Come molti sapranno Nicola Lagioia è persona sempre molto generosa quando si tratta di rispondere alle domande degli intervistatori, oltre che lo scrittore di talento che tutti conosciamo. Quindi nei giorni precedenti a quest'intervista ho ripensato con attenzione alle mie letture passate di Roberto Bolaño, ma soprattutto al successo, specie tra gli intellettuali e i lettori forti, che da qualche anno in Italia accompagna questo grande scrittore per un terzo cileno, un terzo spagnolo e un terzo messicano.
Il fatto è che ho sempre nutrito qualche sospetto sugli autori divenuti improvvisamente di culto. Recentemente, poi, mi è giunta in sostegno una riflessione di Goffredo Fofi sul Sole 24 ore in cui, più o meno, si criticava la tendenza degli scrittori italiani a far ribollire i propri romanzi di un Io invasivo, accusandoli di essersi formati – e quindi, in un certo senso, di esserne rimasti vittime, e noi con loro in quanto lettori – attraverso i romanzi di scrittori americani un po' salottieri, come David Forster Wallace e Paul Auster. Sul finire dell'articolo Fofi ha tirato in ballo anche Bolaño, definendolo in verità "il più grande", anche considerando che non era né un salottiero né un newyorchese.
Ogni mio sospetto, in ogni caso, si è presto disciolto quando l'attuale Premio Strega in carica (fino alla proclamazione del prossimo luglio, "La ferocia" di Lagioia resterà tale) mi ha parlato della sua idea di Bolaño, annichilendo le mie residue perplessità (sulla diffusione dell'opera di Bolaño presso gli addetti ai lavori , lo ripeto, non sull'opera in sé) con delle riflessioni a cuore aperto nutrite di un amore per l'opera dello scrittore cileno che è impossibile non definire autentico, caldo, appassionato. Questo è il privilegio di cui si gode quando si pongono le domande a persone che sono in grado di darti le risposte giuste. Inevitabilmente si finisce per riflettere su ciò a cui fino a un attimo prima non avevi mai pensato. Più o meno è così che è andata.
Chi è Roberto Bolaño per Nicola Lagioia?
Finora per me è, senza dubbio, il più grande scrittore del XXI secolo, anche se ci ha lasciati prestissimo all'alba del nuovo millennio. Ed è la testimonianza del fatto che la letteratura può trovare sempre nuove strade. Il post moderno con David Foster Wallace sembrava aver chiuso i giochi. E invece Roberto Bolaño ci dice che non è affatto così. La sua opera, inoltre, è importante per tanti motivi, uno dei quali è il fatto di rappresentare un ponte tra il Sudamerica e l'Europa, una sorta di rivisitazione modernista nel nostro secolo. Come se Joyce, Virginia Woolf e Malcolm Lowry si fossero reincarnati in un sudamericano europeizzato.
A proposito di Europa, nei libri di Bolaño emerge una conoscenza specifica dell'Europa e delle sue questioni. Anche l'Italia è molto presente.
L'aspetto davvero interessante della scrittura di Bolaño è che riesce a essere globale, quasi onnisciente, ma allo stesso tempo mai accademica. Ciò probabilmente dipende dal fatto che ha svolto tanti mestieri per vivere, e ha poi incrociato le grandi questioni del suo tempo (come il Cile di Pinochet) e ha conosciuto il mondo. In un racconto dal titolo "Joanna Silvestri", per esempio, c'è una pornostar che va in giro ascoltando le canzoni di Nicola di Bari, ma questo è solo un dettaglio. Il fatto è che Bolaño conosceva le cose, aveva almeno tre patrie di riferimento, accanto all'amore per la letteratura nutriva questa impellente necessità di esperienza che ne guidava l'immaginario. Forse proprio per questo, insieme a Malcolm Lowry, è stato autore del principale romanzo sul Messico (da non messicano) con "2666".
Una caratteristica dei suoi romanzi è la capacità dei personaggi di creare empatia sin da subito con il lettore.
Non è possibile leggere i libri di Bolaño prescindendo da un forte livello di identificazione con il suo punto di vista, o con quello dei suoi personaggi. La differenza con i grandi autori nordamericani sta tutta qui. Gli eroi di Philip Roth, per esempio, sono borghesi ribelli, tutto sommato integrati da un punto di vista sociale ed economico, ma che puntano dritti verso la disintegrazione personale e morale. Quelli di Bolaño, invece, sono dei precari dal futuro incerto e dal presente avventuroso, degli squattrinati indistruttibili che esplorano il mondo trascinandoci nel suo vorticoso gioco.
E con questo siamo a Cortázar…
Bolaño è, in un certo senso, l'erede di Julio Cortázar. E in parte di Borges. Ha innovato – sempre ammesso che in letteratura si possa parlare di innovazione – alcuni dispositivi narrativi sulla loro scia. La bellezza della sua opera sta nel doppio binario su cui viaggiano sempre i suoi libri. Da un lato, infatti, per Bolaño la scrittura è un'esperienza conoscitiva alla maniera della poesia. E in poesia trovi ciò che ti serve solo nel momento in cui lo cerchi. Allo stesso tempo, i suoi romanzi sono costruiti sulla base di una struttura solida, solidissima. E poi sono pieni di botole.
Botole?
Sì, tantissime botole. Sono vie d'uscita, strade che portano verso la libertà. Questi spiragli sono fondamentali per il lettore. Gli restituiscono, attraverso la pagina scritta, la supremazia irriducibile dell'esperienza sul resto.
Il che, nei fatti, è una professione di fede, una dichiarazioni di intenti poetici.
Il compito della vita, ci insegna Bolaño nei suoi libri, non è mantenere o occupare una posizione nel mondo, ma esplorarlo. In un certo senso, l'autore americano dei nostri tempi a cui si avvicina di più è Cormac McCarthy. Da questo punto di vista "I detective selvaggi" resta un romanzo emblematico. La letteratura – sembra dirci – è un campo in cui lo scrittore è a caccia di fantasmi. Da qui il profondo senso di avventura che si respira leggendo i suoi libri, un'avventura che resta fondamentalmente questa: sondare l'animo umano, senza mai cadere nel cliché della letteratura edificante. Ed è per questo che Bolaño ama mettersi spesso dalla parte del cattivo, del bastardo, alla stessa maniera, per esempio, di come riusciva a farlo un altro grande scrittore del calibro di Joseph Conrad.