La storia del Luciano Stella produttore coincide in parte con la storia del Luciano Stella esercente. Quando ha co-fondato Mad Entertainment con Maria Carolina Terzi, oggi presidente di Cartoon Italia, l’ha fatto per rispondere a una necessità precisa: raccontare la storia che aveva in mente e non lasciare andare tutto ciò che, durante la lavorazione de L’arte della felicità, aveva imparato e costruito.
Ha messo insieme una squadra, ha creato una factory; ha ritagliato gli spazi e i locali al piano superiore del suo cinema, il Modernissimo, per dare modo a un gruppo di ragazzi e ragazze di realizzare uno dei film d’animazione italiani più importanti degli ultimi dieci anni. Ci ha creduto e, racconta, l’ha fatto affidandosi alla propria inconsapevolezza. Il suo desiderio iniziale era quello di mettere insieme le esperienze e le testimonianze che aveva raccolto nel corso del tempo grazie alla serie d’incontri che aveva organizzato con sua moglie. Poi, quasi naturalmente, affidandosi all’istinto e alla pancia delle storie, ha trovato la sua strada.
Con Mad Entertainment, ha prodotto film come Nostalgia di Mario Martone e Caracas di Marco D’Amore (quest’ultimo al cinema dal 29 febbraio; entrambi sviluppati insieme a Picomedia, ndr). Ma si è pure imbarcato in un’avventura animata come Sono ancora vivo, il film che segna l’esordio alla regia di Roberto Saviano. Si è diviso equamente tra live action e animazione; ha sviluppato, insieme a Terzi e ai suoi figli, Carlo e Lorenza, una realtà dinamica, piena di giovani e pronta a intuire non solo gli andamenti più evidenti del mercato, ma a investire attivamente nelle novità e nella sperimentazione.
Stella, contrariamente ad altri suoi colleghi, fonda parte della propria identità sul suo passato da esercente. A Napoli e nella provincia, ha aperto sale ed è stato uno dei primi a capire una cosa fondamentale: ai cinema serve un’anima, perché non basta il contenuto per avvicinare e convincere il pubblico. Per Stella sono importanti le opere prime, ed è soprattutto fondamentale riuscire a preservare l’anima più innovativa dell’industria per permettere a una nuova generazione di talenti di venire avanti e di farsi notare.
Per Stella, Napoli è come New York. E la factory di Mad Entertainment è più simile al giapponese Studio Ghibli che all’americana Pixar: perché nella prima c’è una riconoscibilità precisa, che va oltre lo spazio e il tempo e che ha fatto della visione dei suoi autori un elemento distintivo, praticamente imprescindibile. Questo è il suo Controcampo.
Come sta il cinema italiano?
Mi sembra che stia abbastanza bene. Sono state fatte delle cose bellissime e importanti, e lo sappiamo. Ma è anche vero che stiamo attraversando un periodo di transizione. Sia dal punto di vista economico sia dal punto di vista dei contenuti.
Partiamo dall’aspetto economico.
Il mercato ha avuto, come in molti hanno detto, una vera e propria contrazione. Dopo la bolla degli ultimi anni, che non va secondo me considerata come una reale espansione, ci siamo ritrovati davanti a un aumento dei costi.
E da che cosa deriva questo aumento dei costi?
La bolla che si è creata ha influenzato l’approccio che molti hanno avuto rispetto al lavoro, e così sono stati prodotti e sviluppati tanti, troppi progetti. Domanda e offerta sono state gonfiate da questa percezione distorta, e gli stessi costi, di conseguenza, hanno subito un’impennata per l’improvvisa ricerca di manodopera e risorse produttive.
Che cosa c’è, secondo te, alla fine di questa transizione?
Probabilmente verranno rimessi al centro i prodotti, con le loro motivazioni, la loro validità e la loro importanza. Soprattutto, tornerà a essere centrale l’interazione con il pubblico.
Ed arriviamo, in questo modo, al secondo punto: il cambiamento nella produzione e nello sviluppo di progetti.
La commedia italiana che è stata da sempre un traino per la nostra industria ha bisogno di essere ripensata. Il cinema d’autore non è un genere – non bisognerebbe confondere le cose, secondo me. Il cinema d’autore sottintende una firma forte e riconoscibile. Nella commedia italiana, invece, tornano determinate strutture e determinati archetipi narrativi. Ed è diversa, secondo me, dalla commedia in cui il corpo del comico ha una ruolo fondamentale. Pensa a Totò o, più recentemente, a Checco Zalone. Ecco, questa commedia, che si affida molto alla scrittura, aveva già bisogno di un rinnovamento.
Ci sono stati segnali incoraggianti?
Assolutamente. Il caso più eclatante, negli ultimi mesi, è stato quello di Paola Cortellesi e di C’è ancora domani. Ma pure altri film, più o meno grandi, più o meno riusciti, hanno dimostrato che c’è una voglia effettiva di novità.
Per realtà come Mad Entertainment, che possono muoversi più liberamente rispetto a una grossa produzione, questo cambiamento di tendenza è una cosa positiva o rischia, al contrario, di essere l’ennesima batosta?
Ci sono entrambi gli aspetti. Un ridimensionamento del mercato è un duro colpo per tutti. Su noi indipendenti può avere un effetto maggiore. Se nel prossimo futuro ci saranno meno risorse, noi avremo meno occasioni per sviluppare opere prime, cercare nuovi autori e spingere sull’acceleratore della sperimentazione. E la sperimentazione, per me, è vitale.
Perché?
Perché ci permette di gettare i semi di una nuova generazione di creativi. Se non si fanno L’uomo in più o Morte di un matematico napoletano e si seguono invece strade più istituzionali, con nomi già affermati che provengono da altri mestieri dell’audiovisivo, come possiamo crescere?
State lavorando a opere prime, in questo periodo?
Siamo sul set con Nottefonda, che segna l’esordio alla regia di Giuseppe Miale Di Mauro. Ecco, Giuseppe viene dalla compagnia Nest e in questo film lavora con Francesco Di Leva.
Sta diventando più difficile produrre titoli come questo?
Sì, ed è l’altra faccia della medaglia del discorso che facevo prima.
Secondo te, c’è una consapevolezza diffusa nella nostra industria dell’importanza degli esordi? Della necessità effettiva che abbiamo di nuove voci?
Non credo che ci sia sempre la giusta risposta da parte delle realtà più grandi e dei broadcaster. E intendiamoci: è facile capire il perché. In un’industria come la nostra, dove è difficile prevedere l’andamento di un film o capire il suo potenziale reale in termini di guadagni e incassi, si preferisce puntare su qualcosa che si conosce già, su autori che hanno già un nome e una certa esperienza. Personalmente, però, non mi sento di condividere al cento per cento questa visione.
Qual è il problema?
C’è come una paura diffusa per le opere prime. Perché fanno più fatica a vendere i diritti di messa in onda televisiva, per esempio. E in questo modo le risorse a cui si può accedere diminuiscono. Talvolta, pensa, non ha nemmeno senso parlare di film low budget; talvolta ci ritroviamo davanti a opere no budget, senza budget. Serve un’industria culturale delle opere prime. Che ha due anime. Una più attenta all’autorialità e al contenuto e una più concentrata sull’aspetto commerciale. In passato, non c’era uno sbilanciamento tra questi due bisogni. Oggi sì.
Perché in passato si faceva meno fatica?
Perché era tutto diverso. Per esempio, c’era un Ministero pronto a sostenerti e a seguirti passo dopo passo nei debutti; c’erano broadcaster e società di produzione più attivi e interessati. Oggi non è così; oggi la parte commerciale ha preso il sopravvento sull’anima più sperimentale.
Mad dove si pone in questo discorso?
Per carità, in questi anni siamo cresciuti. E anche noi abbiamo cominciato a comprare i diritti di libri famosi e storie già conosciute, e anche noi cerchiamo di lavorare con nomi affermati. Proviamo, però, a fare tutte e due le cose. Stando attenti pure a quelle energie che offrono possibilità e mostrano talenti presenti sul territorio, come possono essere le compagnie teatrali.
A proposito del rapporto che voi e altre produzioni avete con il territorio, che tipo di sostegno arriva da parte delle istituzioni regionali?
Tanto tempo fa, come sai, sono stato presidente della Film Commission della Campania. E da allora mi pare che siano cambiate delle cose – poche, sì, ma sono cambiate. Finalmente abbiamo una legge sul cinema, varata dalla Regione, e sono state messe in gioco diverse risorse. Napoli, poi, è esplosa come set. Ci sono tante richieste e ci sono tante produzioni attive.
Che cosa manca?
La consapevolezza che la Campania e Napoli non sono territori secondari. Se Roma è la nostra Hollywood, Napoli è New York. Qui vengono generate costantemente storie. E il potenziale cinematografico e audiovisivo è evidente. Ciò che serve è la presenza di soggetti pronti a valorizzare questo potenziale. Dal mio punto di vista, le istituzioni e la politica dovrebbero fare un passo in avanti in più per capire che i progetti pensati localmente hanno la forza e le potenzialità per andare bene e per sostenere ulteriormente la crescita del settore. Serve un accompagnamento per lo sviluppo delle imprese, non un’imposizione feroce dall’alto.
Quanti progetti ricevete, più o meno, in un mese?
Una quindicina, direi. Ovviamente a volte ne arrivano di più e altre volte di meno.
E il territorio, in questi progetti, diventa un limite? Le proposte finiscono per somigliarsi tra di loro?
Indubbiamente il territorio, come elemento distintivo e narrativo, è presente in tutti questi progetti. Ciò che cambia è il modo in cui lo affrontano: alcuni lo fanno in maniera più convincente, altri più superficialmente. Il nostro territorio non è creativo unicamente per quell’idea poetica di teatralità napoletana; il nostro territorio è creativo perché offre, come dicevo prima, spunti costanti. La Campania ha sempre fatto una differenza importante nel consumo di un determinato cinema. Non è una novità; è storia dell’esercizio cinematografico. In Campania, Siani arriva a rappresentare il 46% degli incassi. Da una parte è un limite, certo. Perché sembra esserci poco spazio per gli altri – e non è proprio così, in realtà. Ma è pure una risorsa. Perché dimostra l’esistenza di un pubblico attivo, di uno zoccolo duro. E la stessa cosa succede anche in teatro.
Non è un fenomeno che si ripete anche nella altre regioni, questo?
In Campania è decisamente più spiccato. Più del Lazio, quando esce il nuovo film di Carlo Verdone, e più della Sicilia, quando arrivano in sala i film dei beniamini locali. A Napoli e in Campania c’è un consumo locale di arte – cinema, tv, musica e teatro – importante. Evidentissimo. Esiste un mercato facilmente riconoscibile e rintracciabile. E serve una maturità profonda, maggiore, da parte delle istituzioni e delle singole produzioni per valorizzare questo mercato al massimo.
Mi pare, però, che ci sia una contraddizione evidente: nonostante le possibilità e il richiamo, al sud e in particolare in Campania continua a mancare una struttura effettiva, fisica, per l’audiovisivo.
E questo, però, ci permette di muoverci più liberamente. Possiamo entrare nella fase dell’industria leggera, senza grandi pesi o grandi necessità. Per questo diventa fondamentale il sostegno delle istituzioni: perché questo sviluppo, che potenzialmente può essere enorme, ha bisogno di linee guida e di confini precisi – sia nel senso di spazi da rispettare sia pure come messa a fuoco delle singole possibilità.
Si fa fatica, sul territorio, a fare sistema? Tante volte, si è parlato della necessità di creare un vero e proprio Palazzo del Cinema per raccogliere e tenere insieme le tante produzioni che si trovano in Campania. Eppure non ci sono mai stati dei risultati incoraggianti in questo senso.
La questione, stavolta, è antropologica. Nella nostra cultura, è diffusa una grande generosità ma c’è anche molta individualità. L’idea di condominio, di spazio condiviso e gestito insieme, non ci appartiene. Non è il nostro tratto distintivo. Ci sono delle eccezioni, certo, ma sono rare. Personalmente ho sempre provato a collaborare con gli altri e a lavorare con società. Ho costruito delle vere e proprie compagini; pensa alla mia esperienza con il Modernissimo e le altre sale. Se mi riconosco un talento, è quello di saper mettere insieme le persone. In senso più ampio, e non guardando ai singoli, è evidente la mancanza di un’idea di sistema.
Cosa potrebbe aiutare a incentivare la collaborazione?
Be’, se le istituzioni facessero dei bandi pronti a premiare la sinergia tra due o più produzioni, sono sicuro che riusciremmo a trovare una quadra. Perché ci sarebbe un obiettivo evidente, tangibile, da raggiungere.
Ti piacerebbe tornare a essere esercente cinematografica?
È dove ho iniziato ed è stato, come sai, il mio mestiere per tanto tempo. Ho aperto il Modernissimo trent’anni fa, nel 1994. Siamo stati capaci di rompere tutti gli argini e gli equilibri con il nostro lavoro. Siamo stati la prima multisala nel centro cittadino e la prima sala con il Dolby. Ho avuto molte soddisfazioni grazie all’esercizio. Ho costruito multiplex, lanciato sale al di fuori di Napoli e creato una vera e propria catena di cinema.
Qual è stata la lezione più importante che hai imparato in quel periodo?
Che il rapporto con il pubblico va coltivato, e che non basta avere il grande film per attirare spettatori. Bisogna creare e spingere un’offerta precisa e riconoscibile. Bisogna dotare le sale di una personalità. E questa cosa è particolarmente evidente negli ultimi anni. Le sale cittadine sono tornate al centro dei consumi e vengono preferite da chi vive in città.
E questa riconoscibilità è diffusa tra le sale oggi?
No. E questo è un problema. Si continua a pensare che il contenuto sia più importante del contenitore. E se è indubbiamente vero che aiuta avere bei film, è vero anche che il cinema gioca un ruolo fondamentale. Con il Modernissimo, abbiamo messo insieme i blockbuster e i film d’essai, i popcorn e le discussioni più ricercate e intellettuali. Abbiamo sempre provato a diffondere un gusto trasversale. Perché non basta mangiar bene, serve pure un buon servizio e un certo modo di impiattare. E gli ultimi anni, te lo ripeto, ne sono una prova. Dopo il COVID, l’elemento economico ha ceduto il passo a una capacità esplosiva di sapersi raccontare. Pensa al Cinema Troisi o al Modernissimo di Bologna. C’è un circolo virtuoso. Successo chiama pubblico e pubblico chiama successo.
E sono cambiate queste due coordinate, il successo e il pubblico?
In parte sì, ed è evidente anche questo. Dieci anni fa, un film di Miyazaki non avrebbe mai potuto fare un risultato come quello de Il ragazzo e l’airone. È chiaro che ci sono degli spettatori diversi, che non aspettano solo il grande evento come possono essere Barbie e Oppenheimer e che sono cresciuti con altri riferimenti. Per mantenere una comunicazione costante con questo pubblico, è fondamentale curare la propria identità e la propria offerta. E se si instaura un contatto, il successo diventa una questione differente e molto più profonda rispetto al semplice passaparola.
Torno alla domanda che ti ho fatto prima: ti piacerebbe, allora, tornare all’esercizio?
Sì, mi piacerebbe molto. Ma solo così, con una grande anima e un grande attivismo. Non basta, paradossalmente, la qualità tecnica della proiezione. Oggi serve pure la qualità dell’appuntamento, e a me interessa esattamente questo aspetto.
E sarebbe possibile, secondo te, un dialogo tra esercizio e produzioni?
Certo. Anzi, sarebbe un altro degli effetti immediati di una gestione differente della sala. Anche le produzioni potrebbero guadagnare da questo approccio all’esercizio. Al di là del grande film, lo spettatore comincia a fidarsi anche di ciò che la sala decide di programmare. E così possono avere successo pure quei film più piccoli, non mainstream, che non godono già di una visibilità mediatica importante.
Qual è il problema più grande, oggi, dell’esercizio cinematografico?
Si rinnova troppo lentamente. Ed è su questo che bisognerebbe accelerare.
Uno dei grandi cavalli di battaglia di Mad Entertainment è sempre stata l’animazione. Da L’arte della felicità, arrivato in sala dieci anni fa, a Gatta Cenerentola, Yaya e Lennie, le serie per Rai Kids e i prossimi progetti come il film di Roberto Saviano. Dal tuo punto di vista, come sta l’animazione in Italia? Qualcosa si muove o si continua a fare un’enorme fatica?
Ci troviamo in una situazione ancora altamente contraddittoria. Noi, come realtà, abbiamo portato una grossa novità con L’arte della felicità. Gatta Cenerentola, poi, è riuscita a fare un incasso che si è fatto notare. Esiste, secondo me, un pubblico giovane appassionato di animazione e pronto a vederla. Ciò che manca è un’industria dell'animazione italiana. Noi abbiamo vinto due David di Donatello, uno come migliori produttori e uno per i migliori effetti. Perché, semplicemente, non esiste una categoria per i film d’animazione. E questo nonostante la nostra tradizione e i risultati che siamo stati in grado di ottenere.
Cosa resta?
Il grande partner dell’animazione, in Italia, rimane Rai Kids, che però si rivolge solo a un target specifico. Mad è uno studio, una factory, non fa service per altri. In questo momento, come dicevi anche tu, stiamo lavorando a Sono ancora vivo di Roberto Saviano, tratto dal suo fumetto, con Lucky Red e altri partner molto importanti.
E per quanto riguarda le piattaforme, invece? Non ci sono stati contatti con loro?
Sì, ci sono stati, certo. Ma Zerocalcare resta un’eccezione. Perché Zerocalcare è, innanzitutto, un grande successo editoriale. E questo gli ha permesso, poi, di spostarsi nell’animazione e di sviluppare i suoi progetti. Ma non c’è un’attenzione diffusa all’animazione di per sé.
Al di là di Saviano, state lavorando ad altri progetti?
Sì, continuiamo a sviluppare e a immaginare sempre cose diverse. Negli anni, con Mad abbiamo raccolto una serie di talenti e di autori con cui ci teniamo costantemente in contatto: Alessandro Rak, Marino Guarnieri, Ivan Cappiello e così via. Questi, però, sono lavori lunghissimi, che durano anni e anni. E nonostante quest’effettiva difficoltà, noi non abbiamo mai pensato di frenare o di rallentare.
Mai?
Abbiamo il nostro studio a Napoli, a piazza del Gesù, nell’appartamento dove è stato girato L’oro di Napoli di Vittorio De Sica, e non ci siamo mai spostati in provincia, in qualche capannone di convenienza. L’animazione continua a essere una delle anime fondanti di Mad: la usiamo anche in altri film, come nei documentari. Pensa a quello che abbiamo fatto con le Quattro giornate di Napoli. Per noi, usare l’animazione è una cosa normale, non dobbiamo riferirci ad altri.
In questi anni, avete lavorato anche a storie tratte da fumetti. Poco fa abbiamo parlato di Sono ancora vivo di Saviano, pubblicato da Bao. Ma avete portato sul grande schermo pure Come prima di Alfred. I fumetti sono una fonte costante di ispirazione per voi?
Assolutamente sì, continuiamo a leggere e a valutare storie. Il fumetto, in questi anni, è tornato a essere al centro del dibattito pubblico, ma per noi che siamo cresciuti negli anni Settanta è sempre stato così. Per me i fumetti non sono per forza la base per film di animazione, nonostante l’evidente vicinanza che c’è nel disegno. Per me, possono essere lo spunto ideale per film live action, com’è stato per Come prima, che per me è un progetto a suo modo riuscito, con due splendidi attori come Antonio Folletto e Francesco Di Leva.
Come produttore, che cosa cerchi in una storia?
Sono un produttore giovanissimo pur essendo vecchissimo. (ride, ndr) Sono grande di età, ma produco da relativamente poco. Io parto dal mio punto di vista come spettatore. Mi piace andare al cinema, e sono onnivoro: guardo qualunque cosa. Dal grande film americano al film più autoriale. Dall’animazione giapponese al film di genere. Io cerco storie capace di emozionarmi, storie con la pancia. Per me Perfect Days è emozionante, non è solo un esercizio intellettuale. Così com’è emozionante Nostalgia. Perché racconta contraddizioni e sentimenti. E quando leggo le sceneggiature, leggo le storie.
E che cosa speri di trovare?
Spero di essere colpito dalla trama e dai personaggi, di essere travolto. Abbiamo bisogno di film così, in grado di parlarci direttamente, senza mezzi termini e compromessi. Abbiamo bisogno di sentirci nuovamente partecipi.