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L’oro d’Italia di Marco Frittella, un libro che affonda le mani nella storia culturale del Paese

Introduzione al libro “L’oro d’Italia. Dall’abbandono alla rinascita, viaggio nel paese che riscopre i suoi tesori (e la sua anima)” di Marco Frittella.
A cura di Redazione Cultura
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L’idea di questo libro nacque il giorno in cui mi capitò di leggere la storia dell’“angelo di Carditello”, un cittadino della provincia di Caserta che si era autonominato custode volontario di un gioiello dell’architettura borbonica del Settecento – appunto gli edifici e i terreni della Reale Tenuta di Carditello nel comune di San Tammaro – che si trovava davanti a casa sua e che versava da molti anni nel più triste abbandono, vandalizzato e depredato di tutto, dai pavimenti alle scale, dalle statue alle acquasantiere. Quell’uomo si chiamava – e dobbiamo usare il verbo al passato perché purtroppo non è più tra noi – Tommaso Cestrone, di professione agricoltore e allevatore che, innamoratosi di Carditello, aveva preso a occuparsene per cercare di proteggerla e di attirare l’attenzione su quella bellezza che stava andando in rovina nella generale indifferenza, contribuendo anch’essa al degrado e alla desolazione della Terra dei Fuochi.

In questa sua missione generosa il signor Cestrone si impegnava vigilando, rimettendoci di tasca propria, subendo minacce, intimidazioni, una bomba carta a casa e un incendio in fattoria. Il suo attivismo dava fastidio a chi per anni – e c’era di mezzo anche la camorra – aveva usato il sito per i propri comodi. La Reggia di Carditello, per chi non ne conosce la storia o l’esistenza, è uno dei ventidue siti borbonici della Campania, e fu fatta costruire nel 1787 da Ferdinando IV per andare a caccia e soggiornare nel cuore dell’allora Campania Felix, per allevare razze pregiate di cavalli, per produrre mozzarelle e coltivare un terreno assai fertile con tecniche sperimentali. Un bellissimo complesso progettato da un allievo di Vanvitelli, fatto affrescare e decorare da Jacob P. Hackert, dotato di un edificio centrale con belvedere e loggiato, un galoppatoio, fontane, obelischi e un tempietto circolare. Con l’Unità d’Italia, la Reggia – divenuta accampamento dei Garibaldini – passò dai Borbone ai Savoia e più tardi da questi all’Opera Nazionale Combattenti; durante la Seconda guerra mondiale fu destinata ad acquartieramento di truppe sia tedesche che americane; infine, venne acquisita da un carrozzone regionale pieno di debiti, il Consorzio Agrario del Basso Volturno, che presto la abbandonò al suo destino.

In seguito la Soprintendenza pose un vincolo quasi solo teorico sull’edificio, la magistratura procedette con un sequestro e si tentò anche la vendita ai privati del sito, ma ben dieci aste andarono deserte, e vai a sapere il perché. In tutto ciò il signor Tommaso giorno e notte era lì da solo a vigilare, pulire, riparare, portare via i rifiuti che venivano scaricati di notte, tagliare le piante infestanti, fare campagna di denuncia su Facebook. Con la sua tenacia riuscì via social a coinvolgere il nuovo ministro dei Beni Culturali, Massimo Bray, uomo colto e sensibile alla causa del Sud, che decise di andare in visita solitaria a Carditello (come avrebbe poi fatto anche a Pompei). “È la volta buona che lo Stato acquista la Reggia” pensò Tommaso, e aveva ragione: di fronte a quello sfascio, Bray si era appassionato alla causa, aveva promesso l’acquisto da parte del Ministero e l’8 gennaio 2014 mantenne la parola. Purtroppo solo qualche giorno prima, nella notte di Natale, Tommaso era morto di infarto a soli 48 anni. Fino all’ultimo aveva lanciato online l’appello per la “sua” Carditello, e infatti lì lo trovarono al mattino i familiari.

Stiamo dunque parlando di un eroe civile che ha difeso la cultura e la bellezza del suo territorio, che non ha avuto paura della camorra e dei delinquenti, che ha creduto nello Stato. Acquisita dal Ministero nel 2014, Carditello dal 2016 è gestita da una Fondazione cui partecipano lo Stato, le università della Campania, gli enti locali. Da allora la Reggia è stata aperta al pubblico mentre vanno avanti i restauri, e si tengono molte iniziative culturali e produttive: per esempio l’allevamento del Cavallo di Razza Governativa Persano, la cui figura campeggiava sull’aereo di Francesco Baracca durante la Prima guerra mondiale e che è da sempre il marchio delle “rosse” di Maranello: da Carditello viene il Cavallino Rampante Ferrari. Un successo, per concludere, al quale manca solo un riconoscimento pubblico e ufficiale a Tommaso Cestrone. È grazie a lui che a Carditello ha trovato nuova vita un luogo di cultura e di bellezza che fa il controcanto della legalità nella terra dove purtroppo ancora bisogna vincere la guerra contro la camorra e l’avvelenamento dei suoli. Perché racconto tutto ciò? Perché di storie simili nel nostro Paese ce ne sono tante, e meritano di essere portate alla luce: è ora di farlo.

Esistono intere biblioteche, emeroteche, cineteche, che ci raccontano i decenni in cui il patrimonio storico artistico del nostro Paese è stato quasi dimenticato, spesso lasciato al degrado e abbandonato allo scempio degli speculatori. Gli anni dei tagli ai finanziamenti della cultura e di un ministero che pure era nato con grandi e lodevoli ambizioni ai tempi di Giovanni Spadolini e Alberto Ronchey, ma poi è stato affidato alle terze file della politica. Abbiamo tutti nella memoria i crolli di Pompei, tanto per fare un esempio clamoroso, e prima ancora le denunce di Antonio Cederna e di Italia Nostra per lo scandalo delle ville dei nuovi ricchi e dei capannoni costruiti lungo l’Appia Antica, accanto o addirittura sopra i sepolcreti romani. Tutte denunce sacrosante: non bisogna mai smettere di vigilare, ci dice ancora oggi il signor Tommaso. Ma adesso per fortuna spira un vento nuovo. Gli italiani stanno capendo sempre di più quanto immenso sia il valore del loro patrimonio storico, artistico, culturale. E non solo quanto esso valga per l’economia e lo sviluppo di una zona, ma anche per la vita e l’anima delle comunità che nelle testimonianze del passato trovano le radici e progettano il futuro.

Si moltiplicano iniziative di valorizzazione di beni troppo a lungo lasciati a loro stessi: il travolgente successo delle Giornate del FAI (Fondo Ambiente Italiano) ne è una testimonianza tra le più significative, anche se non la sola. La politica fortunatamente ha seguito questa rinnovata sensibilità civica. Grazie a diversi Ministri di buona volontà, man mano sono finiti i tempi dei tagli alla Cultura, si è ripresa la strada degli investimenti pubblici e delle assunzioni di personale con nuovi concorsi. Anche se naturalmente non è stato ancora raggiunto del tutto l’obiettivo, si guarda con molte speranze ai progetti del Pnrr. Nell’ultimo decennio sono state approvate riforme fondamentali a cominciare dall’autonomia gestionale e scientifica di musei e parchi archeologici (attualmente sono 44) finalmente risvegliatisi dal torpore burocratico e rifioriti grazie agli strumenti consegnati a direttori scelti in campo internazionale. Sono state poi riformate e unificate le soprintendenze, i cui meriti nessuno sottovaluta, ma alle quali ora è chiesto di organizzare meglio l’attività di tutela abbandonando una inacidita autoreferenzialità prefettizia.

È stato avviato anche da noi il processo di mecenatismo con il cosiddetto Art Bonus, smantellando il diffuso pregiudizio verso il contributo dei privati in campo storico-culturale. Sono state liberalizzate le foto nei musei e costituiti i “Caschi blu della Cultura” che agiscono nelle zone più martoriate del mondo conferendo ulteriore prestigio all’Italia, patria del restauro. Si è finalmente rotto il tabù della contrapposizione tra tutela e valorizzazione dei beni storico artistici. Le riforme dell’ultimo decennio portano il nome del ministro Dario Franceschini, che ha rivendicato al proprio dicastero un’importanza e un ruolo strategico, di primo piano, per lo sviluppo del Paese. E che il nostro patrimonio storico-artistico sia davvero un gigantesco potenziale per l’Italia ce lo dimostra ogni anno la Fondazione Symbola-Unioncamere, con i suoi rapporti annuali “Io sono Cultura”, che ci dicono quale e quanta effervescenza finalmente ci sia in un settore troppo a lungo negletto (anche in termini di occupazione). Naturalmente riforme tanto radicali hanno suscitato accese reazioni castali, anatemi ideologici, rivendicazioni di un “bel tempo antico” (che pure all’epoca veniva contestato) come se i barbari fossero alle porte.

Certo, un museo che sia un luogo vivo e “non una polverosa raccolta per eletti e sapienti”, per usare le parole di papa Francesco, che anzi pulsi come il cuore della vita collettiva, della memoria e del futuro, e che affronti i tempi moderni con le strutture e le modalità adeguate ha poco a che vedere con certe vetuste installazioni, silenziose e semibuie, chiuse proprio nei giorni in cui le persone non lavorano e hanno tempo per la cultura; cattedrali dove il visitatore si aggirava come un povero tapino il cui unico compito era esclamare “Che bello!”, chinandosi a leggere il microscopico cartiglio scritto in stretto idioma soprintendese, dove la cosa più importante era il numero di inventario. Quel tipo di museo pensato da una casta sacerdotale per se stessa e non per l’uomo comune, fortunatamente va sparendo. Ecco perché ho voluto qui raccontare alcune storie di questo passaggio: dall’abbandono alla rinascita, dalla polvere allo splendore. E insieme ho cercato di mettere nella giusta luce alcune delle eccellenze che possiamo vantare: i restauratori, i Carabinieri del Patrimonio Culturale, i volontari di Salvalarte e del fai. Tutto questo non per dimenticare i problemi che ancora ci sono, le cose che non funzionano, gli obiettivi ancora mancati, le applicazioni sbagliate o parziali delle riforme, l’età troppo avanzata ormai dei funzionari e le carenze negli organici, ma per dire che c’è un’Italia che cammina e che guarda al futuro a partire dal proprio cultural heritage secondo la definizione della Convenzione di Faro del 2005 “sul valore del patrimonio culturale per la società”.

L’Italia ha ratificato la Convenzione nel 2020 ma, a ben guardare, il nocciolo di quel documento europeo era già contenuto nel nostro lungimirante articolo 9 della Costituzione, scritta più di mezzo secolo prima, nel 1948. Uomini di profonda cultura come i costituenti Aldo Moro e Concetto Marchesi scrissero che “La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico-artistico della Nazione” e “promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica”. Dobbiamo ancora attuarlo appieno, quel famoso articolo che fonde bene i concetti di tutela e valorizzazione, ma possiamo dire di essere finalmente sulla buona strada. Marco Frittella Roma, marzo 2022

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