“Ma tu lo sai cos’è uno stupro?”: intervista all’autrice di “X” Valentina Mira
"Ma tu, lo sai almeno cos'è uno stupro?". Potrebbe essere questa la frase che più racchiude il senso di X, il primo libro della scrittrice e giornalista romana Valentina Mira che, edito da Fandango, sta diventando un caso editoriale. Un libro crudo, scritto sotto forma di lettera al fratello con cui non parla da anni, e che racconta lo stupro subito a 18 anni da un amico, durante una festa. Ma la potenza del libro sta anche nella narrazione ribaltata che si fa della violenza, uscendo dal vittimismo cui spesso si vogliono relegare le donne che subiscono abusi. E ci mostra che lo stupro non è solo quello che ci offre la narrazione letteraria e cinematografica, a opera di sconosciuti, dove la donna urla e viene picchiata. Spesso è agito da persone vicine, che conosciamo, di cui ci fidiamo. Amici, parenti, colleghi, fidanzati. Parlare della ‘banalità dello stupro', scrive Mira, è un primo passo per rompere il tabù che lo circonda. E far sì che le donne si sentano meno sole.
Nel libro parli dello stupro che hai subito alcuni anni fa a opera di un ragazzo che conoscevi molto bene, tra l’altro amico di tuo fratello. Cosa ti ha spinto a voler mettere tutto nero su bianco?
Spesso nelle interviste esce fuori che G. – come chiamo nel libro lo stupratore – fosse all’epoca amico di mio fratello, ed è vero, ma ci tengo a sottolineare come fosse amico di tutti, ben inserito nella scuola e apprezzato dai professori. Eravamo in una scuola cattolica (in giorni in cui si parla dell’uscita del film tratto dal libro di Albinati sulla strage del Circeo, ‘La scuola cattolica' appunto, mi pare sia giusto specificarlo), c’era grande tolleranza con lui e con chiunque si dicesse fascista. Questo per dare un contesto. Era il 2010, è passato molto tempo da allora e pensavo di andare avanti come fanno tutte. Poi è successa un’altra cosa, che ispira i fatti che racconto sul finale del libro e che riguarda invece l’ambiente giornalistico, un ambiente che conta l’85% di donne molestate (secondo un’indagine dello stesso ordine dei giornalisti). Dopo quella cosa ho capito che non ero andata avanti, e che non avrei potuto farlo senza togliermi certe spine. Senza provare, insomma, a restituire al mittente quel bagaglio di vergogna, una vergogna che non è mai stata la mia.
In Italia ci sono pochi libri che parlano dello stupro in questo modo. In genere quando viene rappresentato in film o in romanzi è a opera di persone sconosciute, la donna urla, si dimena, piange. Insomma, al lettore vengono consegnate delle immagini che appartengono chiaramente a una violenza. Nel tuo libro, invece, vediamo che la stupro è anche altro, anzi. Succede così la maggior parte delle volte. Ma la violenza sessuale, come indichi anche tu nella frase “ma tu, lo sai almeno cos’è uno stupro?”, è pure quando non si urla e non si viene picchiate.
In realtà non mi viene in mente un solo romanzo italiano che parli di stupro come ne parlo in X, e lo dico perché l’ho cercato per anni e anni, e non l’ho mai trovato. È uno dei motivi per cui ho deciso di scriverlo: finché qualcosa non viene descritto è come se non ci fosse, ed è ancora peggio se quando invece viene descritto si carica la narrazione di dettagli più attinenti alla pornografia del dolore che alla realtà. Lo stupro è ‘io ti ho detto di no, tu l’hai fatto lo stesso'. Lo è per legge, una costrizione a un atto sessuale come secondo l’articolo 609 bis del codice penale, e lo è nei fatti, nelle vite delle persone a cui succede. Le percosse, le minacce, filmare senza consenso e/o diffondere senza consenso le immagini di uno stupro sono reati ulteriori, si possono aggiungere a quello di violenza sessuale ma non sono necessari a definirla. Sembra una banalità, ma finché la narrazione (anche quella mediatica) ci parla solo di casi limite si continuerà ad avere un’estrema difficoltà a dare un nome a quella cosa quando succede.
Nel libro viene affrontato un tema molto spinoso, quello della denuncia. Si dice sempre a chi subisce una violenza di rivolgersi alle forze dell’ordine, ma quando a te è capitato ti sei trovata di fronte persone decisamente impreparate e poco attente.
Quella parte del libro è romanzata, questo lo dichiaro in ogni presentazione. È frutto del confronto con centinaia di donne che erano andate dalle forze dell’ordine a denunciare, e si sono ritrovate con un messaggio sul telefono con un invito a uscire. È una cosa illegale rubare numeri dalle denunce per fini personali, è un abuso ed è evidente che è una delle ragioni per cui poi non ci si fida e non ci si sente accolte. Dentro a X la storia diventa in quel punto preciso la storia di tante, troppe, e smette di essere solo la mia. Se non possiamo avere giustizia (il 90% delle donne violentate non denuncia), che almeno ci si possa rivendicare una forma creativa di giustizia restitutiva; che almeno si possa dire perché non denunciamo, e cosa capita a molte di quelle che ci provano.
Descrivi la violenza non come una cosa che ti definisce, ma che ti è capitata. Perché questa frase è importante per contribuire a rompere il tabù sullo stupro?
Penso sia un ragionamento utile a contrastare un certo tipo di narrazione che ti vuole vittima, dunque passiva, e che ti accolla cose come “vita spezzata”, “vita rovinata” e altri cliché. Una vita è molto altro, non si riduce a un evento, per quanto brutto. Se c’è una persona che lo stupro definisce è proprio lo stupratore, anche perché spesso è recidivo e l’abuso fa parte della sua modalità relazionale. Dal canto mio sono una scrittrice, non una vittima: lo stupratore l’ho preso e l’ho messo in un libro, e questo francamente è molto più da carnefice che da vittima. Lo rivendico, e il vittimismo lo lascio ai fascisti.