Io non uso il ‘piuttosto che' disgiuntivo. Non mi piace. Mi pare una sciatteria. E lo sappiamo che storicamente ha avuto solo un valore avversativo, comparativo: piuttosto che mangiare la minestra mi butto dalla finestra; preferisco le patate fritte, piuttosto che le zucchine lesse. Facile, no?
Ma al Nord è sbocciato un uso particolare che conferisce al ‘piuttosto che' un valore disgiuntivo, come fosse un ‘oppure': possiamo andare a teatro, piuttosto che al cinema, piuttosto che guardarci un film a casa. Non che sia una novità: pare sia sbocciato nei primi anni Ottanta. E si è diffuso in tutta Italia.
Viene osteggiato da tanti dei più eminenti linguisti del Paese: è un uso inconseguente, che teoricamente può anche creare dei problemi di comunicazione. Se ti dico che ‘voglio andare a Lisbona, piuttosto che a Barcellona', intendo che preferisco Lisbona a Barcellona o che mi piacciono entrambe? Una moda sciocca, nulla più. Ma quale moda non solo dura, ma monta per quarant'anni? Forse chiamarla ‘moda' è parte di un racconto rassicurante, perché le mode sono passeggere, si sa. Cerchiamo di dircela in maniera più dura: dopo quarant'anni in cui ha acquistato una diffusione nazionale, il ‘piuttosto che' disgiuntivo è praticamente un classico. Ciò nonostante è sbagliato?
Viene subito in mente un paragone. Immaginiamo uno Stato come la Repubblica italiana, con le sue leggi sovrane, che fra l'altro prevedono come reato l'evasione fiscale. Poniamo che un gran numero di cittadini di questo Stato (pura ipotesi) evada sistematicamente imposte e tasse per decenni. L'evasione sistematica non vale a rendere legittima l'evasione fiscale, perché finché lo Stato sovrano decide di continuare a perseguirlo, finché la voce sovrana del Parlamento non dice ‘Non è reato', resta reato. Questo vale anche per il ‘piuttosto che' disgiuntivo? Rimane sbagliato fino a che la Crusca non dà il via libera? Ovviamente no.
La lingua non è un sistema normativo con un sovrano. L'italiano non ha un Parlamento che decide per tutti, è un sistema acefalo. L'unica fonte normativa della lingua è la consuetudine. Anche la dottrina, da Bembo alle schede online dell'Accademia della Crusca, è fonte normativa solo nella misura in cui influenza la consuetudine (a proposito, l'avete notato quanto proprio in quelle schede sia questo il parametro che viene misurato? Autorevolezza intelligente).
E che cos'è la consuetudine? I giuristi dicono che è sinolo di diuturnitas e opinio iuris: l'uso costante convinto di essere uso corretto. Se per quarant'anni decine di milioni di persone usano ‘piuttosto che' come variante ricercata (!) di ‘oppure' (evidentemente senza quei problemi d'incomprensione di cui ci preoccupavamo in teoria) diventa difficile affermare che non si è consolidata una consuetudine. Se una frangia della popolazione (per quanto dotta) afferma che tale consuetudine non è accettabile, ci troveremo semplicemente davanti a uno scollamento fra sistemi normativi. La Repubblica è una sola e le sue leggi devono essere ricondotte a coerenza (è uno dei ruoli della Corte di Cassazione, la nomofilachìa); le lingue hanno norme che possono essere perfino antitetiche a seconda del contesto. Sono una sovrapposizione di sistemi normativi differenti.
Quando si sente dire che l'uso disgiuntivo del ‘piuttosto che' è sbagliato, si deve circostanziare l'affermazione: in un parlare e in uno scrivere sorvegliato secondo un gusto (lo posso dire?) rétro, è un uso senz'altro sbagliato. Quindi si deve stare attenti perché è un uso che può fare storicere il naso. Altrimenti ci si può sforzare di intendere e apprezzare il ponte di pensiero, solido e sottile, che avvicina la comparazione all'alternativa, il ponte del giudizio che illumina possibilità squadernate. Otto secoli di ‘ovvero' che vuol dire sia ‘oppure' sia ‘cioè' non ci hanno inchiodato nella barbarie; il ‘piuttosto che' disgiuntivo è sintomo di decadenza solo nell'occhio di chi guarda e guardando vede mode corrotte.