L’Europa dei regimi autoritari nacque dopo la Marcia su Roma, ispirandosi all’Italia
Emilio Gentile, storico di fama internazionale, professore emerito dell’Università di Roma La Sapienza e socio dell’Accademia Nazionale dei Lincei, non ha dubbi sul fatto che "tutto quello che è avvenuto in Europa, con la proliferazione di regime autoritari e totalitari nazionalisti, ha avuto il suo modello in ciò che avviene in Italia dopo la marcia su Roma". Quel pugno di giorni caotici di fine ottobre, sono uno spartiacque fondamentale nella Storia europea, condizionando quello che sarebbe avvenuto successivamente e dando corpo a un termine nato in Italia proprio in quel periodo, ovvero "totalitarismo". Gentile lo ha spiegato in numerosi libri (la maggior parte dei quali usciti per Laterza) e nelle ultime settimane anche in "1922. Il mondo all'alba della dittatura fascista", un podcast targato RaiPlay Sound, ma disponibile anche su Spotify, prodotto e curato da Nicola Attadio (con la post produzione, la supervisione suoni e la musica di Matteo Portelli).
Partiamo dalla fine del podcast, ovvero con il Paese che il 30 ottobre aveva un nuovo governo presieduto dal duce di un partito milizia. Cosa successe dal 31 ottobre in Italia?
Il 31 ottobre, mentre si sperava che la presa del potere di Mussolini e del partito fascista ponesse fine all'illegalità, alle azioni armate, alle spedizioni e alle violenze del partito, avvenne tutto il contrario, nonostante le promesse di normalizzazione e di restaurazione della legalità – che fu la ragione per la quale sia gli ex governanti, che il re, l'opinione pubblica borghese e la Chiesa avevano sostenuto la chiamata di Mussolini al governo – le violenze continuarono e si intensificarono. Per esempio, nel dicembre del 22 ci fu una strage di comunisti o presunti tali a Torino e i colpevoli non furono puniti perché ci fu immediatamente un'amnistia per tutti coloro che avevano commesso reati per fini nazionali, il che, visto che la nazione ormai per il fascismo si identificava con il proprio partito, riguardava esclusivamente i fascisti. Dall'inizio di gennaio, poi, ci fu l'istituzione del Gran Consiglio, un organo di partito nel quale venivano discusse ed elaborate leggi che poi approvava il Consiglio dei ministri. In questo quadro si iscrive la legalizzazione dello squadrismo, attraverso la nascita della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. Si trattava di una vera anomalia, senza precedenti nella storia delle democrazie parlamentari, perché il capo del governo aveva ai suoi ordini una milizia di partito. Tutto questo avveniva pochissimi mesi dopo che la nomina di Mussolini a capo del governo sembrava avere, come si diceva, legalizzato quel gesto eversivo. In realtà l’eversione continuò in altre forme, attraverso i poteri dello Stato e del Governo, che aveva ricevuto la fiducia della maggioranza della Camera..
Facciamo un passo indietro: come riuscì un partito milizia senza possibilità alcuna di prendersi Roma ad arrivare prima al Governo e poi a prendersi proprio l’Italia?
Perché già dalla metà del ’21 dominavano gran parte delle province della Valle Padana, della Venezia Giulia e del Centro Italia, dove spadroneggiavano con le squadre, imponendosi anche alle autorità governative. Poi, soprattutto dal maggio del 1922, iniziano le occupazioni di massa squadrista delle principali città del centro: Bologna fu occupata da Balbo con circa 40.000 squadristi per imporre il trasferimento del prefetto Mori, che era contrario alle loro azioni. Al momento il Governo fece finta di resistere, ma ad agosto Mori fu trasferito a Bari. Poi si proseguì con l'occupazione di Cremona, di Rovigo, di Novara, e tutta una serie di altre occupazioni che culminarono, dal primo al cinque agosto, con la feroce rappresaglia squadrista per stroncare lo sciopero legalitario proclamato il 1º agosto, nel momento stesso in cui si insediava il debolissimo secondo governo Facta. Bisogna tener conto che nel momento in cui inizia l'insurrezione detta ‘marcia su Roma’ – affiancata però da trattative segrete con gli ex presidenti del Consiglio – il fascismo aveva già conquistato e dominava, in maniera del tutto arbitraria, gran parte dell'Italia del Nord e dell'Italia centrale. Il vero problema per il fascismo, a questo punto, era il bisogno di andare al potere, altrimenti si sarebbe disgregato. Il 13 agosto il segretario del partito Michele Bianchii – Mussolini in questo periodo non è il protagonista principale – dice: "Questo è il momento più difficile, o andiamo al governo o rischiamo di fare la fine dei massimalisti che al massimo del potere cominciarono a disfarsi".
Eppure tutto quello che Mussolini – e il partito – fa va in contrasto con la sua idea iniziale di ciò che avrebbe dovuto essere il Fascismo: "Non vogliono essere e non possono diventare un partito (…) – disse -. Il Fascismo non presume di vivere sempre e molto (…) saprà brillantemente morire" come ricorda anche lei nel podcast…
Per tutto il periodo di formazione e di trasformazione del movimento fascista, da minuscolo anti partito con poche centinaia di iscritti a movimento di massa squadrista, fino poi alla costituzione in partito nel novembre del 1921, Mussolini non fu un duce che precede e dà le direttive ma fu un duce che segue. Persino durante i giorni di agosto, quando si discute se il fascismo dovesse seguire la via elettorale chiedendo nuove elezioni o tentare l'insurrezione, Mussolini è per la via elettorale, mentre chi insiste con tutte le azioni di rappresaglia squadrista condotte nel periodo di agosto e poi soprattutto con l'iniziativa che prenderà il 26 ottobre, è Michele Bianchi.
Bianchi falco e Mussolini colomba?
La sera del 26 ottobre Mussolini sta ancora trattando segretamente, disposto a cedere anche qualche ministero pur di andare al governo con Giolitti – la personalità che temeva di più -, ma facendo credere che sarebbe stato al governo anche con Salandra, perché c'erano fascisti come Cesare Maria De Vecchi e Dino Grandi che erano contrari alla marcia e trattavano segretamente con Orlando e con Salandra per impedire che si arrivasse alla soluzione che impose invece Bianchi, cioè un governo presieduto da Mussolini. La marcia su Roma, in realtà, fu un “ ricatto su Roma”, cioè sul governo, che ebbe come protagonista proprio Michele Bianchi, che impose il nome di Mussolini. Non sapendo più cosa fare in quel momento, il re dovette cedere al ricatto.
E cedette revocando lo stato d'assedio firmato da Facta: lei dà varie opzioni sul perché il re non lo firmò dando il via a quello che fu probabilmente uno dei momenti cruciali della storia di quegli anni. Lei ha un'idea del perché poi alla fine lo revocò?
Io ho diverse ipotesi, ci sono quelle più diffuse e quelle più accreditate che riguardano, prima di tutto, secondo alcuni, la complicità del re in i un colpo di Stato militare, come sosteneva Salvemini. La seconda ipotesi è che il re fu consigliato dai generali favorevoli al fascismo a non procedere con lo stato d’assedio, perché, sebbene l'esercito sicuramente sarebbe stato fedele al re, sarebbe stato meglio non metterlo alla prova. Stato d'assedio significava che l'esercito avrebbe dovuto far fuoco contro un partito milizia in cui c'erano generali, ufficiali e soldati che avevano combattuto agli ordini degli stessi comandanti che avrebbero ordinato di far fuoco contro le squadre. Il terzo elemento che può aver agito è che Mussolini aveva incontrato, prima della marcia, Raoul Palermi, e quindi l'appoggio della massoneria potrebbe aver influito, oppure il timore della guerra civile, come ha sostenuto lo stesso Vittorio Emanuele III.
Ma lei ha altre idee…
Ciascuno di questi motivi potrebbe avere influito sulla decisione, ma secondo me ci sono due elementi che sono più plausibili: il primo è che il re si vede presentare uno stato d'assedio da firmare, nel momento in cui era già stato affisso per le strade della Capitale. Il Governo, quindi, si era assunto la responsabilità di rendere pubblico uno stato d'assedio che lui non aveva ancora proclamato, firmandolo. Il secondo motivo, che secondo me è quello più prossimo alla verità, è che il re a un certo punto si rende conto, pur deciso com'era quando arriva a Roma di stroncare ogni tentativo insurrezionale, che tutti i suoi ex presidenti del Consiglio, compreso il dimissionario ma ancora in carica Facta, stavano trattando con Mussolini. I vari Giolitti, Nitti, Salandra, Orlando, avevano detto pubblicamente, nei mesi precedenti, che con il fascismo non bisognava usare la forza perché non era un problema di polizia. Quando Turati gli rimproverò di avere favorito l'entrata dei fascisti in Parlamento con i blocchi nazionali, Giolitti disse: "Così come io non ho fatto intervenire l'esercito durante l'occupazione perché non era un problema di polizia, ma un problema politico, allo stesso modo non posso far intervenire l'esercito contro un partito di 187.000 iscritti che rappresentano comunque una parte del Paese".
Insomma, visto che lo fanno tutti il Re ritenne che non fosse così pericoloso.
Premetto che non ho nessuna stima per Vittorio Emanuele III, perché dal momento in cui nomina Mussolini fino a quando lo dimette è complice di tutto ciò che il fascismo ha fatto, quindi non ci sono attenuanti, ma in quel momento penso che si sia trovato, isolato, a dover decidere un atto gravissimo come lo stato d'assedio che, per esempio, già era stato proposto dal ministro della Giustizia Giulio Alessio nell'agosto al governo senza essere adottato. In più il governo era diviso, c'erano quelli favorevoli ai fascisti, come il luogotenente di Salandra, Vincenzo Riccio, ma c'erano quelli decisi a stroncare il fascismo con le leggi che esistevano, col codice Zanardelli, come lo stesso Giulio Alessio e Giovanni Amendola che però non furono ascoltati. Quindi il 27 e 28 ottobre, quando il re deve decidere, probabilmente ha pensato: "Ma se tutti trattano e se tutti sono contrari all'uso della forza, ricade su di me esclusivamente la responsabilità di rischiare una guerra civile o comunque un massacro". Proprio perché tutti trattavano, cosa che di fatto fu confermata, la ritengo l'ipotesi più plausibile, anche perché appena formato il Governo, il 16 novembre, ebbe la fiducia dalla maggioranza della Camera, Giolitti compreso, Salandra compreso, Orlando compreso, e Nitti… nicchiava.
È molto affascinante capire cosa successe giorno per giorno, è nella lettura di quei giorni caotici, delle incertezze, che forse si comprende meglio la situazione nazionale, no?
La marcia su Roma è stata sempre classificata, giudicata e valutata sulla base di quello che è successo dopo, ma questo è il modo peggiore per leggere i fatti, perché tutti sappiamo come è andata a finire e tutti siamo diventati improvvisamente saggi. Lo storico deve tener conto del caso e della imprevedibilità, che influirono sulle decisioni dei protagonisti e sullo svolgimento degli eventi sui quali incombeva l’incertezza, e non mettersi comodamente a tavolino a dire: "Ah, ma potevano fare questo, potevano fare quest'altro", che è il modo più sbagliato per raccontare la storia, basandola sui documenti. Loro agivano in una situazione caotica, se uno legge quello che poi è stato documentato da Efrem Ferraris, cioè capo di gabinetto, che al Viminale, dal 26 ottobre e poi il 27, apprese di ora in ora che i fascisti cominciavano a isolare le comunicazioni tra la Provincia e il governo centrale come si legge nei telegrammi di quei giorni. La sequenza di questi telegrammi procede continuamente nella notte, e molto spesso arrivano con 3-4 ore di ritardo. Ciò ci dà un quadro confusionario di una situazione incontrollabile. È come se guardassimo l'universo e scambiassimo per realmente esistenti sistemi solari che si sono estinti da milioni di anni.
Possiamo anche dire che la marcia su Roma non fu propriamente una marcia su Roma, ma una sfilata accordata dal Re?
Che avvenne il 31 ottobre, non il 28. La cosa più curiosa è che si sia scelto come giorno del centenario il 28 ottobre, ovvero quello che avevano scelto i fascisti come proprio giorno celebrativo; per il fascismo non poteva essere il 31 perché era troppo vicino al 4 novembre, celebrazione della Vittoria, invece istituendolo il 28 può fare iniziare l'anno dell'era fascista il 29, in modo che la celebrazione del 4 novembre apparisse una sorta di prosecuzione ideale a conferma della vittoria fascista. È una strategia studiata per collegare l’Italia e la Grande Guerra al fascismo e fare così della marcia su Roma l'inizio di una nuova era della storia italiana, identificandola col fascismo stesso.
Cosa intende quando dice che la marcia su Roma aprì nell'Europa occidentale la via al totalitarismo?
Va premesso, per chi continua a disquisire se il fascismo sia stato totalitario o no, che l’aggettivo "totalitario" fu coniato da Luigi Sturzo e Giovanni Amendola nel ’23 per riferirsi proprio al metodo fascista di esercizio del potere, ovvero l'attuazione della conquista del monopolio del potere politico da parte di un partito armato che distrugge il sistema parlamentare e la libera circolazione degli altri partiti. Amendola parlò di sistema totalitario a proposito del fascismo nell'aprile del 1923. Per Sturzo il fascismo era totalitario perché divinizzava la nazione e imponeva l’obbedienza con la violenza per costringere i non fascisti a sottomettersi e gli antifascisti ad abbandonare la politica. Totalitario e totalitarismo non si riferivano all’ideologia, alle aspirazioni, alle ambizioni, ai progetti del fascismo, ma alla prassi e al metodo fascista usati per rendere “irrevocabile”, come diceva Mussolini, l’avvento del fascismo al potere, mettendo al bando, con la violenza, l'esercizio delle libertà politiche di tutti gli altri partiti. Poi, il 2 gennaio 1925, addirittura il giorno prima del discorso con il quale Mussolini si assumeva la responsabilità di tutte le violenze fasciste e anche del delitto Matteotti, ponendo fine al sistema parlamentare, Lelio Basso, che allora era un giovane marxista di poco più di 20 anni, pubblicò un articolo su “La Rivoluzione Liberale” di Gobetti in cui diceva all’incirca. "Io sono marxista, quindi non mi meraviglio che lo Stato borghese sopprima le libertà, però oggi assistiamo a qualcosa che neanche lo Stato liberale aveva avuto il coraggio o il modo di fare, cioè alla subordinazione di tutti i poteri dello Stato al partito fascista. Questo è totalitarismo" e inventò il sostantivo. Quindi, il fascismo fu totalitario, nel senso originario del termine coniato da alcuni antifascisti per definire il reale sistema di potere mussoliniano e squadrista. Il totalitarismo fascista fu un metodo, non una meta. Fu una prassi, non un progetto. Fu la realtà del regime a partito unico, non il mito di un immaginario Stato fascista.
Perché questa premessa è necessaria?
Perché poi tutto quello che è avvenuto in Europa, con la proliferazione di regime autoritari e totalitari nazionalisti, ha avuto il suo modello in ciò che avviene in Italia dopo la marcia su Roma. Nell’Europa dopo il 1922 non ci furono tentativi di rivoluzione bolscevica, ma tentativi e successi di rivoluzioni ispirate al fascismo. La rivoluzione bolscevica come tentativo di espansione del comunismo nel continente europeo era già finita con l’annientamento dei governi bolscevichi in Ungheria e in qualche città tedesca fin dal 1919; e con il blocco definitivo dell'Armata Rossa a Varsavia nell'agosto del 1920. E da allora, tranne qualche focolaio o qualche tentativo in Germania, non ci sono colpi di Stato comunisti. Poi dal 20-21 inizia la nuova politica economica di Lenin e la Russia rinuncia a qualsiasi esportazione della propria rivoluzione: prepara e finanzia i partiti comunisti trasformandoli in partiti bolscevichi, ma non fa tentativi rivoluzionari. Con Stalin iniziò la costruzione del socialismo in un solo paese. Parlare di pericolo bolscevico – è lo stesso Mussolini che lo dice nel luglio del 21 – è una sciocchezza, quindi non c'è nessuna validità alla leggenda che il fascismo abbia salvato l'Italia dal bolscevismo. Ha aperto, invece, la strada a sistemi dittatoriali militaristi e nazionalisti fin dal 1923. Se uno guarda la cartina dei regimi politici vede che dal ’23 cominciano a cadere vari Paesi: la Spagna prima di tutto, poi tutti quelli balcanici, fino al ’33 con la nomina di Hitler a Cancelliere del Reich, tutti i regimi antidemocratici che si instaurano in Europa sono attuati da movimenti della destra nazionalista rivoluzionaria che si ispirano al fascismo. Da questo punto di vista non è storicamente valida la tesi, per esempio, di Ernst Nolte per cui il fascismo è la reazione al bolscevismo, perché quando il fascismo si afferma in Italia, il bolscevismo aveva già rinunciato ad esportare la sua rivoluzione, anche se la Terza Internazionale controllava con metodi dittatoriali i partiti comunisti operanti nel mondo.
Lei cosa intende quando dice di negare i tentativi di defascistizzazione del fascismo? E quali sono, secondo lei, i tentativi di oggi?
Questa fase è iniziata immediatamente dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Ne furono responsabili insieme – ovviamente in totale antagonismo e opposizione – sia i neofascisti che gli antifascisti. Gli antifascisti ridussero tutto il problema del fascismo a una di dittatura di pochi imposta al popolo italiano con la forza, senza nessun coinvolgimento dello stesso popolo italiano. Dall'altra parte si diceva che fu una dittatura tutto sommato benevola perché non fece nulla di paragonabile all'Olocausto o ai gulag. A questa “defascistizzazione” contribuirono molti dei giovani che si erano formati nel regime fascista condividendo la sua politica, ma durante la seconda guerra mondiale subirono una crisi di coscienza, scoprirono i valori della libertà e della democrazie, e con la libertà riconquistata hanno dato vita consapevolmente all'Italia repubblicana partecipando come governanti eletti dal popolo in libere competizioni elettorali fra partiti. Allevati con i miti del fascismo, avevano tutto il diritto di riconoscere di avere sbagliato e di scegliere altre ideologie politiche, ma ebbero il torto di far credere che la loro partecipazione politica e culturale al regime e al fascismo fosse stata tutta una finzione. Persino i fascisti come Dino Grandi, Giuseppe Bottai e Luigi Federzoni raccontarono, dopo la fine del fascismo, che in realtà neanche loro erano stati complici al regime totalitario. Che quel regime totalitario era stato instaurato in Italia da Starace e da Mussolini e loro erano dissidenti. Eppure quei tre furono i gerarchi che più di qualsiasi altro sono stati nel Gran Consiglio fino al 24 luglio 1943, e tutto quello che è regime totalitario in Italia viene instaurato proprio dal Gran Consiglio. Quindi c'è stata questa che io chiamo defascistizzazione, per il fatto che si sono di volta in volta tolti al fascismo i suoi attributi essenziali, fino ad affermare, come fece un antifascista nel 1944, che il fascismo come tale non era mai esistito.
Ovvero?
Si è cominciato col dire che non fu totalitario, che non fu un regime basato sulla violenza dall'inizio alla fine, perché il regime totalitario non è altro che la istituzionalizzazione della vittoria conseguita sugli antifascisti nel 1922 e finita poi nel 1926 con la totale abolizione di tutti i partiti. Pensi alle leggi razziali: sembra che l'unica colpa grave che abbia avuto il fascismo siano state le leggi contro gli ebrei. Ed è una cosa veramente paradossale, perché le leggi contro gli ebrei furono la conseguenza della logica che aveva spinto il fascismo, dal '22, a eliminare tutti coloro che considerava non assimilabili al fascismo. E siccome capitò che dal '34 in poi molti degli antifascisti erano ebrei, semplicemente perché amavano la libertà, Mussolini pensò che gli ebrei, anche se si dichiaravano fascisti, erano per la loro razza estranei alla nazione italiana e nemici del fascismo. Poi ci fu l'influenza del nazional-socialismo, e infine la necessità, per Mussolini, di mantenere il primato di fondatore del fascismo universale, perché la maggior parte dei movimenti fascisti nati negli anni '30 erano antisemiti.
Neofascismo, post fascismo, cosa resta oggi di quell'esperienza?
Io dico che è ridicolo parlare di un ritorno del fascismo perché il fascismo dall'Italia non se ne è mai andato, nel senso che abbiamo avuto, a partire dal 1946, il più forte partito neofascista d'Europa, quindi del mondo, e oggi i discendenti di quel partito sono al Governo, ma erano al Governo già nel 1994 e ci sono stati in tutti i governi Berlusconi, quindi mi stupisce che si parli di un ritorno del fascismo. E addirittura torna di moda la formula "fascismo eterno" che è quasi una dichiarazione di vittoria definitiva del fascismo. Io sostengo invece che l'antifascismo ha vinto definitivamente il 25 aprile 1945 e ha creato una Repubblica che è stata talmente forte, in settant'anni, da tollerare anche l'esistenza di un partito neofascista che poteva essere sciolto in qualsiasi momento sulla base della legge Scelba così come avvenuto per alcuni movimenti neofascisti particolarmente violenti.
E oggi secondo lei, qual è il problema principale di questa nostalgia?
L'ignoranza della Storia, che non riguarda solo il fascismo, ma anche questi settant'anni di Repubblica. Per quanto si possa ritenere il fascismo un movimento che poi è proseguito all'interno della Repubblica, la Repubblica antifascista batte il regime fascista 3 a 1. Da questo punto di vista il problema oggi non è il pericolo del fascismo, ma è il pericolo della democrazia insito nella stessa democrazia, che viene continuata come metodo ma abbandonata come ideale. Con il metodo democratico, cioè quello della libera competizione fra i partiti, governa chi ha la maggioranza, quindi noi potremmo avere un regime democratico, ma razzista, nazionalista, omofobo, anticlericale, voluto dalla maggioranza. Oggi governa chi ha il 25% di tutto l'elettorato, visto che il 40% o pressappoco non vota più qui. Da questo punto di vista il pericolo è che la democrazia, ovunque, anche nelle più antiche democrazie, rispetti il principio che governa chi ha la maggioranza elettorale, ma i governi non operano effettivamente per realizzare l'ideale democratico, definito in modo magnifico dall’articolo 3 della Costituzione:
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Oggi, purtroppo, assistiamo alla conservazione del metodo democratico, per cui persino Putin, persino Erdogan sono il risultato di maggioranze elettorali, ma nessuno più – neanche le democrazie tradizionali occidentali – cerca di realizzare l'ideale democratico che è quello di rimuovere tutti gli ostacoli che impediscono il libero sviluppo della personalità, a cominciare dalla diseguaglianza economica e sociale. Tutti i grandi democratici del passato, dall'antica Grecia fino ai fondatori delle democrazie moderne, sostenevano che non può esserci regime democratico autentico se c'è un'eccessiva diseguaglianza delle ricchezze. Abbiamo ormai una democrazia recitativa, non più partecipativa ed emancipatrice, con l’aggravante che la libera competizione dei governati per essere eletti governanti è diventata una competizione molto costosa, con la conseguenza di favorire la corruzione.
Il fascismo ha avuto a modo suo qualche responsabilità nella creazione dell'identità nazionale post-fascista?
Penso che non ha avuto alcuna influenza. Il fascismo, identificando se stesso con la nazione, ha aggravato la disunione degli italiani con istituzionalizzando, con il regime totalitario, la guerra civile contro gli italiani non fascisti, negando consapevolmente il tentativo di costruire una nazione italiana di cittadini liberi ed eguali all'interno dello Stato unitario, che i governi liberali avevano iniziato a realizzare. Quando nelle elezioni politiche del 1919 trionfano il Partito Socialista e il Partito Popolare, si ebbe la conferma che il regime liberale, pur con tutti i suoi limiti oligarchici, di classe e di cultura, non aveva impedito che i partiti avversari – che lo negavano sia dal punto di vista ideologico-politico, sia dal punto di vista economico-sociale – potessero diventare i primi partiti del Parlamento. Nel regime liberale, Gramsci non finì mai in carcere, Sturzo non finì mai in carcere, Matteotti non finì mai in carcere, Turati per un po' ci fu, ma per i moti del ’98. Il regime liberale riuscì a creare almeno un embrione di entità nazionale, che fu in grado di vincere nella Grande Guerra nonostante Caporetto. Mentre il fascismo, imponendo la propria identificazione con la nazione, considerò nemici dell’Italia patrioti come Amendola, come Sturzo, come Benedetto Croce. Costringendo questi ultimi a desiderare la sconfitta dell'Italia nella seconda guerra mondiale, pur di liberarla dal fascismo. L’esito finale del totalitarismo fascista fu la nazione sconfitta, disfatta, devastata, lacerata dalla guerra civile, smembrata e con parte delle regioni del Nord già annesse dall’alleato nazista al Terzo Reich. Fu lo stesso Mussolini a riconoscere, durante la seconda guerra mondiale, che gli italiani del 1915 cresciuti nel regime liberale era soldati migliori degli italiani del 1940 cresciuti nel regime totalitario. Ma privo com’era di un qualsiasi barlume di autocritica, attribuì la responsabilità agli italiani stessi, non a se stesso e al suo regime, che per venti anni li aveva obbligati a vivere in una irreggimentazione totalitaria, illudendosi di trasformare una nazione di cittadini liberi in una razza pura di guerrieri spietati che avevano un solo scopo nella vita: credere, obbedire, combattere.