Crescere a Monza tra gli anni ‘90 e gli anni ‘00 significava entrare in qualche modo in contatto con il mito dei Bluvertigo, e talvolta con la loro presenza tangibile. Qualcuno di loro lo vedevi alla Ricordi di via Italia – poi Feltrinelli, poi chiusa – qualcun altro tra gli scaffali del Libraccio di piazza Indipendenza. Le leggende metropolitane su Morgan viaggiavano tra le pareti del Liceo Zucchi che entrambi (in anni diversi) abbiamo frequentato, nelle parole di chi l’aveva incontrato o ci aveva suonato insieme. Il resto lo aggiungevi tu, leggendo tra le righe dei libretti dei dischi: è lì che ho incontrato per la prima volta David Bowie e David Byrne, Brian Eno e i Depeche Mode, ma pure Franco Battiato e Fabrizio De André. Non alla mia famiglia, non a MTV né alle radio devo la mia conoscenza di alcuni grandi della musica dei due decenni precedenti – eppure, oggi siamo convinti che i mass media attuali siano attivamente “peggiori” nel trasmettere cultura: strana forma di nostalgia.
Insomma, sono cresciuto con le canzoni scritte da Morgan. Ma più sono andate avanti le nostre vite, più si sono separati i nostri cammini. Capita con chi anche per un istante svolge una funzione didattica nella tua vita: non continui a frequentare i tuoi maestri di prima elementare solo perché ti hanno insegnato l’ABC. Mentre quei riferimenti diventavano conoscenze che indipendentemente coltivavo, nel frattempo il mio illustre concittadino imboccava una luminosa carriera che lo ha portato a pubblicare almeno un acclamato disco solista e reso il personaggio televisivo più dirompente degli anni Dieci, portandosi sempre appresso questo doppio distintivo: il musicista forbito e colto conoscitore del canzoniere italiano; e il musicista che fa canzoni belle, il maestro della composizione e della scrittura.
Viste da qui, però, le sue lezioni hanno iniziato a sembrarmi sempre meno interessanti, di anno in anno. I suoi contributi sempre meno importanti. Le sue canzoni sempre meno belle. Oggi, nel luglio 2024, quando tutta Italia si è accorta di una storia riportata pubblicamente da almeno 3 anni, la distanza che ci separa dall’ultimo Morgan decoroso è talmente vasta da confondere la nostra memoria. È mai esistito un Morgan grande artista o è stato solo un abbaglio? E in entrambi i casi: esiste della musica talmente bella da giustificare presunte molestie, persecuzioni, minacce e ingiurie? A questo possiamo già rispondere prima ancora di proseguire: categoricamente no. Non esiste musica così irrinunciabile da giustificare i comportamenti spregevoli di qualsivoglia genio. Attenzione: questo non significa che si debba “cancellare” l’eredità delle persone moralmente riprovevoli. E non significa nemmeno che l’arte debba essere fatta da artisti di certificata probità etica: e chi dovrebbe stabilirlo?
Ma non è esclusivamente un discorso di responsabilità individuale: l’arte è un lavoro collettivo, non il frutto di un genio solitario. La musica si produce insieme a molte altre persone: assistenti, compositori, autori, fonici, collaboratori, produttori, discografici, uffici stampa, che meritano di poter lavorare in un ambiente non tossico, che devono potersi sentire al sicuro accanto a un artista. Se l’arte e la cultura sono espressioni umane, una trasmissione di valori e idee e non soltanto l’atto di consumo di un prodotto, allora è giusto tenere conto anche delle valutazioni etiche. L’arte e la cultura sono trasmesse anche senza il bisogno di celebrare pubblicamente persone forse orribili che vi hanno dato il loro contributo, come se l’abuso fosse necessario per la produzione di un’opera dignitosa – altra versione della favola del genio tormentato.
Ma, appunto: qual è il contributo recente di Morgan alla musica italiana? Andiamo a ritroso e fermiamoci quando ne troviamo uno. Rutti è il primo e ultimo singolo della sua breve esperienza dentro Warner Music Italy, presentato dal vivo al Primo Maggio 2024 e poi pubblicato qualche settimana dopo. Si tratta di una filastrocca al veleno contro il funzionamento dell’industria musicale e contro i gusti del pubblico. Gusti che puntano verso il basso e sono omologati, un giudizio quest’ultimo che rende piuttosto ironica la partecipazione di Michele Canova Iorfida alla produzione, colui che per anni è stato “il” produttore più presente del pop italiano. Musicalmente, la canzone combina i suoni compressi e bombastici del pop contemporaneo con i giri di accordi dei maestri del canzoniere a cui per anni il brianzolo ha dedicato le sue attenzioni.
Insomma, un rimpasto di vecchie idee e nuovi trucchi servito con una lirica anti-musicale: lessico tecnico-oggettivo (“discernimento”, “mobbing”, “antitesi”), poggiato sulle stesse due rime come uno stornello e fitto di espressioni saccenti (vedi l’anafora di “si chiama…”). Il testo di Rutti fallisce nell’obiettivo di suonare come una critica e allo stesso tempo come l’oggetto della critica stessa; semmai, ha l’effetto di un’impettita dichiarazione di superiorità intellettuale. Proviamo a risalire ancora più indietro, per cercare le ragioni di questa presunta superiorità.
Prima di Rutti uscì Sì, certo l’amore. Di questa canzone, dei suoi limiti oggettivi, della sua macchinosità, e – particolare importante – della difficoltà di separare l’arte dall’uomo che la propone, abbiamo parlato già in questo articolo. Neppure questo lavoro ci fece gridare al miracolo, ma non solo: nel 2023 le influenze musicali di Morgan sono le stesse che conoscevamo nel 2003 e nel 1998, dalla Trilogia di Berlino di Eno e Bowie al pop stralunato dei Talking Heads. In questo tipo di produzioni Morgan dimostra di non essersi separato dal suo momento di formazione, di non aver superato la fase adolescenziale del suo gusto, di non essere cresciuto insieme al suo pubblico – o meglio, di non essere cresciuto, proprio come parte del suo pubblico. L’effetto non è quello di Elliott Smith che cerca di fare i conti con il suo amore per i Beatles dentro un ethos e un tempo completamente diversi, ma fa pensare piuttosto a Boris Johnson che cerca di impressionare citando Omero in metrica. Possiamo dire che Sì, certo l’amore non è una delle aggiunte imperdibili al repertorio di Morgan (e nemmeno a quello di Pasquale Panella). Quindi facciamo un altro salto indietro.
Nell’agosto 2022 uscì Battiato (mi spezza il cuore), un omaggio a quello che per Castoldi fu maestro ma anche amico. In questo caso, la canzone ha il difetto di provare a riassumere decenni di musica e scrittura del siciliano senza il suo dono della sintesi. E non intendo la concisione, ma la capacità di unire discorsi, contenuti, stili diversi in un solo messaggio, semplice, inequivocabile, dove anche l’incursione di una parola articolata e fitta di senso, di un polisillabo astruso apre squarci di complessità dietro il velo del pop. Morgan non riesce a rappresentare questa leggerissima densità, ma offre una stratificazione pesantissima di stimoli e ricordi. Se doveva suonare come un necrologio, ne aveva forse l’affetto ma non la cura. Anche se, forse, la peggiore caduta di stile è l’esplicito paragone tra sé e Battiato: “È sempre stato gentile, molto diverso da tutti, e forse chissà per questo, per questo mi ricorda me stesso”. La modestia non è mai mancata a Morgan.
Eppure, per molti anni gli è mancata la produttività. O, quantomeno, la capacità di esprimere ciò che avesse da dire in un formato accessibile ai più. Insomma, il grande pubblico (musicale, non televisivo) ha perso contatto con Morgan per anni. Per ritrovare un’altra uscita ufficiale dobbiamo tornare indietro fino al febbraio 2020, a quella Sincero di Bugo sulla quale sono stati versati litri di inchiostro. Poco di questo inchiostro è stato usato per dire che la canzone era molto valida: resta da capire per merito di chi tra gli autori-compositori a cui è attribuita – oltre a Bugo e Morgan, Andrea Bonomo e Simone Bertolotti. Di certo, la “performance” che ha reso quella canzone un meme non è stata un’invenzione geniale, anzi: è stato un atto di bullismo in diretta televisiva che ha sciupato le chance di una buona canzone. La trasformazione in “meme lord” di un personaggio ormai separato dalla musica, esistente solo su un piano di intrattenimento bestiale. Fu un atto spettacolare e memorabile, certo, ma come doveva esserlo assistere al leone che sbranava gli schiavi nel Colosseo.
Negli anni Dieci abbiamo avuto una reunion dei Bluvertigo, durante la quale il migliore dei due nuovi brani (Andiamo a Londra) non era opera del solo Morgan. Non abbastanza per realizzare l’ambizione di pubblicare un nuovo album, quel Tuono – Tono, tempo, suono che viene promesso dal 2015 e ancora deve vedere la luce. In questo caso, soprattutto il singolo sanremese Semplicemente si inseriva chiaramente in un revival della band monzese, ribadendo che dal personaggio “formerly known as” non avremmo avuto altro che la riproposizione di vecchie soluzioni. E se parliamo di nostalgia, non dobbiamo guardare lontano: andando ancora a ritroso troviamo tre voci della discografia di Morgan che vivono dichiaratamente di luce riflessa. Si tratta dei due volumi di Italian Songbook (2012 e 2009) e il remake di Non al denaro, non all’amore né al cielo (2005): la resa del cantautore al musicista.
Assolutamente legittimo, se non fosse che queste nuove versioni non hanno aggiunto nulla al canone. Se pure accettiamo la fissazione di Morgan (e non solo) che la musica italiana tra anni ‘50 e ‘60 sia stata un’esplosione irraggiungibile di creatività dopo la quale tutto è andato in discesa, lo stesso atto di riproporla in una nuova incisione è un progetto fallimentare in partenza: la magia di quei singoli scritti da Bindi, Paoli, Endrigo, Modugno (Ebe De Paulis unica autrice donna inclusa tra decine di brani, curiosamente) non sta solo nella scrittura, ma nell’arrangiamento, nella produzione, nelle interpretazioni. Il problema di vivere nel passato è che non tornerà mai, per quanto lo si desideri.
Quindi torniamo agli unici due LP di composizioni originali firmati da solista: Da A ad A del 2007 e Canzoni dell’appartamento del 2003. Diciassette e ventuno anni fa Morgan è stato un artista che ha avuto qualcosa da dire, proponendo soluzioni di pop cameristico e sincretico in un millennio già molto distratto e proiettato alla disintegrazione dei gusti. Il primo, in particolare, fu un disco classico ma assemblato con tecnologie digitali, pop ma ripreso come fosse musica concreta: insomma un lavoro ammirevole che, come nel decennio precedente con i Bluvertigo, esiste solo in quanto frutto di collaborazioni – prima di tutto con il produttore Roberto Colombo e lo staff delle Officine Meccaniche di Mauro Pagani. Insomma, un momento di grazia nel quale l’ego smisurato dell’artista non aveva ancora strabordato, ma la cui fortuna ha contribuito a cementare l’immagine del genio – e molte giustificazioni successive dei suoi comportamenti molesti. Se Morgan è quello di Canzoni dell’appartamento, ogni discorso sui suoi contributi successivi deve partire da qui.
Tra poco più di un anno avranno diritto di voto persone nate in un’Italia che conosce Morgan solo come quello che parla forbito e sbraita nei talent show musicali; quello che usa epiteti omofobi nel mezzo di concerti; quello privo di rispetto per chi ha problemi mentali; quello che in TV ci ricorda di aver ascoltato molti dischi e aver preso lezioni di pianoforte; quello che sminuisce le donne che fanno pop; quello legato in prima persona a casi di cronaca atroci. Insomma, un personaggio il cui presente è (non da oggi) tossico come un fallout radioattivo, e che vive della nostalgia e nella nostalgia; il cui credito (decrescente) è dovuto a lontani meriti passati. Un artista dovrebbe ricevere rispetto anche se non produce nuove hit. Ma se non produce arte affatto? Se contribuisce a farci confondere la storia con la memoria? Se, soprattutto, dovesse appurarsi che ha perseguitato una ex e il suo attuale compagno, peraltro entrambi colleghi? Se, insomma, non avesse mostrato alcuna traccia di umanità verso altre persone? Che credito gli si dovrebbe riconoscere, in quel caso? Saremo capaci di separare l’uomo dalla sua sempre meno consistente arte?
Ognuno potrà rispondere secondo coscienza, parlare di questi fatti non equivale ad aizzare battaglie contro questo o quest’altro. Ma un esempio può tornarci utile per arrivare a un punto. Qualche anno fa, il regista Danny Boyle ha raccontato la storia di un cantautore sfortunato e scarsino che, dopo un incidente, si risveglia in un mondo completamente identico al suo, tranne per il fatto che i Beatles non sono mai esistiti e le loro canzoni non sono mai state incise da nessuno. Si può discutere della buona riuscita del film Yesterday, ma un suo messaggio secondo me torna molto rilevante per chi attraversa momenti storici come questo, in cui gli abusi delle celebrità vengono pubblicamente stigmatizzati, specie se fanno parte di pattern ricorsivi e inveterati, di dinamiche di potere sballate e in qualche modo giustificate dalla massa in nome del contributo artistico del soggetto in questione.
E il messaggio è questo: chiunque, letteralmente anche uno scarso, sarebbe capace di scrivere una grandissima canzone; e anche se questa canzone stupenda non esistesse, il mondo continuerebbe a produrre cultura e altre canzoni verrebbero scritte. L’arte non vale tutto. Certamente non vale la violenza. Il che non implica cancellare dalla faccia della terra chi l’ha fatta, né ci obbliga a smettere di ascoltare l’opera di un violento: ma in una società sana, che guarda avanti e non indietro, si può e si deve anche andare oltre. Morgan ha davanti a sé milioni di vite possibili: non ha più un contratto con Warner Music, ma può ancora fare musica dove e quando vuole (l'altra sera ha suonato in piazza a Desio); forse non andrà più in onda in Rai, ma può ancora insegnare le bellezze della canzone italiana a chiunque sia disposto ad ascoltarlo.
E chi vorrà, potrà trovare i suoi album (per quanto ormai molto vecchi) da qualche parte su internet o in un negozio di dischi. Interrogarci su una cancellazione di Morgan, insomma, è soprattutto un esercizio intellettuale. Invece, i dischi che non vengono prodotti dalle persone molestate, perché le loro vite sono state rovinate dalle persecuzioni o perché la loro figura è stata screditata; perché non si sentono sicure dentro una discografia che – in assenza di grandi casi giornalistici – accoglie i loro presunti molestatori: beh, tutti questi dischi rischieranno di non esistere mai realmente, mentre la nostra empatia per il carnefice riesce sempre a superare quella per la vittima. La musica è una disciplina umana, e se non riesce a comunicare valori umani, tanto vale che non esista affatto.