La Sceneggiatura di “Youth” di Paolo Sorrentino (RECENSIONE)
Un giorno esatto dopo l’uscita in tutt’Italia del fortunatissimo Youth di Paolo Sorrentino, la Rizzoli ha pubblicato la sceneggiatura integrale del film. La scelta è inusuale, anzi rara, ma ha dei precedenti. Anche se la maggior parte delle sceneggiature di grandi film messe in commercio (quelle di Pasolini, quelle di Fellini e quelle di Visconti, ad esempio) sono per lo più state pubblicate molto dopo la lavorazione dei film.
Una delle prime cose che, anche ingenuamente, colpiscono quando si prende in mano la sceneggiatura di Youth è la confezione, il prodotto editoriale. È un libro con la copertina rigida, in brossura, non un paperback, ha le pagine di una carta bianchissima e resistente: è un libro insomma molto migliore di tanti altri, anche classici, fra quelli venduti in edizione economica.
Il prosaico dettaglio colpisce perché va assolutamente contro quel che noi outsider del mondo del Cinema ci immaginiamo essere una sceneggiatura. In quanti film che esplorano il mondo del cinema si vede un Hitchcock o un Peter Sellers ( si pensa rispettivamente al biopic su Grace Kelly e a quello sullo stesso Sellers) che sbattano sul tavolo una serie di fogli ciclostilati, magari scritti a macchina e lievemente rovinati?
Questo per dire che la sceneggiatura dovrebbe essere di solito uno strumento di lavoro -anche per un regista, come Sorrentino, che ha all’attivo due romanzi- non un prodotto letterario finito. Sull’ipotetica domanda “la sceneggiatura può definirsi in sé un prodotto letterario a sé stante?” c’è fra l’altro una breve polemica fra Pasolini e Moravia nella rubrica Il Caos in cui, seppur con eleganza e benevolenza nei confronti del caro amico, Pasolini rivendicava una certa letterarietà delle sue sceneggiature.
Su questo crinale ambiguo- ma per questo interessante- vale la pena di studiare e leggere la sceneggiatura di
Youth, che potrebbe dirci varie cose su vari argomenti, alcuni molto generici, per esempio: che cosa significa il fatto che una cosa ha un valore letterario? E altri più specifici: che cosa capiamo di più del film di Sorrentino leggendolo? Facendo un confronto fra il testo scritto e il testo filmico possiamo capire qualcosa in più di questo regista? Cominciamo.
Diciamo subito in verità che le linee tracciate dai due testi (film e libro) non sono molto diverse, il libro segue il film quasi pedissequamente, cosa che non accade sempre, anzi quasi mai, nella produzione di un audiovisivo. Ci sono delle piccole variazioni: per esempio l’emissario che deve convincere il personaggio di Caine a tornare a dirigere è il primissimo personaggio che viene introdotto, mentre invece nel film c’è, in apertura, un numero musicale.
È poca cosa, però rivela un primo dato: rispetto a come il film sembra essere stato immaginato sulla carta, nella sua realizzazione si presenta ancor più diluito, ancor più puntellato da scene slegate, che mortificano la linearità del racconto, più chiaro nel libro rispetto al film, infatti alcune delle trovate e delle epifanie che troviamo nel film qui mancano (non tutte, eh: solo alcune).
Ma la cosa che colpisce con più nettezza, in questo senso, è che passando dallo schermo alla pagina, tutte le immagini strambe e i siparietti cui ci ha abituato il cinema recente di Sorrentino perdono quella che con un termine preso dalla linguistica si potrebbe definire una forza “perlocutiva”. Spieghiamoci meglio: c’è una scena in cui Fred e Mick passeggiano su di una stradina di campagna e il personaggio di Keitel parla di quando ha imparato ad andare in bicicletta, e subito compare un bambino che fa il cavallo con una mountain bike su una ruota sola.
Quando Sorrentino introduce la cosa nel libro dice cose come “ed ecco che compare…” e poi “ …Fred e Mick l’osservano sbigottiti”: sono piccoli segni, ma sufficienti a poter dire che molte delle immagini che compaiono nel film -con la loro totale gratuità- nel libro vengono introdotte, spiegate, e in vari punti l’autore si premura (retaggio dell’aspetto funzionale della sceneggiatura) persino di spiegare il senso e il tono che un’immagine deve avere: “questo personaggio ci sta simpatico”, “da questo dettaglio capiamo che adesso succederà…”, sono brevi momenti che da un lato rompono la finzione narrativa e dall’altro rivelano la natura intertestuale del prodotto che stiamo consumando, dischiudendo l'intento dietro l'immagine. Ciò spiega molte cose.
La prima è l’interessante e del resto fisiologica differenza fra i due linguaggi, nonché tra l’intento comunicativo della
sceneggiatura e la sua effettiva realizzazione sullo schermo. Per molti versi si potrebbe dire che la sceneggiatura è un'ottima cartina per orientarsi nella mente del regista, per ritrovare esplicitata la coerenza che ha cercato di dare al film. Sorrentino ha spesso detto che preferisce scrivere i film che dirigerli e questo è evidente dal fatto che nel libro della Rizzoli, se viene letto attentamente, ritroviamo qualcosa di molto meno aperto all’interpretazione, qualcosa di molto vicino alla fantasia primigenia che ha strutturato la storia, i nuclei visivi di fondo sono saldati assai meglio fra loro e il racconto risulta molto più compatto e lineare.
Questo è interessante se si considera che da vario tempo alcuni dei più importanti critici italiani obiettano a Sorrentino una svolta, nel suo modo di sceneggiare, che tende a mortificare del tutto le lunghe sequenze, rendendo il grosso del film un insieme poco coeso di siparietti epifanici più o meno slegati: questa svolta risale a L’amico di famiglia e si è sempre di più acuita fino a La grande bellezza.
Il modus operandi di Sorrentino, questo gusto per barocchismi a volte cheap altre volte più riusciti, che hanno fatto coniare ad un critico francese l’espressione, dispregiativa, per cui “Paolo Sorrentino sta al cinema come il Rondò Veneziano sta alla musica classica” appare, leggendo il testo, molto più chiaro e comprensibile nella misura in cui è collocabile in un’idea di racconto cinematografico che si è andata imponendo non solo in Sorrentino, ma sul mercato cinematografico internazionale.
Non è del resto un mistero che il suo cinema sia un tentativo di conciliare influenze diverse e che fino a un ventennio fa avrebbero fatto a pugni, influenze che gli provengono dal cinema di genere americano- industriale- e il cinema d’autore tradizionale del nostro paese, cinema da cui il regista preleva arbitrariamente e ludicamente stilemi in modo spesso decontestualizzato, inserendoli in una struttura filmica che, quando funziona (come in questo caso) appare molto convenzionale e hollywoodiana; ma subito non funziona -come nel caso dl La Grande bellezza– quando prova a costruire una forma più lasca e sperimentale.
Questo perché comunque, nonostante il fatto che spesso gli ultimi film di Sorrentino mortifichino i dialoghi e la sintassi del film (non Youth, in verità: la scena con Jane Fonda ci mostra che Sorrentino può essere ancora un buon dialoghista), l’ossatura profonda dei suoi film rimane la sceneggiatura, che si può leggere veramente come una sorta di luogo innocente in cui questo Golden Boy cova e lascia “fermentare” i nuclei visivi profondi dei suoi film prima di trasporli in quella sorta di terribile macchina, espressivamente potente e per ciò spaventosa che è il cinema. Un cinema che con tutto il suo pesante apparato industriale ha trascinato un po’ nel suo tritacarne il talento più genuino di Sorrentino, lo ha semplificato, rendendolo da un lato più accessibile al grande pubblico e dall’altro incapace di quell’equilibrio formale, naturale, che aveva probabilmente nei primi film.
Veniamo alla questione del “valore” letterario. Sorprendentemente, leggendo il testo, confezionato come un libro,
stampato con la carta pregevole di cui abbiamo parlato prima, si ha l’impressione di avere a che fare- a tratti- con un vero e proprio racconto : certo il paragone con opere letterarie estremamente strutturate e lavoratissime dal punto di vista narrativo lo vedrebbe schiacciato, del tutto perdente come oggetto dal potenziale affabulatorio. Si pensi a come è costruito bene il nuovo libro di La Gioia o ad altri scrittori italiani di enorme valore come Busi o Siti, che la nostra opinione pubblica purtroppo non conosce bene quanto i registi.
La verità è che però ormai la produzione media dei testi letterari in commercio si è appiattita molto sul cinema, incidendo tantissimo sulle potenzialità narrative che i testi letterari ereditavano da circa due secoli di romanzo Italiano, europeo e americano. Inoltre molti libri di autori italiani (penso a De Luca e Baricco, ad esempio) che vendono bene e che passano per punti di riferimento letterari, hanno ormai da tempo deliberatamente ignorato la complessità e la ricchezza di tessuto di ciò che vuol dire scrivere un libro; questo testo, il testo romanzato della sceneggiatura di Youth, è quasi migliore di tali tentativi di semplificazione della struttura narrativa di un libro.
Questo lascia intuire una cosa interessante: per quanto siano due media diversi, il libro e il film non solo si sono influenzati a vicenda, ma in qualche misura godono di una sorte comune in quanto ultime due forme d’arte che si propongono come narrative in senso forte, e molte delle cose che un ipotetico severo lettore educato “sui classici” non accetterebbe mai se le trovasse scritte in un romanzo, le accetta volentieri al cinema, che è uno strumento in grado di semplificare molto l’universo della narratività e in qualche misura, per questo, di farla sopravvivere.
Consiglieremmo di leggere Youth nella versione “romanzesca” della Rizzoli, più che per il suo valore in sé, perché offre la possibilità di entrare nei meccanismi creativi del suo autore, permettono di capirlo meglio e “dall’interno” inquadrandone in modo interessante la parabola, che ha cercato in modo non sempre felice di conciliare lo stile cinematografico con la sua dimensione industriale e di mercato; è per questa ragione, non da poco, che ha diviso e crea conflitto fra cinefili, critici e spettatori specialmente in Italia: sperando che abbia gli anticorpi ( già Youth ce li fa intravedere) per ritrovare la strada di un maggior rigore.