Le Quattro Giornate di Napoli: settant’anni dal Settembre del ’43
27 Settembre 1943: Nel centro di Napoli le truppe della Whermacht mantenevano lo stato di assedio da giorni, ormai. Questo voleva dire che la città era sottoposta a deportazioni, esecuzioni di massa e lavori forzati: uno stato di polizia militare atrocemente crudele di cui solo i nazisti, allora, erano capaci. L’esasperazione della città aveva ormai raggiunto una climax iniziata con i bombardamenti del ’41-’42, quelli che portarono alla distruzione di Santa Chiara. E poi, ovviamente, c'era da poco stata l’esplosione della Caterina Costa, la grande nave da guerra che trasportava nel suo ventre metallico fra le più preziose risorse militari italiane dell’epoca; si racconta che i suoi brandelli furono ritrovati persino al Vomero.
In questo momento cupo, dall’esasperazione della gente, ha inizio uno degli episodi di resistenza più oggettivamente dimenticati, le quattro giornate di Napoli, di cui è il settantesimo anniversario. Di quel breve periodo buio, trasformatosi in eroico, ci rimane un film di Nanni Loy, ben fatto anche se a tratti fastidiosamente folcloristico e che oggettivamente non rimarrà fra i capolavori del neorealismo; ma anche un’opera un po’ meno nota come O’ Sole Mio di Gentilomo: che rappresenta un importante documento, per le riprese ottenute sui luoghi bellici appena un anno dopo la liberazione.
In quelle quattro giornate, dal Ventisette al Trenta Settembre, abbiamo effettivamente una testimonianza chiara di un eroismo che si potrebbe definire un po’ genericamente ‘popolare’, poiché in fin dei conti di questo si trattò. Sì, perché di fatto la resistenza di Napoli ebbe connotati molto particolari: tanto per cominciare non aveva collegamenti militari precisi con il Fronte di liberazione nazionale, la ribellione è stata guidata e portata avanti dagli abitanti del luogo, quartiere per quartiere e strada per strada. Al contrario, fu proprio in quell’occasione che sono emerse figure in seguito importanti per la storia dei partigiani.
L’assedio di Castel Sant’Elmo, le barricate al Vomero, il sabotaggio dell’acquedotto ed altri eventi bellici che hanno percorso la città sono di fatto fra i primi episodi importanti della resistenza italiana nell’autunno del ‘43 e ne rappresentano anche un esempio molto alto. Vi presero parte circa 1600 abitanti della città, di diversi ceti sociali, anche se i numeri della guerra sono oggetto di grande dibattito. Fatto sta che il piano dell’Oberkommando di rendere Napoli il principale avamposto contro le forze alleate si rivelò un clamoroso fallimento. Sicuramente uno dei primi, grandi fallimenti di cui furono protagonisti i tedeschi nella loro truce calata in Italia.
Come ricorda la tradizione più orgogliosamente patriottica, gli alleati, sbarcati con i carri a Salerno nelle prime ore del mattino di Ottobre, trovarono lungo la loro avanzata una città messa a ferro e fuoco e brutalizzata da giorni e giorni di furia nazista, ma senza più neanche un tedesco, dato che la ritirata era già terminata. Lo spettacolo doveva essere piuttosto desolante: chi ha genitori o nonni forse potrà avere da loro restituita qualche immagine, come quella dei carri armati americani che passano distribuendo i primi mezzi di sussistenza ad una popolazione che si era resa protagonista di uno degli ultimi movimenti di insurrezione e resistenza bellici della storia europea.
In questi giorni ricorre l’anniversario di questo evento resistenziale. Non c’è dubbio che la resistenza, un fenomeno ovviamente alla base della storia contemporanea italiana, ha fallito l’impresa storiografica di diventare un simbolo nazionale, un punto di riferimento comune: sorte non molto diversa -anche se meno appariscente- da quella del Risorgimento.
È tuttavia proprio l'assenza di questi riferimenti storici nella vita comune a differenza di altri paesi europei (con punte enormi: si pensi al senso di colpa tedesco per la Shoah) che spiega meglio di altre cose quanto il nostro paese sia evidentemente disunito. Ma fra la retorica istituzionale ( talora goffa, si converrà) e l’assenza totale che caratterizza eventi storici del genere nella memoria, ci potrebbe essere spazio per una narrazione da tramandare. Cosa che, ormai lo sanno pure le pietre, serve.