Leggere aiuta a gestire meglio le emozioni. Gli studiosi: “Scegliete i grandi classici”
Leggere fa bene: è una verità universalmente riconosciuta da tutti, scienziati e non. Fa bene soprattutto ai bambini, nel corso della crescita, perché li aiuta ad affinare la padronanza del linguaggio e le tecniche comunicative, e li aiutano a creare la base della loro cultura. Ma la lettura non fa bene soltanto alla mente: molti studi hanno confermato come essa aiuti lo sviluppo psicofisico dell'individuo e sia capace di curare alcuni disagi legati alla personalità. Ma negli Stati Uniti in questi giorni il dibattito si è riaperto, in modo esponenziale, in seguito alla pubblicazione di alcuni studi che, se confermati, suggerirebbero che non tutti i “tipi” di letteratura sono utili.
Meglio i grandi classici
La biblioterapia è una tecnica ormai largamente diffusa fra gli psicoterapeuti: pensata negli Stati Uniti negli anni Trenta dal Dr. William Menninger, essa è caratterizzata dall'idea che il libro sia uno strumento di riflessione, di conoscenza e di promozione culturale soggettiva e collettiva. In uno studio, pubblicato sul "Journal of Counsulting and Clinical Psychology" nel 1995, è addirittura emerso che la biblioterapia può avere un'efficacia significativa sia a livello statistico che clinico, nell'alleviare i sintomi depressivi e nel ridurre i pensieri e gli atteggiamenti disfunzionali. Viene utilizzata anche nei disturbi d'ansia, nei disturbi del comportamento alimentare, nei disturbi sessuali e in altri disturbi psichici e comportamentali. Viene utilizzata nelle sedute, ma anche come strumento di autoaiuto: è noto che il libro e la lettura stimolano l'attenzione, la riflessione, gli aspetti cognitivi ed affettivi, dunque viene consigliato ad ogni età in qualunque momento.
Ma se il mondo della scienza è unanime nel considerare la lettura un valido strumento di “cura” e di sviluppo dell'intelligenza emotiva, oggi gli scienziati non sono concordi nello stabilire quale tipo di lettura stimola la crescita e migliora le nostre facoltà. Due psicologi della New School for Social Research di New York hanno pubblicato uno studio che sta facendo molto discutere: secondo la loro ricerca, pubblicata sulla prestigiosa rivista "Science", la lettura di anche solo poche pagine di un grande classico della letteratura avrebbe la capacità di potenziare l'intelligenza emotiva e di ridurre gli stati d'ansia, ma la letteratura di largo consumo contemporanea (come Elena Ferrante, per intenderci) no.
Questa ipotesi, formulata tre anni fa, anche all'epoca aveva fatto molto discutere. Ora i due ricercatori sono tornati sulla rivista "Psychology of Aesthetics, Creativity and the Arts" con un nuovo articolo, in cui ribadiscono l'affermazione portando nuove prove a conferma della loro tesi.
Gli esperimenti
La ricerca del 2013 aveva coinvolto i partecipanti nella lettura di alcune pagine di romanzi considerati classici come quelli di Don DeLillo, Lydia Davis e Louise Erdrich, e di altre di narrativa di genere, tra cui estratti da Danielle Steele, Rosamunde Pilcher e Gillian Flynn: durante la lettura, gli psicologi tentavano di discernere le emozioni suscitati dai libri nei soggetti guardando semplicemente i loro occhi.
Ora il nuovo studio ha testato oltre 2 mila soggetti, scelti tramite un annuncio del New York Times. Oltre al test sulle espressioni facciali, ai partecipanti è stata sottoposta una lista di 130 nomi: ai lettori è stato chiesto di indicare quali di questi fossero nomi di autori affermati e quali no. La lista comprende autori “pop” come Dick Francis, Tom Clancy e Stephen King, e altri classici come Salman Rushdie, George Orwell e Kazuo Ishiguro. La maggiore indicazione di questi ultimi come autori affermati è stata interpretata dagli scienziati quale indicativa del fatto che i partecipanti hanno letto, nella loro vita, preferendoli, molti più classici. I ricercatori hanno dunque concluso che tra i grandi classici e la narrativa “pop” degli ultimi decenni, la prima dia una capacità maggiore di educazione alle emozioni, in quanto opere più complesse mettono il lettore di fronte ad un processo più complesso di elaborazione delle storie e delle emozioni, e quindi, sia in qualche modo più produttivo.
Molti studiosi, come lo psicologo Mark Liberman, hanno però espresso la loro “sorpresa che lo studio sia stato anche solo accettato per la pubblicazione”: si tratta, secondo alcuni, di una generalizzazione enorme, che non aggiuge nulla di nuovo agli studi del campo anzi, semmai li confonde. Idee discordi, esperimenti diversi e diversi punti di vista. Ma una cosa è certa, in attesa che la querelle si risolva: meglio continuare a leggere il più possibile.