L’arte di tradurre, Ottavio Fatica: “È questione di disciplina, purtroppo siamo ancora invisibili”
Ottavio Fatica ha un che di mitologico nel mondo della traduzione italiana. E anche nel mondo adelphiano. Traduttore di lunga data – ha lavorato su autori come Rudyard Kipling, Louis Ferdinand Céline, Tolkien, William Faulkner, Herman Melville, Jack London, tra gli altri -, Fatica ha pubblicato con Adelphi un libro nella collana Microgrammi che si intitola "Lost in traslation" e affronta di corpo, più che teoricamente, l'arte della traduzione, partendo dall'io, dal suo rapporto con testi e autori, partendo dal suo amato Kipling – affrontando il Libro della giungla, ma anche Kim – passando per Céline, la poesia, e il Tolkien del Signore degli Anelli. Proprio in questo saggio Fatica, grazie a Sam, fedele amico di Frodo, tratteggia "l’inedito ritratto del traduttore come sherpa" ovvero "Un montanaro che si è messo al servizio dello straniero da tradurre, se vogliamo, e lo guida passo passo fino a cime all’apparenza impervie". Fatica ha cominciato scrivendo le traduzioni ai margini dei libri e poi l'incontro con un giovane Roberto Calasso gli ha fatto capire che quella sarebbe stata la strada da seguire.
Quando ha capito che la traduzione era una strada possibile?
Da ragazzo facevo traduzioni in margine ai libri, con la penna, a matita, e a un certo punto ho portato un po' di materiale che aveva una forma e pensavo stesse in piedi all'Adelphi e così nacque questa collaborazione Ovviamente, parliamo di tantissimi anni fa, quando Adelphi non era quella di oggi, era molto stimato ma era ancora una piccola casa editrice.
Perché ha deciso di fare il traduttore?
Perché volevo e non volevo scrivere e così sono cascato in questa trappola maledetta. Volevo scrivere, ma al tempo stesso non lo volevo, vivevo queste contraddizione e per questo, forse, tradurre è stata una strana soluzione, un ibrido, un percorso un po' bastardo, ma alla fine è andata bene così. Man mano ho cominciato a fare sempre più traduzioni e un certo punto, da Kipling in poi, ho capito che volevo farlo per davvero.
Cos’è il delirio di cui parla quando scrive della traduzione di Céline?
Céline è uno di quelli che mi ha spinto a scrivere, assieme ad Artaud. Quello degli anni 60-70 era un periodo in cui ero in sintonia con la ribellione generale, anche se non facevo parte di nessuna sigla, lui la esprimeva in un modo artistico, col massimo della violenza che era possibile vedere in forma scritta e quindi mi immedesimavo totalmente in due figure come le loro. Poi col tempo uno cresce si trasforma, ma per qualche anno sono stati una grossa influenza anche su quello che scrivevo e non pubblicavo.
Quali sono le difficoltà principali del tradurre all'inizio, quando non si ha molta esperienza?
All'inizio uno è un po' ingenuo, illuso, azzarda un po', una cosa che fanno tutti i giovani traduttori. Se nessuno li pubblica lo fanno per conto loro, se qualcuno lo pubblica lo fanno anche, in parte, a spese del lettore. Se queste pecche non vengono ben controllate, ben riviste e ben indirizzate, in molti libri su cui non viene fatto un lavoro di controllo, si capisce che ci hanno lavorato persone alle prime armi.
A lei chi l'aiutava?
All'inizio nessuno, quindi facevo delle cose buone e delle cose che a rivederle capisco perché non ci arrivavo, arrampicandomi sugli specchi per trovare qualche soluzione. Sa, si fa spesso così, inizialmente. Poi col tempo approfondisci la lingua, gli autori, ma del resto io continuo a imparare l'italiano ancora adesso, scopro vocaboli che non conosco, scopro soluzioni linguistiche che non avevo mai visto e poi ritrovo quando apro un grandissimo dizionario tipo il Battaglia e mi dico: "Accidenti, l'ha detto lui nel Seicento, l'ha detto lui all'inizio del Novecento", insomma, qualcuno ha già trovato qualche soluzione che tu pensi di azzardare. Ma così sto scoprendo l'italiano, eh, non l'inglese o il francese.
Lei a un certo punto scrive: "La perdita del possesso, della disponibilità della lingua, di se stessi in fondo, lo smarrimento ultimo è il rischio che corre un traduttore". Mi parla di queste difficoltà semantiche della trasposizione linguistica?
Ci sono tanti libri sulla traduzione, da quelli pseudo scientifici a quelli leggermente più divulgativi, che negli anni ho letto, sfogliato, soltanto aperto, io arrivo ultimo con un piccolissimo libro in cui parlo di cose più o meno fisiche: tu ti confronti con un testo, con l'autore, come se fosse una persona che è davanti a te in carne ed ossa, e ti confronti con le parole, come se fossero vere, tridimensionali. La lingua è anche quella che hai in bocca, con la quale parli, non è solo l'italiano o, in generale, quel linguaggio con cui si confrontano gli studiosi di traduzione. Cose interessanti, certo, ma relativamente utili a chi fa le cose. È come la poesia, uno tende a dire che la poesia è quella che in astratto piace al lettore, ma la poesia è anche un singolo componimento in cui lo scrittore, il poeta, si scervella, è una questione molto pratica, molto tecnica, è un lavoro, nel senso bello della parola.
Alla poesia lei dedica un capitolo: possiamo dire che tradurre poesia è un ulteriore atto creativo da parte del traduttore?
Da una parte è l'astrazione delle astrazioni, lavorare sulla parola è tutto, anche se a volte non lo capisce neanche chi scrive, mentre noi – parlo dei traduttori ma a volte anche dei poeti – siamo delle persone terra terra, nel senso buono, con i piedi per terra.
Si è mai sentito perso di fronte a un testo? Come ne è uscito?
Ogni volta che si affronta una cosa nuova, anche dopo aver fatto decine e decine di traduzioni, c'è un primo momento di vuoto. Succede anche per un testo facile, a volte, capita che non ci entri subito in sintonia, quindi ci provi, cominci, muovi i primi passi, hai la fortuna di avercelo davanti e hai la strada segnata. Una grande filosofa come Simone Weil si dava come regola di scrivere e agire come un traduttore, proprio nel senso che hai la strada segnata, non puoi divagare, inventarti delle balle, prendere delle scorciatoie. La strada va da qui fino a laggiù, hai 482 pagine e così, parola per parola, rigo per rigo devi fare tutto quanto. È una questione di disciplina.
Lei ha dei libri, dei passaggi, dei pezzi di traduzione di cui è particolarmente fiero, che ha amato tradurre anche combattendoci?
Sì, sicuramente, su alcune pagine di testi che ho tradotto ci torno sempre, mi piacciono, prendoi Gottfried Benn, alcune pagine del Romanzo del fenotipo le avrò rilette decine, centinaia di volte, così come ho sentito una canzone, decine o centinaia di volte. La chiusura di un libro, le ultime dieci pagine di un libro a volte le ho rilette mille volte.
Cosa succede quando si trova tra le mani un testo che magari ha tradotto tanti anni prima e deve ritradurlo?
Sono uno di quelli che ci torna sulle vecchie traduzioni, ho ricorretto, più che ritradotto, varie traduzioni anche di una trentina di anni fa: alcune le ho corrette un po', altre abbastanza, però non è che le ho modernizzate, semplicemente, come dicevamo prima, all'epoca non ero abbastanza capace o cosciente, non vedevo tutte le ricchezze che c'erano sia nell'originale che nell'italiano, per renderlo. È un miglioramento che viene dalla maggiore consapevolezza sia dell'originale che della tua lingua. Le traduzioni che invecchiano sono quelle che erano perfettamente adatte al pubblico degli anni venti, compreso il cattivo gusto degli anni venti. Poi sai anche che quella nuova decadrà nell'arco dei prossimi vent'anni. Ma le traduzioni molto buone, sotto un certo aspetto, reggono. Quello che devi fare è affrontare l'autore, tutta la ricchezza che lui riesce a tirar fuori della propria lingua e poi cercare di fare la stessa cosa nella tua e a quel punto qualcosa si perderà nel tempo e qualcosa rimarrà.
Il suo rapporto col mondo dell'editoria qual è?
Da una parte buono, nel senso che ho avuto la fortuna di conoscere Calasso quando lui era un giovanotto e siamo rimasti amici, ma io sono amico anche con altri editori, però sotto certi aspetti è sempre un po' difficile perché si passa per i soldi, che è sempre una cosa che crea problemi. A questo si aggiunge il fatto che si lavora senza che nessuno ti veda, quindi ci sono sempre delle cose un po' poco chiare o poco carine che ci facciamo a vicenda fra traduttori, revisori, editori. Cose piccole, con qualcuno anche grandi, ma a me non è mai successo, per fortuna.
Esiste ancora, secondo lei, un'invisibilità della traduzione agli occhi di chi legge?
Sì, agli occhi dei lettori, ma anche dell'editoria e del giornalismo. A volte si dice che una tal cosa è un capolavoro, ma se l'hai letta nella mia lingua dovrai anche dire che qualcuno l'ha reso nella tua lingua, questo capolavoro, no? Ti ritrovi Joyce in italiano e dici "accidenti quanto è bello!", certo, ma qualcuno l'ha tradotto. Certe volte i giornalisti o i saggisti scavalcano questo problema, continuano a ignorarlo bellamente, o ti danno il contentino, dicono che è una bella traduzione e via. Certo, ovviamente in un articolo non puoi scocciare un lettore ed entrare nel dettaglio delle cose, certo, poi qualche giornalista serio ogni tanto fa qualche considerazione approfondita su un paragrafo, su una cosa, riesce a farlo.
Diciamo che il minimo è almeno l'attribuzione…
Certo, poi c'è anche una questione di visibilità, anche se forse è meglio se invisibili. Beckett l'avrebbe detta così.
Lei non mi sembra uno molto mondano e in cerca di attenzioni, ok, però un minimo di riconoscimento serve, no?
Ci sono due cose, una è la questione economica, i traduttori si lamentano perché non si guadagna abbastanza, quindi un premio a volte ti dà anche un riconoscimento anche minimo, che è comunque un palliativo. L'altra è che al tempo stesso se si vede che hai vinto vari premi gli editori ti notano, vedono che sei bravo e quando ti chiedono di fare un lavoro non ti danno il minimo sindacale. Perché c'è anche un aspetto del traduttore che è è spicciolo, ovvero quello di dover tradurre un tot di pagine entro un certo tempo, al punto che ogni pagina è come un mattone.
Mi racconta del suo rapporto con Calasso?
All'inizio mi sono presentato con l'audacia di un diciassettenne, lui avrà avuto 27 anni, si era appena trasferito a Milano e nacque una simpatia, un rapporto. Ci siamo rivisti poco dopo, io stavo a Vienna per un periodo, lui era venuto perché stava costruendo il primo libro di Karl Kraus, "Detti e contraddetti"; siamo andati in giro per librerie, è nato un rapporto, poi ci siamo allontanati perché io volevo guadagnare più soldi e ho partecipato ad altre cose: abbiamo aperto un cineclub, ho lavorato ad alcuni festival, però gli altri parlavano sempre di Cinema mentre io mi portavo dietro sempre dei libri così alla fine sono tornato a lavorare con lui.
Cosa l'aveva colpito di lui?
Inizialmente Roberto era molto chiuso, sulla difensiva, poi si è rilassato, era più sicuro, quando lo conoscevi capivi che era uno che ti capiva al volo, che credo sia la cosa più bella. Quando sei con altre persone, editori, devi spiegare tutto, invece con lui bastava poco per intendersi e fare un libro assieme, bastava che dicessi l'aggettivo giusto, che cogliessi la sfumatura giusta di un certo autore e lui ti diceva che aveva capito, non c'era più bisogno di fare schede in cui raccontavi la trama e poi alla fine non avevi neanche capito se il libro era bello o no. Con Calasso non c'era bisogno di fare così, ti guardava negli occhi, ti diceva le cose giuste e se andava bene, se non andava, non andava. In più io sono un lettore onnivoro e così lui ha sfruttato questo mio aspetto e io mi sono divertito a utilizzarlo. Parlavamo di tutto, si passava da Giordano Bruno all'ultimissima novità americana, era a tutto campo come lavoro.