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Lasciare la propria casa per un futuro migliore: Agus Morales racconta l’esodo dei migranti

Se è vero che un grande libro riesce a scuotere e a lasciare nel lettore qualcosa che prima non aveva “Non siamo rifugiati” (EInaudi) lo è. Il giornalista spagnolo Agus Morales porta il lettore in giro per il mondo, alla ricerca dei motivi per cui milioni di persone lasciano le proprie case, rischiando la vita, per il sogno di un futuro migliore.
A cura di Francesco Raiola
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Bambini siriani nel campo rifugiati della città di Arsal in Libano (Credit: AFP/Getty Images)
Bambini siriani nel campo rifugiati della città di Arsal in Libano (Credit: AFP/Getty Images)

"Continueremo a parlare di rifugiati e a leggere i libri sui rifugiati e a guardare le notizie sui rifugiati, ma sfortunatamente continuerà a essere necessario pronunciare quella parola: persone (…). Non si può dare per scontato che siano persone, visto che per molta gente non lo sono". È forse questo uno dei passaggi chiave di "Non siamo rifugiati", il reportage di Agus Morales pubblicato da Einaudi in cui il giornalista spagnolo tratta gli ultimi, coloro che sono obbligati a fuggire dalle proprie case per cercare, se non un po' di conforto, almeno di mantenersi in vita e troppo spesso sopravvivere in situazioni che figli della società opulenta e Occidentale spesso non possiamo neanche immaginare.

Inondati come siamo dalle notizie di un'invasione che non esiste, tendiamo, infatti, a ripararci dietro slogan vuoti e un'ignoranza che ci aiuta ad affrontare le nostre vite senza dover guardare un po' più in là dei barconi che portano alcuni migranti sulle nostre coste o a morire nel Mediterraneo, nel Mar Egeo, nel deserto o sulla Bestia. E a fare il lavoro sporco ci pensano giornalisti come Morales che ha deciso di viaggiare verso le rotte delle guerre, quelle da cui scappano molti dei migranti. Morales porta il lettore in Siria e nella confinante Turchia, dove molti siriani trovano rifugio, li porta sull'Isola di Lesbo in Grecia, primo e principale approdo, assieme all'Italia, per chi cerca un rifugio in Europa, ma si viaggia anche in Libano, in Africa, tra la disperazione di Sud Sudan, Congo e Repubblica Centraficana, fino al racconto di chi quotidianamente sfugge alle violenze in Sud America cercando di cavalcare "La bestia", ovvero il treno viaggia verso il nord, verso gli Usa e da cui non tutti riescono a uscire indenni.

Leggere il libro di Morales, mentre negli Usa si separano i figli dai genitori e in Italia si discute se chiudere i porti e accogliere un numero di persone che rischiano la morte, è un esercizio di umanità ed empatia, ma anche di sofferenza, quella del disvelamento di realtà che a stento possiamo immaginare e anche di un'impossibilità reale di incisione sulla realtà. Leggere Morales è anche un esercizio di comprensione: comprendere come nessuna delle persone che il giornalista incontra e che gli racconta la propria storia vorrebbe andare via di casa, come nessuno di noi vorrebbe, d'altra parte. Parlando dei profughi siriani nel libro si legge che "non sono preparati a vivere stando in continuo movimento: lo apprendono strada facendo, e questo libro è pieno di tali apprendimenti. Non sono nomadi: sono sedentari che perdono la propria casa, i propri mezzi di sussistenza. Non sono nomadi: il momento che tutti ricordano, il momento in cui si inizia a essere esiliati, non è quando si attraversa una frontiera internazionale, ma quando scompare dalla vista la propria casa, non come edificio, ma come universo simbolico".

Rifugiati che cercano di raggiungere l'Isola di Lesbo (Photo credit ARIS MESSINIS/AFP/Getty Images)
Rifugiati che cercano di raggiungere l'Isola di Lesbo (Photo credit ARIS MESSINIS/AFP/Getty Images)

Nessuno vuole andare via dalla propria casa, nessuno vuole lasciare i propri averi, i propri ricordi, il proprio ambiente, i propri ricordi. Nessuno. Eppure sono milioni le persone costrette a lasciare tutto, all'improvviso, a viaggiare sotto la pioggia su territori sconosciuti, su navi precarie, attraverso confini sotto i colpi dei cecchini, separandosi dai propri cari, trovandosi in enormi campi rifugiati in condizioni precarie e soggetti, talvolta, alle stesse condizioni di guerra da cui sono fuggiti.

Ma quella di Morales è anche una storia di genitori e figli, di famiglie distrutte e legatissime, di povertà che incide sulla genitorialità. Padri e madri che accudiscono figli traumatizzati, feriti, figli apolidi, genitori e figli che condividono la disperazione, il pericolo, la morte e anche la gioia: "Nessuno di loro va a scuola perché non ho i soldi per pagare l'iscrizione. Non abbiamo niente. Al mattino mi alzo, non facciamo colazione perché non abbiamo da mangiare, se ho qualche foglia di manioca mi metto qui a separarle fino a mezzogiorno, poi le trito e le cucino per dare da mangiare ai bambini. Non abbiamo nemmeno i soldi per condirle" dice una donna che viveva nel campo creato all'aeroporto di Bangui nella Repubblica Centrafricana. E proprio nel rapportarsi con padri e figli, Morales racconta una sua leggerezza: "Come ti senti ad aver messo a rischio la vita di tuo figlio di tre mesi in questa traversata? – gli chiesi. Era ciò che credevo che la gente volesse sapere. La gente: il pubblico per cui scrivo, lo scarso pubblico a cui puoi arrivare parlando di (non) rifugiati. Pensai a quell'astrazione, al pubblico, prima che alla persona che avevo davanti e che si era appena salvata dopo essere stata attaccata, su un gommone, da uomini armati (…). Mi dispiace, credimi, non volevo che il mio bambino dovesse vivere tutto questo, ma credo sia la fine dei miei problemi". Restare umani non dovrebbe essere una scelta, pare che dica questo libro. Restare umani dovrebbe essere un atto di resistenza alla barbarie della guerra. E dell'indifferenza.

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