brevità, a questa domanda rispondo sempre: «faccio l’editore». Ma in realtà credo che fare l’editore non significa mai fare una cosa soltanto. L’editore oggi non si limita a «scegliere i libri da pubblicare» ma per completezza, almeno a mio modo di vedere, dovrebbe concedersi l’opportunità di osservare i libri da più punti di vista. Ed è per questo che oltre ad aver fondato non una ma addirittura due case editrici, prima minimum fax (dove ho lavorato dal 1994 al 2014) e poi SUR, che porto avanti da tredici anni, da venti sono uno dei soci della Libreria Trastevere a Roma; dal 2013 organizzo con Gianmario Pilo il festival della lettura «La grande invasione» a Ivrea (ma quest’anno si svolgerà contemporaneamente anche ad Aosta); e da ancor prima di fare tutto questo, dal 1992 organizzo corsi di scrittura, traduzione, giornalismo, editoria: un’attività molteplice, divertente, utile che svolgo presso la Scuola del libro. Di libri, una quindicina di anni fa, mi è capitato addirittura di scriverne uno (per Laterza, nella collana Contromano, uscì Refusi. Diario di un editore incorreggibile) in cui raccontai i miei primi quindici anni da editore: ora ne sono passati altrettanti e per non infliggere al pubblico un altro mio libro mi limito a fare quest’intervista con te… Per completare il curriculum, mancava solo la traduzione, e mi ci sono cimentato con un lavoro lungo, difficile ed esaltante: ho tradotto per la prima volta in italiano Salvo il crepuscolo, tutte le poesie dell’argentino Julio Cortázar, un libro importante che curiosamente – e per mia fortuna – nessuno aveva mai tradotto e pubblicato.

Facciamo una digressione: come è nata l’idea di tradurre Cortázar?

Ovviamente scherzo quando dico che ho voluto farlo solo perché mi mancava il ruolo di traduttore. La verità è che SUR aveva acquisito i diritti italiani di questo volume corposo, quattrocento pagine circa, addirittura nel 2012. Con gli anni, poi, abbiamo rimandato la pubblicazione perché di volta in volta abbiamo avuto l’opportunità di pubblicare altri libri di Cortázar, non so se meno complessi ma forse più accessibili perché di narrativa, come i racconti di Un certo Lucas e Disincontri; la novella L’inseguitore, il romanzo Il viaggio premio. La poesia è sempre un po’ meno facile da far circolare, e così ci siamo detti che forse era meglio provare a riproporne la narrativa, far tornare questo grande autore classico latinoamericano in libreria con dei titoli che potessero incontrare un pubblico più ampio e poi, successivamente, proporre anche la sua poesia.

Marco Cassini
Marco Cassini

E così, dopo tanti titoli di Cortázar, è arrivato anche il tuo momento…

Sì, un po’ alla volta abbiamo aggiunto titoli su titoli di Cortázar nel nostro catalogo, a volte recuperando traduzioni esistenti, se il libro era già uscito in italiano, altre volte commissionando nuove traduzioni (in particolare a Ilide Carmignani, ma anche a Giulia Zavagna che ha curato la prima edizione italiana del suo epistolario). Quando finalmente è arrivato il momento di tradurre le poesie, la redazione della casa editrice ha proposto a me di farlo, si pensava che potessi essere adatto perché c’è un tratto che effettivamente mi è congeniale della sua scrittura: anche quando affronta temi seri, o anche quando usa forme canoniche come quella del sonetto, e tutto un armamentario di endecasillabi, rime, alessandrini, allitterazioni, eccetera, Cortázar lo fa spesso con un registro giocoso, leggero, con molti calembour, e visto che io sono un po’ il cazzone della casa editrice e quando c’è da tradurre un gioco di parole vengo sempre consultato per trovare una soluzione, si è pensato che potessi essere la persona adatta…

Però, come dicevamo prima, sei uno che fa tante cose…

Esatto, non potevo certo dedicarmi a tempo pieno alla traduzione. Ma qui ho potuto giocare un po’ sporco: essendo io stesso il datore di lavoro del Marco traduttore, ci siamo accordati io e lui, e, al termine di una lunga negoziazione, mi è stato concesso tutto il tempo necessario… Essendo poi un traduttore alle prime armi al cospetto di un gigante della letteratura, mi sono assicurato in anticipo il «paracadute» della consulenza di persone care e stimate: nomi importanti della traduzione come Bruno Arpaia, Francesco Fava, Francesca Lazzarato, e della poesia come Valerio Magrelli e Gianni Montieri, che hanno cortesemente letto il libro in bozze evitandomi più di un errore «marchiano» (non sarà un caso se si dice così). E insomma, con tutto il timore reverenziale del caso, mi sono preso un tempo molto dilatato e in tre anni, nei ritagli di tempo fra le varie attività, sono riuscito a farlo.

Lo scambio maglietta-bandana tra Cassini e Foster Wallace (per gentile concessione di Marco Cassini)
Lo scambio maglietta-bandana tra Cassini e Foster Wallace (per gentile concessione di Marco Cassini)

E alla fine queste poesie che risposta hanno avuto? Possiamo dire che lo scrittore argentino è sempre una certezza?

Hanno avuto un buon riscontro. La poesia non viaggia facilmente, non è letta da tanti, parliamo di un autore considerato «difficile» e di un libro che incute timore anche solo a vederlo per le sue dimensioni, tutti elementi che non sempre predispongono a una circolazione massiccia. Ma in poco più di un anno abbiamo appena esaurito la prima tiratura di tremila copie, che per un libro di poesie è un ottimo risultato.

È ancora possibile per un editore medio riuscire ad avere in catalogo autori così classici?

Quando pensai al progetto SUR mi resi conto che c’erano diversi nomi importanti del panorama letterario latinoamericano che non circolavano più in Italia. È risaputo che c’è stato un fenomeno, tra gli anni Sessanta e Ottanta, noto come «il boom latinoamericano»: anche in Italia come in tutto il mondo andavano di moda gli scrittori latinoamericani, fra tutti Gabriel García Marquez e Mario Vargas Llosa, che unendo qualità letteraria al successo commerciale hanno resistito alle mode e sono rimasti sempre in circolazione in italiano. Lo stesso si può dire per Cortázar di cui Einaudi ha continuato a ristampare opere come Rayuela, Bestiario, Storie di Cronopios e di Famas, ma perdendo pian piano interesse in opere considerate meno appetibili commercialmente, pur restando inalterata la qualità letteraria, che resiste indubbiamente alla prova del tempo.

Ma l’argentino non è l’unico, anzi avete fatto incetta di classici latinoamericani…

Sì, ci sono nomi che si sono persi con la fine di quella moda, ma che sono ormai a buon diritto considerati classici, e che quindi abbiamo deciso di recuperare: Eduardo Galeano (a fine anno uscirà il suo terzo titolo per SUR, Il libro degli abbracci), Osvaldo Soriano, Ricardo Piglia (di cui stiamo ripubblicando tutta l’opera) o il grande uruguayano Juan Carlos Onetti (amato in Italia da autori del calibro di Sandro Veronesi, Nicola Lagioia, Chiara Valerio, Edoardo Albinati, Valeria Parrella, che infatti hanno scritto prefazioni per i suoi libri). E la quasi misconosciuta, da noi, Elena Garro, considerata però in Messico una voce imprescindibile, di cui pubblicheremo a breve il capolavoro I ricordi dell’avvenire, del 1963. Fino al curioso caso dell’argentina Aurora Venturini, autrice di Le cugine e Noi, i Caserta, che ha esordito a ottant’anni suonati e che ha stupito il mondo letterario con la sua scrittura «irregolare».

Anche perché per un editore come SUR, riconosciuto per quel tipo di letteratura, è importante avere certi nomi, no?

SUR non è certo l'unica casa editrice in Italia a pubblicare letteratura latinoamericana: sono moltissimi gli editori che traducono saltuariamente anche libri di quell'area geografica. Ma in effetti nel 2011 non esisteva un progetto interamente incentrato sull'America Latina. Soprattutto all’inizio, mi era sembrato importante quindi cercare di mettere a segno alcuni colpi, come è stato fatto appunto con Cortázar e Onetti, ma anche con Manuel Puig o Adolfo Bioy Casares – tutti nomi molto riconosciuti che però non erano più disponibili in italiano. Mi era sembrato importante insomma ri-costituire il canone, riportare in libreria libri fondamentali ma dimenticati, che aiutassero al tempo stesso ad affermare il nuovo marchio editoriale grazie alla certezza della qualità di queste opere. Poi, col tempo, e soprattutto con l'arrivo di Giulia Zavagna, che diversamente da me ha proprio quella formazione specifica – e che oggi è l’editor della narrativa latinoamericana di SUR – la casa editrice ha acquisito una competenza e una competitività anche sul contemporaneo. E ora credo che funzioni bene proprio questa proposta duplice: da una parte i classici, i punti cardinali del progetto, attorno a cui orientarsi poi nella ricerca sul contemporaneo, che ci ha permesso di portare in Italia voci nuove e recenti, come quelle di Cristina Rivera Garza, Camila Sosa Villada, Federico Falco, Alan Pauls e così via.

Avevi fatto già un grosso lavoro con minimum fax, con cui vi eravate ritagliati uno spazio importante. Come era stato cominciare con minimum fax, e come è stato poi ricominciare con SUR?

Ho iniziato appunto trent’anni fa, dapprima con una piccola rivista letteraria che mi autoproducevo – erano gli anni dell'università – nella mansarda di casa di mia madre e che, non sapendo come diffondere, provai a spedire via fax. Non ne ero consapevole ma il suo successo immediato mi fece finire sui giornali, alla radio, in tv dove mi spiegarono (loro a me!) che era la prima volta che si vedeva una cosa del genere. Da lì successivamente prese le mosse la casa editrice, che all'inizio non osavo nemmeno concepire come tale (i primi libri si chiamavano «quaderni di minimum fax», definirmi editore di libri mi sembrava sfrontato). Organizzavo già i miei primi corsi di scrittura ed è così che conobbi Francesco Piccolo: prendeva tutte le settimane un treno da Caserta per venire a lezione; mi fu subito evidente che aveva un talento superiore alla media, aveva pochi anni – e molte letture – più di me, legammo subito, e in qualche modo nel vedere la sua ostinazione e capacità nel voler diventare scrittore mi ritagliai quasi senza accorgermene un ruolo complementare: io non ero altrettanto bravo a scrivere ma mi rendevo conto che avevo avuto fiuto nel riconoscere il suo talento. Gli chiesi dapprima di fare una lezione a quello stesso corso di scrittura, e successivamente di usare la scaletta di quella lezione come possibile impalcatura per un suo libro. Sì, mentre gli dicevo che, per me, lui era uno scrittore, mi stavo candidando a diventare editore, per poter diventare il suo editore.

Fu l'inizio?

Sì, così iniziai il mio percorso, che in qualche modo oggi viene celebrato con una nuova edizione – in uscita per Einaudi – di quel libro da cui tutto ebbe inizio, per me e per lui, “Scrivere è un tic”. Quindi minimum fax iniziò come casa editrice che voleva pubblicare libri sulla scrittura, saggi letterari, interviste e testi teorici sul mestiere di scrivere. La sua specializzazione nell'area angloamericana si sarebbe venuta a creare solo col tempo. Non tutto – o forse quasi nulla – ci era chiaro all’inizio del progetto: la narrativa italiana, i libri di Cinema e di Musica di minimum fax sono arrivati solo più avanti, e anche la stessa letteratura angloamericana: arrivò anche quella quasi per caso quando nel 1995 feci un altro incontro decisivo, quello con il poeta americano Lawrence Ferlinghetti. Lo intervistai per il manifesto, e nel preparare l'intervista scoprii che da quasi vent'anni i suoi libri non venivano più tradotti in italiano. A fine intervista gli chiesi timidamente due sue poesie da pubblicare sulla mia rivista via fax. Tornato a San Francisco me ne spedì – ovviamente via fax – una ventina tra cui scegliere, e io invece sfacciatamente gli chiesi di usarle tutte per farne un libriccino. Quello fu il mio primo libro americano. Insomma questi inizi erano avventurosi, e – per tornare alla tua domanda – oggi direi che la differenza fondamentale tra questi due inizi è che quando misi in piedi minimum fax uscivo dall’università senza averla nemmeno finita, avevo poco più di vent'anni, sapevo pochissimo di letteratura e non sapevo niente di editoria; ero un lettore, sì, però avevo studiato Legge, mi sentivo un totale outsider, ero oggettivamente incompetente, imparavo le cose mentre le facevo, spesso correggendo errori che mi erano costati molto. Erano i primi anni Novanta (a lungo ho ripetuto la battuta che «anche io nella primavera del 1994 decisi di scendere in campo»), mentre SUR è nata nel 2011, perciò quasi vent’anni dopo: da un certo punto di vista ero di nuovo un outsider, perché per tanti anni avevo frequentato soprattutto la letteratura angloamericana e non quella latinoamericana, ma almeno nel frattempo avevo imparato come si faceva un libro.

Le copertine di La ferrovia sotterranea e Ragazza, donna altro
Le copertine di La ferrovia sotterranea e Ragazza, donna altro

Non partivi proprio da zero, insomma.

Mi piaceva l’idea di non cominciare da zero, anche perché non avevo più quell'età in cui sei disposto a fare maggiori sacrifici e qualche figuraccia che ti viene perdonata per simpatia, mentre farlo a quaranta, e con venti di esperienza, sarebbe stato deleterio. Però devo confessarti che mi è sempre piaciuta l’idea di non essere quel tipo di editore che ha la pretesa di aver già un bagaglio culturale e proporlo, se non addirittura imporlo, dall’alto di un sapere; ma di usare invece il mio stesso lavoro editoriale come metodo di apprendimento, come percorso di conoscenza innanzi tutto per me. E quindi, appunto – al di là del fatto che ormai sapevo come si faceva un libro, come si portava avanti una casa editrice, e avevo un po' di esperienza in tutti gli aspetti del mestiere (perché in una casa editrice piccola ti capita di occuparti di tutti i settori) – non ero però competente sulla letteratura latinoamericana. Certo, per un paio d’anni me la sono studiata, sono stato più volte in America Latina e in Spagna, ho partecipato alle fiere del libro di Buenos Aires, Guadalajara, Lima, quindi non arrivavo completamente ignorante; ma sicuramente oggi, rispetto a quando è nata SUR, ne so un po' di più e quel poco di più che so l’ho imparato facendo SUR.

Quando è stato il momento in cui hai capito che con SUR avevi imboccato la strada giusta?

Credo di saperlo esattamente, perché ci sono stati alcuni anni in cui i due progetti hanno convissuto. I miei ultimi anni a minimum fax (prima di sentirmi di fatto costretto a lasciarla per una insanabile rottura col mio socio di allora) hanno coinciso, si sono sovrapposti con i primi anni di SUR. Le due cose erano conciliabili perché nei suoi primi tempi SUR pubblicava appena tre o quattro libri l'anno: era un progetto volutamente ridotto, minoritario, anche come impegno personale. Per questo so che il momento in cui ho deciso di fare sul serio è stato quando ho deciso di lasciare minimum fax e contestualmente ho deciso che SUR doveva diventare il mio lavoro, oltre che la mia fonte di sostentamento. Bisognava a quel punto, però, capire come ampliare il progetto, come svilupparlo e renderlo sostenibile, partendo – almeno dal punto di vista delle risorse economiche – da zero. C’è stato un momento, tra la fine del 2013 e il 2014, in cui nella mia testa ha preso forma questa decisione, anche perché con minimum fax non poteva più andare avanti in quel modo.

Come l’hai sviluppato, quindi?

L’ampliamento ha avuto due strade: da una parte una questione imprenditoriale, dall’altra editoriale, culturale. Dal punto di vista imprenditoriale la chiave di volta è stato l’incontro con una coppia di imprenditori che ho conosciuto a Ivrea grazie a Gianmario Pilo: Paolo Benini e Francesca Mancini, che avevano deciso di lasciare il proprio settore, vendere la loro azienda e iniziare un’impresa culturale. Per qualche motivo avevano visto in me la persona che poteva traghettarli in questo nuovo mondo. È stato un periodo creativo e anche molto bello, formativo, da entrambi lati, per me e per loro: il progetto è consistito in una mia consulenza nel mettere in piedi il loro progetto di impresa culturale – che dopo quegli inizi al mio fianco ha decisamente preso il largo e oggi è una piccola galassia di attività: Add editore, la libreria Bodoni a Torino e la rivista multimediale Lucy – e loro sono entrati nella compagine societaria di SUR con idee e investimenti. Il fatto che loro investissero mi ha permesso di ampliare il progetto così come auspicavo: prendere una sede per la redazione, poter assumere Giulia Zavagna, aumentare la produzione da tre o quattro titoli l'anno arrivando gradualmente agli attuali venti. Un paio di anni più tardi, hanno deciso di lasciare minimum fax anche due editor che avevano, assieme a me, creato tutta la parte angloamericana di quel catalogo: Dario Matrone e Martina Testa, i quali essendo venuti a conoscenza delle nuove prospettive di SUR, mi hanno proposto di creare una collana di letteratura angloamericana. A quel punto il progetto si è ampliato ulteriormente rispetto all'idea iniziale, con un allargamento anche di tematiche e di sguardo sul mondo, facendo nascere la nuova collana BIG SUR.

E da lì è arrivata La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead, uno dei vostri titoli più importanti e venduti, giusto?

Whitehead è stato un grande colpo: dal punto di vista del numero di copie vendute è il nostro best seller, con oltre cinquantamila copie vendute. Un risultato importante dal punto di vista commerciale ma anche culturale perché significa aver raggiunto un ampio pubblico. Ma, ancor più di questo, per me ha significato che il progetto era solido, che potevamo competere (i suoi libri precedenti erano usciti per Mondadori e per Einaudi e nessuno aveva fatto questi numeri), che i soci investitori potevano essere felici della strategia attuata, che chi aveva scelto di lasciare una casa editrice solida per venire in una appena nata non aveva sbagliato, e infine, che sì avevo ricominciato quasi da zero (diciamo: da tre!) ma ero decisamente rientrato in pista.

Quali altri libri hanno toccato buoni numeri?

Tra i best seller di SUR ci sono Ragazza, donna, altro della anglo-nigeriana Bernardine Evaristo e Le cattive dell’argentina Camila Sosa Villada. Per fortuna ormai nel catalogo vanno accumulandosi anche i cosiddetti long seller, libri che magari non hanno un impatto immediato sul mercato ma che hanno delle vendite stabili ogni anno: oltre ai classici citati prima, funzionano bene quei libri che sono nell'immaginario collettivo anche grazie alle trasposizioni cinematografiche (Il colore viola, Rosemary's baby, Le streghe di Eastwick, Ultima uscita per Brooklyn, MASH) o opere che mancavano da tempo in Italia come Le vene aperte dell'America Latina di Eduardo Galeano e Tutti i racconti di Grace Paley, e ancora quelle che nessuno, per qualche motivo, aveva pensato di fare come le poesie di Roberto Bolaño. Oppure quelli che parlano di temi ineludibili come la violenza di genere (L'invincibile estate di Liliana di Cristina Rivera Garza, che di recente è stato eletto spontaneamente a libro-manifesto del movimento #Unite) o di razzismo (Catene di Gloria di Nana Kwame Adej-Brenyah, Legami di sangue di Octavia Butler) o di guerra (Scene da una battaglia sotterranea di Fogwill, Anatomia di un soldato di Harry Parker).

Come avete fatto a comprare i diritti di Whithead, che non era propriamente uno scrittore sconosciuto?

In tutti questi anni mi è capitato spesso di vedere autori pubblicati da me andare poi altrove: David Foster Wallace, Jonathan Lethem, A.M Homes, Rick Moody, Donald Antrim, ma anche parecchi gli italiani (per i quali a chi conosce i cataloghi editoriali non sfuggirà un curioso pattern): Nicola Lagioia, Valeria Parrella, Christian Raimo, Francesco Piccolo, Paolo Cognetti, Veronica Raimo, Peppe Fiore, Riccardo Falcinelli… Colson Whitehead, però, detiene un record, è l’unico che sono riuscito a perdere due volte. Come siamo riusciti a prenderlo? Ricordo precisamente il momento: era il giorno di Ferragosto del 2016, Presidente degli Stati Uniti era Barack Obama che aveva pubblicato sui social la lista dei suoi libri preferiti e tra questi c’era proprio La ferrovia sotterranea, uscito appena da una manciata di giorni. Di suo, anni prima, avevamo pubblicato John Henry festival per minimum fax e poi era andato da Einaudi, che ha pubblicato i libri successivi al nostro. Quando succede una cosa del genere non pensi mai più di poter tornare a pubblicare quell’autore.

E questa volta come avete fatto?

Ricordo che chiamai Martina Testa e le dissi: «Mi sembra impossibile, ma secondo me questo libro non è stato preso da nessun editore italiano, altrimenti avrebbero approfittato della lista di Obama per annunciarne la loro imminente edizione italiana. Vogliamo provarci?» Martina mi disse che non c'era molto da sperare, ma provammo ugualmente a mandare una mail alla sua agente; ci rispose dicendoci che, in effetti, il libro era disponibile, quindi era pronta ad accettare una nostra offerta. Letto immediatamente il romanzo, ci convinciamo subito del suo enorme valore letterario; nell'attesa della risposta, infatti, il libro arriva subito al primo posto della classifica dei best seller, e a quel punto l'agente riceve offerte dai principali editori italiani, tutte molto più alte della nostra. Ma veniamo premiati ugualmente per aver creduto nel libro prima del suo successo. Aver costretto la povera Martina a lavorare durante le vacanze, mentre tutti i grandi editori erano in ferie, ha portato i suoi frutti!

Certo, sarebbe stato bello poter continuare a pubblicarlo. Ma, due anni dopo, mentre eravamo alle fasi conclusive della trattativa per i diritti del suo romanzo successivo, I ragazzi della Nickel ci viene «sottratto» da Mondadori per una cifra che l'agente di Colson definirà «incommensurabilmente più alta della vostra» (che pure era molto sostanziosa, l'offerta più alta mai fatta per un libro in questi trent'anni). E così, Whitehead mi è stato portato via due volte…

Lui è andato, ma Evaristo è rimasta…

Sì perché, diversamente da quando recita l'adagio, non sempre i migliori se ne vanno!

Le copertine di Paradiso e Le cattive
Le copertine di Paradiso e Le cattive

Invece com’è stato avere in catalogo uno come David Foster Wallace?

Ho firmato il contratto per i primi libri di Wallace nel 1997. Ricordo bene il giorno in cui presi in mano un suo libro, perché era il giorno del mio compleanno, il 9 agosto, ero nella libreria City Lights di San Francisco. Ci passai l’intera giornata, una festa bellissima, per me solo, in mezzo ai libri, e ne trovai uno di cui non sapevo niente. Ricordo che il motivo per cui mi imbattei in quel libro è che era un'edizione piuttosto grossa, non entrava nello scaffale, e quindi lo avevano messo coricato, sbucava dallo scaffale, e passandoci accanto lo feci cadere. Quando si dice il destino! Nel raccoglierlo mi incuriosì il titolo bislacco, A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again, con una copertina giallo canarino. Quando lessi il nome dell'autore mi ricordai che avevo letto un suo racconto («Per sempre lassù») qualche anno prima in un numero della rivista Panta dedicato alla nuova letteratura americana, e così lo comprai. Mi lessi il libro di Wallace tutto sul volo di ritorno verso l'Italia e mi resi conto che semplicemente non avevo mai letto nulla di simile.

Era scattato l’amore, insomma…

Sì, e a quel punto iniziai a informarmi un po’ meglio, lessi altre sue cose, mandai un'offerta alla sua agente e firmammo un contratto (dopo tutti questi anni posso confessarlo, anzi con un certo orgoglio: prevedeva un anticipo di 500mila lire, ossia 250 euro, a libro!) Qualche anno dopo, nel 2000, lo conobbi di persona: andai a trovarlo a Bloomington, nell'Illinois, mi diede appuntamento in una libreria appena fuori del campus universitario dove insegnava scrittura. Andammo a pranzo in un diner e mentre mangiavamo un panino con l'hamburger mi chiese cosa ci facessi a Bloomington; e quando gli dissi che avevo costretto un mio amico ad affittare una macchina e attraversare diversi stati solo per conoscerlo mi guardò come fossi un alieno: «Ma veramente sei venuto fino a qui solo per incontrare me?» E si sentì obbligato a offrirmi il pranzo (salvo poi rinfacciarmelo nella dedica che gli chiesi di farmi sulla mia copia di Infinite Jest, che mi ero portato in giro per un mese, occupando metà zaino, solo per farmelo autografare). E mi disse anche – certo non potevo saperlo – «sei il primo editore al mondo con cui ho firmato un contratto di traduzione: i miei libri sono usciti finora solo in inglese. Sarai sempre una mia "prima volta"».

In Italia, però, non era ancora chiaro quello che Wallace sarebbe diventato, no?

Sul momento, al di là di avere la certezza che si trattava di una persona e di una personalità letteraria particolare, vivace, originalissima, unica, non mi ero reso conto che avevo a che fare con quello che poi sarebbe diventato – forse in America un po' già era – un autore di culto (altrimenti il pranzo glielo avrei offerto io!)

Che percezione c’era quando cominciaste a pubblicarlo?

In quei primi anni in cui lo pubblicavamo, anche in Italia si iniziava a percepire il fatto che fosse un grande scrittore, non a caso subito dopo l’ha pubblicato anche Einaudi (Fandango pubblicò invece, su matte insistenze di Sandro Veronesi, che se ne era innamorato, Infinite Jest).

Come mai non lo faceste voi?

Semplicemente perché allora, parliamo del 1996-97, minimum fax esisteva da un paio d'anni, non avevamo soldi, per cui quando ci fu offerta dall’agente la possibilità di pubblicare anche Infinite Jest fummo costretti – ovviamente col senno di poi lo rimpiango – a dire di no: non avevamo le risorse per tradurre e stampare un libro di 1600 pagine.

Diciamo che tutto nacque da Carver, no?

Forse tutto era nato da Ferlinghetti, che era stato il mio primo autore americano (1995). Ma nel 1996 pubblicai un piccolo libretto con una famosa Intervista a Raymond Carver –originariamente uscita sulla Paris Review – perché già allora era uno dei miei scrittori preferiti e, come dicevo prima, amavo i libri sulla teoria della scrittura. Il suo primo libro vero e proprio che pubblicai era una raccolta di poesie: Il nuovo sentiero per la cascata, nel 1997. Allora la sua narrativa era ancora pubblicata da grandi editori: Cattedrale era di Mondadori; Vuoi star zitta, per favore? e Di cosa parliamo quando parliamo d’amore di Garzanti. Mi impegnai a dimostrare a Tess Gallagher, la sua erede e curatrice, il mio amore per Carver, non solo andando a trovare pure lei in capo al mondo ma pubblicando tutto ciò che di Carver era ancora disponibile: un'altra raccolta di poesia, Racconti in forma di poesia, un libro miscellaneo di poesie e prose (Voi non sapete che cos'è l'amore) e perfino una sceneggiatura (Dostoevskij), per farmi trovare pronto quando fossero scaduti i contratti degli altri editori. E così, allo scoccare del millennio diventai il suo editore, e per anni ho potuto usare la metafora che per me fare l'editore e poter pubblicare Raymond Carver era come, da tifoso del Napoli, poter giocare una partitella con Maradona al campetto sotto casa.

Le copertine di Burned Children of America e Salvo il crepuscolo
Le copertine di Burned Children of America e Salvo il crepuscolo

La mia percezione, ex post, è che per una generazione foste voi a lanciare la nuova letteratura americana, quella dei Lethem, Moody, A.M. Homes, Antrim…

È una percezione che molti condividono e quindi evidentemente dev'essere stato davvero un po' così. C’è, per esempio, quell’antologia del 2001, Burned Children of America, che curai con Martina Testa, che a distanza di quasi venticinque anni persone insospettabili ancor oggi ci dicono essere stato qualcosa di fondamentale per affinare un gusto letterario. Per noi quella era una sorta di antologia-manifesto: mettevamo insieme le cose che ci piacevano, come diceva sempre Martina era analogo a registrare una playlist (mi sa che io nel 2001 le chiamavo ancora compilation!) per una persona a cui volevi bene o con cui ci volevi provare, mettendo insieme le canzoni che descrivevano te, i tuoi gusti, il tuo modo di essere e di stare al mondo. Forse non ce ne rendevamo conto mentre lo facevamo, anche se qualche segnale lo abbiamo avuto: il libro – concepito da noi e quindi uscito originariamente soltanto in Italia, e in italiano – fu pubblicato, solo successivamente, nel 2003, dal gruppo Penguin in inglese, con introduzione di Zadie Smith; e nel 2004 in provincia di Treviso fu organizzata addirittura una mostra di artisti contemporanei interamente ispirata alla nostra selezione. L’antologia era un lavoro parallelo e complementare alla ricerca che facevamo sui singoli autori: tra la fine degli anni Novanta e poi fino a che sono stato a minimum fax pubblicammo tutta questa generazione di scrittori. Anche se non fummo sempre noi i primi a scoprirli (per esempio Rick Moody era già uscito per Bompiani; Jonathan Lethem era già uscito per Tropea), nel nostro catalogo avevano un posto, erano parte di un progetto che si iniziava ormai a intravedere, messi accanto ai libri di A.M. Homes, Dave Eggers, Sam Lipsyte, Jennifer Egan, Aimee Bender, creavano la foto di gruppo di una generazione letteraria.

Che è un po’ quello che state facendo oggi con SUR…

Certo! In fondo ora con Martina Testa, e con Dario Matrone che ci raggiunse a minimum fax qualche anno dopo a fare quel lavoro di scoperta, facciamo lo stesso identico lavoro, con lo stesso gusto, identica passione e competenza, portando nel catalogo SUR quello che ci piace e che crediamo sia giusto far arrivare in Italia: per rimanere al mondo angloamericano, Nana Kwame Adjei-Brenyah, Catherine Lacey, Rebecca Kauffman, Susan Choi, Bernardine Evaristo, Jim Lewis. E se per minimum fax abbiamo avuto una fortunata serie di riscoperte (da John Barth a Richard Yates, da Bernard Malamud a Donald Barthelme, da Henry Miller a Eudora Welty) pur sapendo che quelle nostre scelte ora restano in quel catalogo, credo sia facile rintracciare la nostra visione editoriale e culturale nelle riproposte che oggi arricchiscono il catalogo BIG SUR: Ira Levin, Octavia Butler, Ursula Le Guin, Alice Walker, John Updike, Hubert Selby jr, Grace Paley.

Quindi c'è una visione comune, e un modo di lavorare, simile indipendentemente che si tratti di letteratura angloamericana o latinoamericana…

L'idea di base è la coerenza, non solo all'interno di ciascuno dei due contenitori «geografici» ma in tutto il nostro lavoro, indipendentemente dall'orgine e dalla lingua di chi scrive. Tornando al discorso delle playlist con i «best of», ci è capitato spesso che giovani autori o autrici dal Regno Unito o dall'Argentina, dall'Ecuador o dagli Stati Uniti, dall'Irlanda o dal Messico si mostrassero  felici di pubblicare con noi perché accanto ad altre voci significative della propria generazione si trovano a convivere nello stesso catalogo in cui compaiono i loro punti di riferimento letterari delle generazioni precedenti. E spesso sono meravigliati che una sola casa editrice sia stata in grado di selezionare così tanti nomi importanti che nei loro paesi sono frammentati fra – e a volte, singolarmente, fanno la fortuna di – tante case editrici diverse. Anche il lavoro di riposizionamento di libri del passato a volte può portare frutti insperati nell'oggi. Per esempio, anche se le opere di Cortázar sono pubblicate in Italia da oltre mezzo secolo, Salvo il crepuscolo non era l'unico suo libro a non essere stato ancora tradotto. E se in quel caso ci poteva essere la giustificazione «di mercato» che un libro di poesie non ha buone prospettive di vendite, l'aver fatto un lavoro minuzioso di riproposta delle sue opere ci ha portato a poter pubblicare anche un romanzo inedito di Cortázar.

E qual è?

Si chiama Libro di Manuel, è il suo ultimo romanzo. È uscito originariamente nel 1973 e dopo cinquant'anni incredibilmente non è mai stato tradotto. Curiosamente, proprio qualche giorno fa in una piccola libreria di libri usati a Milano ho comprato una vecchia edizione Einaudi di Bestiario del 1974 che in quarta di copertina annunciava come imminente la sua pubblicazione. Certo si tratta di un libro difficile, qui Cortázar i giochi di parole non si limita a farli in spagnolo ma mischia anche le lingue (il romanzo è ambientato in Francia, dove visse tutta la seconda metà della sua vita) quindi Ilide Carmignani ha dovuto dare il meglio di sé facendo un lavoro encomiabile di invenzione linguistica; e ci sono articoli di giornale riprodotti (e che abbiamo fatto tradurre e reimpaginare, riproducendo una grafica analoga ai ritagli originali) quindi capisco che un libro così difficile da realizzare sia stato considerato antieconomico.

Ti rode non avere alcuni dei romanzi principali di questi autori?

Certo, sarebbe più bello se di Cortázar avessimo anche Rayuela. Però, innanzitutto non escludo che un giorno possa succedere. Ogni editore sceglie in base a suoi propri gusti e criteri, e se è successo che a un certo punto Mondadori e Garzanti decisero di non voler più pubblicare Carver, qualcosa di analogo potrà succedere in futuro. Così come nessuno poteva pensare che quel primo libro di Wallace a uscire in Italia, Una cosa divertente che non farò mai più (che peraltro fu una mia invenzione: decisi di separare il famoso reportage della crociera da tutti gli altri saggi inclusi nell'edizione originaria per presentare l'autore in Italia attraverso un primo libro più accessibile, agile ed economico: a oggi credo che l'Italia sia l'unico paese in cui quel saggio viene pubblicato come libro a sé stante), avrebbe finito col vendere ogni anno più del suo romanzo più celebre, Infinite Jest. È successo lo stesso, per esempio, con un'opera molto meno venduta ma importantissima nel panorama culturale latinoamericano: Paradiso di José Lezama Lima, un libro non facile, di ottocento pagine, che forse comprensibilmente un grande gruppo editoriale può reputare antieconomico, e che siamo riusciti a mettere nel nostro catalogo. È considerato uno dei romanzi più importanti della letteratura cubana di tutti i tempi, è stato antieconomico anche per SUR, perché ha venduto poche migliaia di copie. Ma quando ho avuto l'opportunità di pubblicare quel libro non ho pensato neanche un momento al rischio imprenditoriale: stavo costruendo un catalogo e, per la credibilità di un progetto che imposta il proprio catalogo attorno alla letteratura latinoamericana, avere l’opportunità di pubblicare quel libro e non coglierla al volo sarebbe stato un errore. Inoltre, io ho una mia piccola teoria, che chiamo dei «libri gregari» (per quanto possa sembrare irrispettoso definire un autore della caratura di José Lezama Lima come un gregario): libri che di per sé possono portare un risultato negativo all'editore ma che sono identitari, e per ciò stesso non dovrebbero mai essere valutati solo per la perdita economica perché (anche al di là del loro valore culturale) spesso indirettamente portano anche un risultato economico, seppur non facile da verificare.

Ovvero?

Faccio un esempio, con nomi e numeri più o meno a caso: tra le persone appassionate di letteratura latinoamericana in Italia, può succedere che duemila si avvicinino a SUR perché abbiamo pubblicato Cortázar, duemila perché leggono Onetti, duemila per Osvaldo Soriano, duemila ancora perché scoprono o riscoprono Il bacio della donna ragno di Manuel Puig, e duemila infine perché abbiamo recuperato Paradiso di José Lezama Lima. E tutte queste diecimila, quando pubblichiamo Camila Sosa Villada, si trovano pronte a investire il loro tempo e i loro sedici euro e cinquanta sulla nuova voce che noi proponiamo, che non conoscono ma, avendo imparato a fidarsi di SUR, accolgono con interesse e curiosità. Passo dopo passo se la singola lettrice o lettore impara a fidarsi del «suo» editore, poi la seguirà negli anni.

Ali Smith è un’altra autrice che era a minimum fax…

Con Ali Smith è successo qualcosa di ancora diverso da tutti i possibili percorsi che abbiamo analizzato finora. Di Ali Smith avevo pubblicato due libri con minimum fax, poi lei era passata a Feltrinelli, dove credo abbia pubblicato tre o quattro titoli nell'arco di una decina d'anni. Quando seppe che con SUR avremmo ripreso a fare quello stesso lavoro fatto negli anni a minimum fax sulla letteratura angloamericana, fu Ali stessa a farci sapere tramite la sua agente che avrebbe avuto piacere di tornare a lavorare con noi. Iniziammo alla grande, con L'una e l'altra, per altro una storia ambientata in Italia, a Ferrara, e fu proprio al festival di Internazionale a Ferrara che lo lanciammo con un bellissimo dialogo con Daria Bignardi. Poi subito dopo lei ha iniziato quel progetto folle ed esaltante del quartetto delle stagioni (un libro all'anno), che è diventato un quintetto con l'aggiunta di Coda. Nel frattempo abbiamo recuperato anche uno dei suoi libri precedentemente usciti per Feltrinelli, Voci fuori campo. In qualche modo abbiamo finalmente potuto fare noi la tanto attesa reunion degli (in questo caso, delle) Smith perché oltre ad Ali abbiamo pubblicato pure due libri di saggistica di Zadie Smith: anche lei – pur continuando a pubblicare narrativa per Mondadori – ha scelto di pubblicare in Italia con noi, prima con minimum fax e poi con SUR, soprattutto grazie al forte legame che ha consolidato negli anni con Martina Testa.

E adesso cosa ti aspetta?

E adesso ci ho preso gusto con le traduzioni e quindi – sempre dopo una estenutante trattativa con me stesso – mi sono commissionato una nuova traduzione. Questa volta dall'inglese, e per chiudere un cerchio col primo autore straniero che io abbia mai pubblicato, si tratta di Lawrence Ferlinghetti. Il libro si chiama Pictures of the Gone World, è del 1955 e (altra svista del mondo editoriale italiano di cui abbiamo potuto approfittare) non è mai stato tradotto finora, e così lo pubblicheremo nel 2025 per festeggiare i settant'anni di quel libro che segnò un doppio esordio per Ferlinghetti: era il suo esordio da poeta ma anche il suo esordio da editore, giacché si tratta del primo libro mai pubblicato dalla sua gloriosa casa editrice City Lights. E così con me di nuovo alle prese con la traduzione dei versi di un poeta che amo chiudiamo anche il cerchio di questa intervista che era iniziata con Cortázar. Ci rivediamo fra trent'anni!

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