L’ossessione per il decoro della nostra politica è una questione di egemonia culturale
Da qualche tempo il tema del “decoro” ha acquisito una centralità crescente nel dibattito pubblico, in modo particolare nello spazio della politica locale. Quando la corsa agli scranni comunali si avvicina, i candidati non perdono occasione per impugnare fieramente la bandiera della “lotta al degrado”, provando a capitalizzare su una percezione di insicurezza parecchio diffusa tra gli elettori. L’ultimo in ordine di tempo è stato Carlo Calenda, che ha auspicato di poter contare sull’esperienza di Guido Bertolaso nella sua prossima – eventuale – amministrazione, cucendo addosso all’ex Capo della Protezione Civile il ruolo di “commissario straordinario e vicesindaco al decoro urbano”. Del resto, che il leader di Azione avesse in cantiere un giro di vite sulla sicurezza lo si era capito già all’indomani della pubblicazione del suo piano Per Roma, che ospita un’intera sezione dedicata al tema, articolata in ben 7 punti. Tra questi, a balzare all’occhio è soprattutto il terzo, denominato “Stop alla malamovida”, che prevede di agire su 3 direttrici per risolvere l'intricato rebus del degrado capitolino: inasprire ulteriormente i controlli sulla vendita di alcolici al dettaglio, aggiornare il Regolamento di Polizia Urbana della città (già particolarmente restrittivo) per "dare pieno utilizzo agli ordini di allontanamento e al daspo urbano" e rafforzare i pattugliamenti degli agenti nei luoghi reputati “più sensibili”.
Il decoro è un leitmotiv che piace a destra e a sinistra
La scorsa settimana, rispondendo a un tweet in cui Christian Raimo evidenziava l'ideologia reazionaria alla base del suo programma, Calenda ha alzato gli scudi, rivendicando che “su decoro e sicurezza si fonda la protezione dei più deboli” e specificando che le sue idee per contenere la “malamovida” non sono troppo distanti da quelle che il sindaco del Pd Andrea Gnassi – che nel suo programma era giunto a proporre l’istituzione di un “Ufficio per il decoro e l’estetica urbana” – ha applicato a Rimini. In effetti, Calenda non ha tutti i torti: l’ossessione per il decoro urbano non è un portato di esclusiva pertinenza delle destre, ma si inserisce in una lunga tradizione bipartisan che, negli ultimi trent’anni, è stata riproposta da qualsiasi schieramento e senza soluzione di continuità. Le offensive senza quartiere contro la prostituzione di strada, i lavavetri, gli accampamenti rom e i mendicanti sono state giustificate (anche) in nome del decoro tanto da destra quanto da sinistra. Un filone che, in Italia, affonda le radici nell’Anno Domini 1997, quando il sindaco di Treviso Giancarlo Gentilini dispose la rimozione delle panchine dalla città – colpevoli a sua detta di foraggiare le adunate dei senzatetto in cerca di un punto di ristoro – e arriva fino a oggi, con le multe ai senzatetto, le settimanali battute di caccia contro presunti delinquenti e imbrattatori di muri di Vincenzo De Luca e l’installazione di fioriere anti-bivacco e altri dispositivi di architettura ostile (pratiche che Dario Nardella, un altro sindaco in quota Pd, conosce piuttosto bene). Il risultato è sotto gli occhi di tutti: il "decoro" è diventato un leitmotiv insindacabile delle politiche locali, sino al punto che destra a sinistra fanno a gara per applicare il regolamento di polizia urbana più restrittivo.
Il decoro e la guerra ai poveri
Secondo alcuni autori (Tamar Pitch, Wolf Bukowski, Furio Jesi e Saskia Sassen, solo per citarne alcuni) queste continue strette su decoro e sicurezza non sarebbero altro che strategie portate avanti per stimolare la creazione di città a misura di consumatore, da implementare fino al raggiungimento di un nuovo senso comune in cui la stessa idea di fruire di uno spazio pubblico senza azionare la macchina dei consumi è considerata un’eresia: uno status quo in cui scambiare due chiacchiere seduti sui gradini di una chiesa o stendersi su una panchina per leggere un libro diventano dei “comportamenti antisociali”, e dal cui raggiungimento non siamo poi così lontani. Lo dimostrano diverse evidenze, su tutte le crociate contro le persone senza dimora portate avanti in diverse città, finalizzate a estromettere i “barboni” dai centri storici per preservarne l’eleganza e il candore, seguendo le direttrici di un perfetto esercizio di creazione di spazio a uso e consumo dei più ricchi (negli scorsi mesi, alcune amministrazioni hanno addirittura pensato, fortunatamente senza riuscirci, di privare gli "accattoni" della compagnia dei loro cani). La domanda sorge spontanea: come è stato possibile trasformare questa demonizzazione del bivacco in una prassi consolidata? Semplice: quarant’anni fa, gli ideologi della “tolleranza zero” hanno vinto una lotta per l’egemonia culturale, definendo un nuovo obiettivo prioritario per gli amministratori locali: ripulire le loro città dallo sporco e dal disordine che turbano o minacciano la vita dei "buoni cittadini".
Il decoro: una questione di egemonia culturale e “finestre rotte”
La quasi totalità delle politiche securitarie contemporanee, infatti, prende le mosse da una tesi che George L. Kelling e James Q. Wilson espressero in un articolo, pubblicato su The Atlantic nel 1982 e intitolato “Broken Windows: the police and neighborhood safety”. Secondo i due autori l'adozione di alcune strategie, come ad esempio ridurre i segnali di incuria presenti in un quartiere degradato (come una finestra rotta, per l’appunto), reprimere nel minor tempo possibile reati di piccolo cablaggio (come l’evasione nel pagamento di parcheggi, mezzi pubblici o pedaggi) e disincentivare comportamenti “contrari al decoro" (bere al di fuori dei locali, sostare eccessivamente in uno spazio pubblico), contribuirebbe a ridurre il rischio di crimini più gravi e scoraggerebbe eventuali atti di emulazione. Per supportare la propria tesi, Kelling e Wilson citavano un piano adottato dallo Stato del New Jersey nel 1981, denominato Safe and Clean Neighborhoods Program, che aumentò i pattugliamenti a piedi delle forze dell'ordine in 28 città americane: anche se successive rivelazioni dimostrarono che, all’aumento delle perlustrazioni, non corrispondeva alcun calo delle attività criminali, a detta dei due autori la misura andava giudicata positivamente, perché rendeva gli abitanti più sicuri sul piano della percezione; poco importa se i dati empirici dimostravano il contrario. Per questa via, Kelling e Wilson inaugurarono un nuovo indirizzo: per accaparrarsi il consenso degli elettori e legittimare l'adozione di piani di sicurezza urbana sempre più rigorosi, sarebbe stato sufficiente individuare una minaccia comune (gli immigrati, i tossicodipendenti, le prostitute, i rom e qualsiasi altra categoria di persone associate a comportamenti in qualche modo "devianti") che potesse esacerbare l'insicurezza percepita dai cittadini, anche se si trattava di una minaccia di lievissima entità o che addirittura non esisteva. Un’idea che, dal 1982 a oggi, è diventata egemone e ha finito per influenzare le politiche securitarie adottate su scala locale, dalla New York di Rudi Giuliani alla Treviso di Gentilini, fino all'utopia di una Roma pulita, elegante, candida e silenziosa che anima i sogni di Calenda.
Decoro e percezione dell’insicurezza in Italia
Questi espedienti sono ben conosciuti anche in Italia, dove da anni si registra una discrepanza evidente tra il tasso di criminalità effettivo e la percezione dell’insicurezza da parte dei cittadini. Una situazione fotografata anche dal secondo rapporto sulla Filiera della sicurezza in Italia redatto da Censis: l’indagine ha evidenziato come, alla minore esposizione alla criminalità (nel 2020, anche in ragione delle misure restrittive adottate per tenere sotto controllo i contagi, è stata registrata una diminuzione di reati denunciati rispetto all’anno precedente pari al 18,9%), non abbia fatto riscontro un simile decremento sul piano della percezione: infatti, due terzi degli italiani ha dichiarato immutata la paura di ritrovarsi vittima di reato rispetto all’anno precedente, il 28,6% si sente meno al sicuro e solo il 4,8% del campione ha percepito un qualche tipo di miglioramento. Quando la sensazione della maggioranza è quella di versare costantemente in una situazione di pericolo, la domanda di sicurezza finisce inevitabilmente per aumentare e le misure anti-bivacco adottate “in nome del decoro” incontrano il favore dei cittadini: i nostri amministratori lo hanno capito da tempi non sospetti e si limitano a seguire questo semplice postulato (alcune volte credendoci con fede cieca, altre per semplici motivi di opportunità politica), anche quando alcune misure si ripercuotono sulla pelle dei poveri. Enfatizzare il senso del pericolo è una strategia che paga: allarga i consensi, diffonde tra gli elettori la sensazione che il loro primo cittadino sia costantemente operativo e attento ai loro bisogni. Lo ha spiegato molto bene la giurista Tamar Pitch nel suo pamphlet Contro il decoro: "Le ordinanze anti-droga, anti-alcol, anti-schiamazzi e anti-assembramenti assolvono, simbolicamente, a diversi compiti: dicono ai "perbene" di star tranquilli, che il loro sindaco prende sul serio loro paure e preoccupazioni, che questi sono i veri problemi della città e noi ce ne facciamo carico. Vedete quanto lavoriamo?". In un contesto in cui, da più di 30 anni, la ghettizzazione sembra costituire il naturale sbocco di qualsiasi politica urbana, forse sarebbe il caso di cominciare a restituire un pezzettino di spazio pubblico alla società e mettere in discussione le logiche escludenti attraverso cui le nostre città vengono gestite, anziché annunciare l'ennesima crociata contro la malamovida, i mendicanti e la "gioventù disgraziata".
*Il miglior resoconto disponibile in Italiano sulla "Teoria delle finestre rotte" è contenuto ne La buona educazione degli oppressi, un libro di Wolf Bukowski pubblicato nel 2018.