Tre storie diverse all’inizio degli anni Ottanta, a Roma. Per tutti è arrivato il momento di smettere di essere soltanto figli, diventare genitori. Eppure Luciana, Valentina, Cecilia non sono certe di volerlo, così come i padri. Paolo Di Paolo, classe 1983, in "Lontano dagli occhi" (Feltrinelli) svoltola sotto i nostri occhi il suo romanzo con l'abilità di un narratore ormai consolidato, ma con la freschezza e l'onestà di chi ha, nella propria materia biografica, materiale a disposizione dove andare a pescare e metterlo in controluce alla prova della Storia.
Sei personaggi sullo sfondo di una primavera che diventa estate, i “rutilanti” anni Ottanta, la trasformazione da figli a genitori. "Lontano dagli occhi" è un romanzo sul cambiamento. Sei d'accordo?
Sì, è la radiografia di un cambiamento. Ciascuno dei personaggi procede, attraverso le pagine, lungo il suo arco narrativo e alla fine si ritrova irrimediabilmente cambiato. Amo gli spostamenti minimi dei personaggi, i segni invisibili, ma radicali. Così da ritrovare un personaggio all'ultima pagina diverso da come lo abbiamo conosciuto all'inizio. Peraltro la trasformazione nel romanzo avviene anche plasticamente, per quanto riguarda il corpo delle donne, come cambia tutto nel momento in cui da figli ci si trasforma in genitori.
Questo è anche sul romanzo sul tempo, storico e privato. Perché la scelta degli anni Ottanta? Quanto è importante per uno scrittore della tua generazione raccontare quegli anni?
Ho sviluppato, nel corso del tempo, un crescente interesse per l'ambientazione storica dei miei romanzi, in modo da avere degli "appoggi narrativi" che non siano dei semplici fondali di cartapesta. Mi interessa indagare l'incrocio tra pubblico e privato, tra la dimensione della Storia generale e quella individuale. Dove hai dato il primo bacio? Sotto quale governo? C'erano Craxi, Andreotti o Berlusconi? Sembra una domanda banale, ma credo che la scintilla dell'interesse per uno scrittore spesso nasca anche da "incroci" del genere. Per quanto riguarda lo specifico degli anni Ottanta, devo dire che non me li sono cercati, ma arrivano da un vincolo biografico: esserci nati e non ricordarli perché ero ancora troppo piccolo. Eppure, a mio avviso, quegli anni non tratteggiano semplicemente uno scenario, ma rivelano i personaggi.
E Roma?
Anche Roma non è un fondale neutro, essa stessa è un personaggio. In proposito mi viene in mente il rapporto tra Orhan Pamuk e Istanbul, quando a un certo punto ne "La stranezza che ho nella testa" scrive di avere un segreto da confidare e lo confida alla città. Ecco. Quest'immagine mi piace e definisce il rapporto tra Roma e la materia narrativa di "Lontano dagli occhi". In questa storia i personaggi confessano i loro segreti alla città, che in questo modo è complice e non neutra rispetto ai loro pensieri e sentimenti più intimi…
Hai dichiarato di aver scritto questo romanzo per riempire un vuoto.
Come lettore, innanzitutto, negli anni ho imparato che la letteratura definisce i contorni dei nostri vuoti, delle nostre sofferenze. Eppure, dopo averli raccontati,spesso i vuoti restano senza nome. In "Lontano dagli occhi" ho perimetrato questo vuoto a partire dalla condizione dell'essere figli che, in un modo o nell'altro, è l'universale che appartiene a tutti. Naturalmente quest'idea l'ho colta soltanto dopo aver scritto il romanzo, perché come sosteneva Antonio Tabucchi in "Autobiografie altrui" le poetiche sono sempre a posteriori, quelle a priori non funzionano mai. Ma per farlo ho dovuto fidarmi dell'intuizione iniziale, lasciarmi andare alla storia, inventare dei personaggi. Per raccontare quelle "finzione", ho dovuto cercare nella mia biografia. Alla maniera di come, credo, funzionino tutti i romanzi che ho amato.
Oggi alle 17 Paolo Di Paolo presenta "Lontano dagli occhi" (Feltrinelli) a Napoli, presso lo Spazio libreria nel foyer del Teatro Bellini, in Via Conte di Ruvo, 14.