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25 aprile, Festa della Liberazione: la Resistenza è donna, il Derby (e Salvini) è maschio

Le storie di Irena Sandler in Polonia e di Onorina Brambilla Pesce ci insegnano che la Liberazione dal nazifascismo, che in Italia festeggiamo ogni 25 aprile, è anche e soprattutto una festa al femminile. Perché la Resistenza è stata sempre donna, mentre il derby (e Salvini) è decisamente roba per maschi Alpha.
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Questa è la storia di quando ho cercato di spiegare al mio piccolino grande cos'è il 25 aprile, l'Anniversario della Liberazione d'Italia, che non è affatto un derby, e perché una cosa "vecchia vecchia" sia ancora così importante da ricordare e raccontare. Qualche giorno prima avevo letto che Matteo Salvini aveva dichiarato che non avrebbe partecipato ad alcuna celebrazione pubblica in occasione della ricorrenza della Festa della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, perché:

"Siamo nel 2019 e mi interessa poco il derby fascisti-comunisti.”

Perché diciamocelo il fascismo è roba vecchia e inutile, se non addirittura inesistente. Ed è questa una delle più grandi conquiste del linguaggio salviniano postberlusconiano: dissimulare, non più mentire sul problema o su di una pronta risoluzione dello stesso, ma negare direttamente la sua esistenza, affermare il contrario. Come diceva Kaiser Soze ne “I soliti sospetti”, la più grande invenzione del diavolo è far credere che il diavolo non esista.

E per farlo, Salvini, usa un linguaggio che fa tabula rasa, ammiccante, populista, da maschio alpha, che piace tanto al suo elettorato e a chi legge soltanto titoli e copertine. Declassa così il fascismo a rango di folklore antico e con lui tutti quelli che di continuo denunciano il pericolo reale di un suo ritorno in grandioso stile in tutta Europa. E il gioco è fatto. Così quando il mio piccolino grande, vedendo le corone appese o centinaia di migliaia di persone a manifestare, mi chiede cosa voglia dire tutto questo, gli dico che la storia della Liberazione assomiglia un po' alla nostra favola preferita che comincia con “tanto tempo fa in una galassia lontana, lontana”, dove c’è la Resistenza della Principessa Leia che combatte contro l’impero Galattico del male e dove alla fine vincono i buoni: i partigiani sono Leia con tutti i suoi compagni di lotta, mentre i nazisti e fascisti sono Darth Vader, Palpatine e tutte le truppe imperiali, che dopo tante perdite e sofferenze, vengono sconfitti.

Ed è in quel momento, che pensando a Leia e i partigiani, mi viene in mente una storia vera, bellissima quanto drammatica, accaduta tanto, tanto tempo fa; una storia che parla di una donna, della resistenza e di tanti bambini, che seppur non sia una storia italiana, è pur sempre una storia d’amore e di libertà, perché, come diceva sempre mio padre, quando l’amore è vero amore è sempre un atto di rivolta e la rivolta è sempre un atto di vero amore; e poi mi viene in mente perché, per chissà quale strambo motivo, noi italiani siam sempre esterofili e se racconti una bellissima storia di resistenza ma ambientata in Polonia, dove il nemico è nazista, magicamente ci dimentichiamo del derby e tutto diviene emozionante e da non dimenticare, come nel migliore dei film d’oltre manica.
Quindi decido di raccontargli questa storia più o meno così (a voi il beneficio della lettura senza le innumerevoli interruzioni date delle domande più disparate e incredibili):

Molti anni dopo Irena Sendler davanti al plotone di esecuzione, si sarebbe ricordata di quel remoto pomeriggio in cui suo padre l’aveva portata a conoscere la bellezza della miseria. Era un medico, scomparso, quando lei era ancora bambina, dopo aver contratto il tifo dai suoi stessi pazienti : ebrei poveri che nessun altro collega si era offerto di curare e dai quali non si era mai voluto allontanare, neppure negli ultimi suoi giorni che gli restavano da vivere.
Di questa profonda lezione d’amore per il prossimo e della memoria del suo babbo, Irene conservò con cura per tutta la sua lunga vita due passioni: quella per il socialismo e quella per la marmellata, ragioni entrambe del suo arresto nell’ottobre del 1943, per mano della Gestapo nel ghetto di Varsavia.
Non parla Irena, non pronuncia una sola parola e seppur i suoi carnefici la torturino selvaggiamente e metodicamente per tredici giorni senza sosta, lei continuerà a non rivelare mai dove siano nascosti i nomi che i nazisti vogliono da lei, neppure quando le spaccano entrambe le gambe, lasciandola inferma per tutta la vita , neppure quando le frantumano le braccia una dopo l’altra, neppure quando la portano davanti al suo plotone di esecuzione dove si sarebbe ricordata di quel pomeriggio di tanti anni prima, in cui il suo babbo le aveva mostrato la beltà della miseria.
Ad armi quasi puntate, la resistenza polacca riesce a trarla in salvo, corrompendo, con molto danaro, i soldati tedeschi che avrebbero dovuta condurla all’esecuzione: il suo nome viene così registrato insieme a quello dei giustiziati e viene creduta morta. Ma resta in vita e nell’anonimato, fino a conclusione della guerra, continua a nascondere gelosamente quei nomi e nasconderne altri ancora.
Irena Sandler, nome di battaglia Jolanta, era entrata nella resistenza polacca sin dai primi giorni dell’occupazione nazista del paese, trasferendosi subito a Varsavia: entrava nel ghetto, ora come infermiera, ora come assistente sociale, come idraulica, operaia (mutando di volta in volta il pretesto necessario per poter varcare quelle mura) e portava fuori da quell’inferno bambine e bambini ebrei, che conduceva in luoghi sicuri, dando nuovi nomi e identità che avrebbero loro fatta salva la vita. I più piccoli li nascondeva nella cassetta degli attrezzi o nelle casse del furgone, i più grandi in sacchi di liuta: portava sempre con sé due cani addestrati ad abbaiare ai nazisti, per nascondere il suono del pianto inconsolabile dei bimbi e delle bimbe sottratte alle loro mamme e ai loro papà, mamme e papà che lei ha continuato a chiamare fino al suo ultimo giorno, i veri unici eroi, che decidevano con immenso dolore di affidarle i propri figli, perché:

ogni bambino salvato con il mio aiuto è la giustificazione della mia esistenza su questa terra e non un titolo di gloria.

Poi di ognuno compilava una piccola scheda su fogli ingialliti ricavati da vecchi libri, nelle quali annotava tutto nei minimi particolari : nomi, indirizzo, nomi dei genitori, provenienza, data luogo e ora. E dopo aver portato i piccolini fra le braccia delle loro nuove famiglie – cristiani polacchi e orfanotrofi – ripiegava i fogli ingialliti, li richiudeva in barattoli di marmellata e li seppelliva nel suo giardino, proprio sotto quel melo dove un pomeriggio di molto tempo prima, suo padre le aveva mostrato il bellissimo volto della miseria.
Irena Sandler, nome di battaglia Jolanta, aveva salvato così duemila e cinquecento bambini, duemila e cinquecento viaggi con il furgone, duemila e cinquecento travestimenti, duemila e cinquecento volte in cui aveva rischiato di morire e tantissimi barattoli di marmellata, la sua passione insieme al socialismo.
Pochi giorni prima di morire ha confessato che il suo più grande rammarico era quello di non aver potuto fare di più, di non aver potuto salvare più vite, perché non aveva mai dimenticato quel remoto pomeriggio in cui suo padre, al tramonto, dondolandola sulla sua altalena preferita, appesa ai rami del melo nel loro giardino, mostrandole la meravigliosa bellezza del sole che piano scompare, le aveva detto che anche lui come il sole di lì a poco sarebbe scomparso “ma non devi essere triste piccola mia, ho avuto una vita meravigliosa, ho incontrato te e non c’è niente di più bello che stare insieme. Ho scelto io di aiutare quelle persone, per reclamare la vita e non la morte, il mio sacrificio era animato dal desiderio vivissimo in me che gli ultimi non siano più ultimi. E non dimenticarti giammai, Irena, ogni qualvolta nella vita sarai felice, di non essere egoista: la felicità dei giochi non tenertela tutta per te, dividi sempre le tue gioie con quelli più infelici, più poveri e più deboli di te e non essere mai sorda verso coloro che domandano soccorso, tutto l’amore che saprai donare, tornerà e non dimenticare mai di conservare sempre un poco del tuo amore per me e per le nostre mele, piccola mia… perché ti amo tanto, tanto e tanto. Non c'è niente di più bello di stare insieme”

Irena Sandler è stata una delle più grandi eroine della Resistenza, resistenza umana e non armata, ai nazisti in Europa; è scomparsa a novantotto anni e per decenni la sua storia è stata ignorata perché gli eroi dovevano essere maschi e armati.  Ed è questo il motivo per il quale ho deciso di raccontare questa storia al mio piccolino grande: perché la Resistenza, come la terra, Leia, la natura, la Libertà e la sua principessina, è donna.
Il derby invece è solo e soltanto maschio alpha.
E il maschio alpha (e con lui i suoi capitani) prima o poi si estinguerà, la resistenza mai.

PS
Cambiate nome e luogo e otterrete la storia di una qualsiasi partigiana italiana morta per la libertà, perché, come ebbe a dire Onorina Brambilla Pesce, alla cui memoria questo pezzo è dedicato «Secondo me sono state le donne a dare inizio alla Resistenza… la loro partecipazione fu dovuta a motivazioni personali; a differenza di molti uomini che scelsero di andare in montagna per sottrarsi all’arruolamento nell’esercito di Salò, nessun obbligo le costringeva ad una scelta di parte; fu anche l’occasione per affermare quei diritti che non avevamo mai avuto, mai come in quei mesi ci siamo sentite pari all’uomo…»
Grazie Nori, nome di battaglia Sandra – Milano 1923 – 2011

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