Leonard Cohen se ne è andato. Nel silenzio. Aspirazione a cui, a volte, la sua voce sembrava tendere. Quasi come se non gli interessasse il modo in cui le sue parole arrivavano alle orecchie degli altri, ma solo per la loro indicibile sostanza. Aveva un timbro incredibile, graffiante, ruvido. La voce di Leonard. Profonda abbastanza da impossessarsi della tua anima e restituirtela cambiata alla fine del pezzo.
Gran parte del suo lavoro consisteva nell'esercizio di quella vocalità così speciale, oltre a quello di compositore, di scrittore. Di poeta irrequieto che alla forma-canzone, almeno agli inizi, non pensava ci sarebbe mai arrivato. Prima di diventare il cantautore che tutti conosciamo la ricerca musicale non gli interessava più di tanto. All'epoca registrava le parti vocali dei brani a casa e poi, quando si riteneva soddisfatto, inviava le tracce a cui veniva aggiunta la musica. Gli piacevano i campionamenti. E poi, come dichiarò una volta, registrare a casa il cantato aveva i suoi vantaggi, come risparmiare sull'affitto di uno studio di registrazione. Fino all'ultima incisione non ha mai perso quest'abitudine.
Leonard il Silenzioso. Si guadagnò questo soprannome durante il periodo buddista e di ricerca spirituale, di un altrove che fosse una forma accettabile di equilibrio interiore per dire basta alla sregolatezza di un binario esistenziale che non lo avrebbe portato da nessuna parte. Leonard il Silenzioso. Con una voce così. Che peccato. Eppure la ricerca spirituale è stata parte del suo percorso alla pari degli eccessi, della musica, della letteratura.
Arrivò tardi alla musica, intorno ai trent'anni, dopo la pubblicazione di un paio di romanzi e raccolte di poesie. "Flowers for Hitler" e "The spice box of earth" che divenne un successo internazionale. Nel 1966 il romanzo "Beautiful Losers" ottenne un certo consenso critico.
Fu scritto sull'isola greca di Hydra nell'estate del 1965, quando Cohen attraversava il tormentato periodo che si sarebbe concluso con l'inizio della carriera di cantautore. Il romanzo ruota attorno a tre personaggi – il narratore, sua moglie defunta e un suo amico – immersi in un triangolo amoroso e ossessionati dalla figura di una santa pellerossa vissuta nel Canada del Seicento. Un flusso di coscienza attraversato da sequele di improvvisi "insight" che mescola i temi a lui cari: la religione, il misticismo, l'eros, la nostra società malata.
Per sua stessa ammissione sudava per ogni parola scritta, per ogni singolo fiato. Non era uno di quelli che componeva senza faticare. Al contrario. Eppure, come rivelò qualche anno fa, una volta, una sola, gli accadde. Con "Sisters of mercy", traccia 5 della playlist di "Songs of Leonard Cohen", album d'esordio del 1967, dove apparirà il brano che lo segnerà, suo malgrado, per la cinquantennale carriera: "Suzanne".
"Sisters of mercy" è l'unica canzone che mi è arrivata in dono, senza dover sudare.
A sudare molto, invece, e a lungo, è stato il suo editore. Dopo oltre vent'anni di silenzio il ritorno di Leonard alla poesia giunse nel 2006 con la pubblicazione di "Book of longing". Per la prima presentazione del volume, a Toronto, si presentarono oltre tremila persone che richiedevano una copia firmata dell'autore. Furono chiuse le strade attorno al luogo della presentazione, arrivò la polizia. All'epoca Leonard aveva 72 anni. Da un pezzo aveva smesso di essere un "beautiful loser", eppure il poeta alla ricerca di se stesso, quello non ha mai smesso di esserlo. E non smetterà mai. Perché la morte interrompe la vita, non la poesia.