Le donne vittime dell’Olocausto e le loro storie di coraggio e speranza, nel Giorno della Memoria
Il numero delle vittime dell’Olocausto oscilla fra i 5 e i 6 milioni di persone: fra queste, molte erano donne. Polacche, ebree, zingare, prostitute, testimoni di Geova, comuniste o semplici “traditrici” perché tedesche ma sposate con uomini di “razza inferiore a quella ariana”: nel Giorno della Memoria le loro storie tornano ad essere raccontate insieme a quelle di tutti gli uomini, i bambini e i disabili finiti schiacciati fra gli ingranaggi di quella terribile macchina di morte che è stata la Shoah.
Storie di donne, di madri e di resistenza
Molte di loro vengono destinate ai terribili esperimenti sulla sterilizzazione, come Emmi G. che, appena sedicenne, viene condannata da una diagnosi di schizofrenia a subire le torture più inaudite prima di morire con un’overdose di tranquillanti a Mesertiz-Obrawalde. Tante altre per il semplice fatto di essere incinta e quindi “inabili al lavoro” concludono la loro vita nei campi di sterminio senza nemmeno il tempo di realizzare l’orrore a cui vengono sottoposte. Alcune, dopo aver subito i frequentissimi stupri da parte dei soldati tedeschi, vengono obbligate ad abortire se il nascituro veniva giudicato dai dottori esperti della razza “non germanizzato”.
Ma molte altre portano con loro storie di resistenza e di coraggio, come le cinque donne che ad Auschwitz rubano la polvere da sparo che servirà ad uccidere le guardie delle SS durante una rivolta nel campo di concentramento nell’ottobre del 1944: Ella Gartner, Regina Safir, Estera Wajsblum, Roza Robota e Fejga Segal.
Un altro diario: la storia di Etty
Moltissime di loro hanno lasciato la loro testimonianza in appassionati diari: come Esther Hillesum, morta ad Auschwitz il 30 novembre 1943. Il suo diario, pubblicato solo negli anni Ottanta, è ricco di riferimenti alla sua condizione di donna ebrea in Olanda, e risuona in molti punti di una religiosità e una fiducia fuori dal comune che quasi stridono con l’orrore di quegli anni: “La vita è difficile, ma non è grave. Una pace futura potrà esser veramente tale solo se ogni uomo si sarà liberato dall'odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest'odio e l'avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore se non è chiedere troppo”.
Ravensbrück: l’inferno delle donne e la speranza di Anna
Al nome di Ravensbrück sono legati quelli di centinaia di donne morte per la fame, le botte e i soprusi subiti: si tratta del più grande campo di concentramento femminile della storia, costruito in un territorio talmente freddo da essere soprannominato “la piccola Siberia”. Dal 1939, anno in cui Heinrich Himmler dà l’ordine di costruire il campo, alla caduta del regime nel 1945, Ravensbrück ospita più di 100 mila donne.
Fra queste molte sono sopravvissute al quel luogo di morte, come Anna Cherchi Ferrari, deportata nel 1944 e identificata in quell’inferno con il numero 44145: nel suo libro “La parola Libertà. Ricordando Ravensbrück” Anna racconta di quella prima terribile notte trascorsa insieme alle altre prigioniere, tutte nude ed ammassate in una doccia “come dei manichini”, dell’isolamento nel blocco 24, dei maltrattamenti continui subiti ma anche della speranza che in lei si fa strada giorno dopo giorno. La consapevolezza che
la solidarietà, l'amicizia, l'umanità, hanno sconfitto quell'ideologia nazista che si riteneva la carta vincente per la società del futuro dominata da una razza superiore. Per noi era certa la convinzione di vivere in un mondo che non ci apparteneva, non eravamo, e non volevamo essere come loro. Questa è stata la nostra resistenza. Questo deve essere un monito per tutti coloro che ancora credono in quei valori umani che così barbaramente si cercava con tutti i mezzi possibili di cancellare.