La “Pasqua” degli antichi romani: il culto di Attis, la divinità che muore e si rigenera
I romani non celebravano la Pasqua, festività cristiana per eccellenza. Tuttavia fin dall'antichità l’eterno avvicendarsi di morte e rinascita sono stati costanti, in una cultura che sentiva profondamente il sacro legame con la natura e i suoi cicli: non è un caso che gran parte della simbologia che oggi caratterizza le nostre festività pasquali, dall'uovo al coniglio, venga proprio da lì. Ma c’è tutto un altro mondo fatto di leggende, culti misterici e rituali che abbiamo dimenticato: mentre in questo periodo noi celebriamo la Pasqua, a quali divinità guardavano gli antichi romani?
Fu più o meno a partire dall'epoca imperiale che i culti misterici si diffusero a Roma con più forza: con l’allargamento dei confini dell’Impero i romani entrarono in contatto con le popolazioni dell’Asia Minore, assorbendone usi, costumi e simbologie. È il caso, ad esempio, dell’antico culto legato ad Attis, alla sua morte e alla sua “resurrezione”. Insieme a quelli di Dioniso e Demetra, il culto misterico di Attis affonda le radici in una concezione mistica della natura e del legame dell’uomo con i suoi cicli: l’avvicendarsi delle stagioni, la rinnovata fecondità della terra e il fiorire della primavera avevano per gli antichi romani, e non solo, una forte carica simbolica in quanto manifestazioni del sacro.
Attis e l’amore non corrisposto di Cibele: il mito
Esistono molte versioni del mito di Attis, nato intorno al VII secolo avanti Cristo nelle regioni dell’Anatolia centrale e giunto a Roma circa cinque secoli dopo. Secondo la tradizione frigia la divinità sarebbe nata dall'unione di una ninfa fluviale con uno dei figli di Zeus, Agdistis: questi, ermafrodito a metà strada fra umano e divino, spaventava a tal punto gli dei dell’Olimpo da spingerli ad evirarlo per evitare che generasse figli altrettanto potenti. Da questa evirazione, compiuta da Dioniso, si generò l’albero del melograno: la ninfa Nana, mangiandone uno dei frutti, rimase incinta e diede alla luce Attis.
Bellissimo, Attis viene allattato dalle capre e cresciuto dai pastori dopo essere stato allontanato con la forza dalla madre. È qui che il mito di Attis incontra quello di Cibele, divinità altrettanto misteriosa e terribile, espressione dell’antitetica forza creatrice e distruttrice della natura. I due s’innamorano, e da questo amore nasce un figlio: un disonore troppo grande per la figlia di un re, il quale farà uccidere Attis lasciandolo insepolto. In altre versioni è la stessa Cibele, non corrisposta, a provocare la distruzione e la successiva rinascita dell’amato, che si evira con lo scopo di lasciarsi morire dissanguato.
Il Sanguem: rituale di morte e resurrezione
Le versioni del mito di Attis sono tantissime e diverse, ma una delle costanti della sua figura, oltre a quella di essere sempre associato al culto di Cibele, è quella della sua morte e “resurrezione”: almeno è questo il senso nascosto dietro al culto che nel I secolo avanti Cristo si diffuse a Roma con una serie di rituali misterici e soteriologici legati alla sua figura. Quello più famoso, e anche più “vicino” alla nostra Pasqua, è quello che si celebrava fra il 15 e il 28 di marzo: il Sanguem.
La rievocazione della morte e della successiva rigenerazione della divinità anche in questo caso è legata alla sacralità del ciclo vitale della primavera e a tutto l’universo di suggestioni che vedevano nella morte un’occasione di rinascita. Le festività per Attis duravano più di dieci giorni, e seguivano un rigido calendario di rituali: il primo giorno, attraverso la “benedizione” dei fusti di canna, si commemorava il ritrovamento di Attis bambino in un canneto.
Seguivano sette giorni di digiuno, in attesa del giorno in cui celebrare la morte della divinità: venivano tagliati dei pini, alberi che nella tradizione romana erano simboli del dio, che venivano deposti ai piedi dell’altare della dea Cibele. Le cerimonie culminavano con il Sanguem vero e proprio, ovvero con la commemorazione dell’evirazione del dio attraverso i sacrifici dei sacerdoti, che si ferivano intenzionalmente per spargere sull'albero sacro il proprio sangue. Il 25 marzo il dio si rigenerava: a questo punto i rituali di contrizione lasciavano il posto a processioni gioiose e piene di vita, al limite dell’orgiastico, per celebrare la primavera e l’avvenuta rinascita.