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La scultura è femmina! A Roma la retrospettiva di Louise Nevelson

Il Museo Fondazione Roma apre le porte di Palazzo Sciarra per ospitare una grande mostra dell’artista americana. Tra sculture ed assemblage, il dress code è black.
A cura di Gabriella Valente
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Misteriosa e sofisticata l’atmosfera che si respira negli spazi di Palazzo Sciarra dove da pochi giorni è stata inaugurata la grande antologica dedicata a Louise Nevelson (1899-1988), visitabile fino al 21 luglio.

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Con questa affascinante retrospettiva il Museo Fondazione Roma, in collaborazione con la Fondazione Marconi di Milano ed altre collezioni e istituzioni internazionali, ripercorre – dagli esordi degli anni ’30 alle opere mature degli anni ’80 – l’attività di un’artista speciale, dalla personalità complessa e intrigante, la cui ricerca ha fornito un contributo fondamentale all’arte americana del XX secolo. Oltre settanta lavori della scultrice americana di origini russe popolano le sale del museo in un allestimento che tende ad adattarsi allo stile elegante delle opere in mostra. È gradito l’abito scuro, si direbbe, nel percorso espositivo dove – eccetto un piccolo nucleo di sculture bianche, tre bellissimi lavori in oro e alcuni collage – tutte le opere sono dipinte di nero, potente cifra stilistica della Nevelson.

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Quando si racconta dell’arte di Louise Nevelson è difficile prescindere dalle vicende personali della scultrice, dal suo aspetto sofisticato ed eccentrico, dal suo carattere caparbio e anticonvenzionale. Non sarà inutile, quindi, ricordare quanto Lady Lou si dimostrò ostinata nel dedicarsi totalmente e liberamente all’attività artistica (“Volevo ventiquattrʼore al giorno per fare il mio lavoro”), come se la vocazione d’artista, percepita sin da bambina, fosse per lei un “imperativo interiore categorico”, ineluttabile come un destino: “La mia vita ha seguito un piano fin dallʼinizio, […]. Quello che intendo dire è che non sono divenuta alcunché: ero unʼartista”. Ogni sua scelta era compiuta per l’arte (“Solo lʼarte mi importava, sempre, fin dallʼinizio”) e, alla continua ricerca di libertà, arrivò a considerare il proprio matrimonio (conclusosi con un divorzio) come l’unica complicazione della sua vita.

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La strada per il successo non fu facile per questa donna fascinosa e misteriosa che, giunta da Kiev negli Stati Uniti, fu inizialmente guardata con sospetto dal mondo dell’arte newyorkese per la sua stravaganza nel vestire (indossava sempre abiti eccentrici e ciglia finte), per i suoi atteggiamenti anticonformisti, per la sua volubilità e la sua ambizione. Con tenacia ed energia, dovute anche a un desiderio di rivalsa dalla sua sottostimata condizione femminile, raggiunse fama e riconoscimenti a partire dalla fine degli anni ’50, esponendo molto frequentemente e ottenendo alte quotazioni.

Fiera e instancabile innovatrice del linguaggio plastico, Louise Nevelson non ha mai negato le forti influenze subite dalle avanguardie storiche europee, cui ebbe modo di avvicinarsi durante i viaggi del 1931-32: “se Picasso non ci avesse donato il Cubismo, non mi sarei mai liberata nel mio lavoro”. E accanto al Cubismo e all’arte precolombiana (la cui osservazione è riscontrabile in mostra nei disegni e nelle terracotte degli anni ’30), vi sono evidenti e dichiarati influssi del Dadaismo, del Surrealismo e di quegli artisti maestri del recupero dell’objet trouvé e dell’assemblaggio, come Cornell e Schwitters.

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Il nucleo più interessante della mostra, e della produzione di Lady Lou, è costituito dalle ‘opere nere’, armoniosi e bellissimi assemblaggi monocromatici di oggetti lignei. La Nevelson giunse a questo tipo di installazioni dopo aver sperimentato l’impiego di frammenti di legno non lavorati, messi insieme a creare sculture nere di forme differenti e quasi espressioniste. L’uso di questo materiale semplice, povero e vivo, per la scultrice non era da intendersi in maniera tradizionale come punto di partenza per un intaglio, ma al contrario fu scelto per l’immediatezza espressiva che permetteva e, soprattutto, per il vissuto che aveva in sé: la materia prima delle opere di Louise proveniva infatti dal recupero di frammenti e oggetti trovati, poi riutilizzati e ricomposti in nuove forme. “Non è un processo di intaglio. È veramente un processo additivo. Si aggiunge, aggiunge e aggiunge”.

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Come altorilievi, vanno prendendo forma i primi più complessi assemblage dell’artista: su pannelli rettangolari sono accumulati, sovrapposti e accostati pezzi di mobilio domestico, frammenti e oggetti di legno, in composizioni armoniose ed equilibrate che, sempre dipinte di nero, catturano lo sguardo per la loro intensità e bellezza, mentre sembrano sussurrare i segreti e l’intimità di un passato domestico, raccontato dai resti di sedie, di mobili, di tavoli, di letti, di una vita d’altri. La valenza della memoria è fondamentale nella poetica di Lady Lou: recuperando oggetti abbandonati, ma un tempo lavorati da altre mani, quindi carichi di una propria storia, omogeneizzandoli cromaticamente e ricomponendoli in forme e significati inediti, la scultrice dà nuova vita a frammenti dimenticati, offrendo loro anche la possibilità di un futuro grazie alla acquisita dignità artistica. Come scrive il curatore della mostra , Bruno Corà, nell’opera della Nevelson “insieme alla elaborazione della forma e dello spazio, si evidenzia il tempo, con tutte le sue dimensioni di passato, presente e futuro, compreso l’oblio”.

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Una spazialità plastica inedita, che contraddistinguerà l’intera produzione matura della scultrice americana, si raggiunge alla fine degli anni ’50, quando gli assemblage di oggetti lignei iniziano a ‘essere ordinati’ in strutture scatolari: grandi muri monocromi neri, sviluppati in orizzontale o in verticale, scanditi in scomparti, come a formare una griglia, contengono una miriade di ‘frammenti di legno della memoria’ ricomposti con cura e sapienza in un ordine casuale ma equilibrato ed essenziale. Sono queste le opere più mature e caratterizzanti dell’attività di Louise Nevelson, queste grandi “cattedrali”, strutture composite ma unitarie, gremite di morfologie diverse ordinate poeticamente entro moduli geometrici. Sono composizioni liriche che, nonostante le dimensioni monumentali, parlano sottovoce, con intimità, e, pur essendo indecifrabili, “si prestano a essere riempite di senso dall’immaginario individuale”. La potente tridimensionalità di questi muri accentua le ombre e, con esse, il senso di segreto contenuto negli scomparti.

Il lavoro della Nevelson tocca tutte le dimensioni: da quella imponente della parete a quella minuta dell’oggetto, da quella energica dell’accumulazione a quella fragile del frammento e del ricordo. Ad unire il tutto è la mentalità femminile, capace, secondo Lady Lou, di “salire al cielo”: “Sento nelle mie opere qualcosa di assolutamente femminile”, spiega l’artista. E chiarisce:

Gli uomini non lavorano in questo modo, diventano troppo attaccati, troppo impegnati nel mestiere o nella tecnica. Essi non si metterebbero a giocare, per così dire, come faccio io con queste cose. I frammenti, le fessure, i dettagli mi affascinano. Il mio lavoro è delicato; può sembrare vigoroso, ma è delicato. La vera forma è delicata. In esso cʼè tutta la mia vita, e tutta la mia vita è femminile”.

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