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La neuroscienza entra nel romanzo con “La coscienza di Andrew” di E. L. Doctorow

La coscienza di Andrew, romanzo del maestro americano E. L. Doctorow, è un esempio di come la filosofia della scienza influisca sul romanzo. Era accaduto tra Freud e i surrealisti, col modernismo, e in tempi più antichi. Oggi la letteratura si appropria, grazie alle neuroscienze, di un nuovo concetto di coscienza che la modifica dall’interno.
A cura di Luca Marangolo
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La coscienza di Andrew è il nuovo romanzo di E. L. Doctorow. Stiamo parlando di un veterano, uno scrittore che in America tengono in grande considerazione e che da noi invece non è quasi conosciuto, o letto: la stima di cui gode in patria è pari, per fare un parallelo, a quella di De Lillo e Burroughs. Da un suo romanzo, Ragtime, un grande talento come Milos Forman ha tratto uno dei suoi film più riusciti; ma a parte questo Doctorow ha firmato più titoli osannati dagli intenditori come capolavori, perché in grado di penetrare lo Zeitgeist in cui sono stati scritti.

Ma basta con elogi facili come “il migliore” o “il più grande”, ciò che attrae di Andrew’s Brain (titolo  inglese) è il fatto che sia romanzo sperimentale di un narratore di ottantaquattro anni. Lo status di questo scrittore, il suo essere ormai un talento celebrato e consacrato, stride in modo molto felice con la considerazione che –a detta di tutti gli osservatori- questo romanzo è quanto di più diverso da ciò che Doctorow abbia mai scritto. Se si apre il libro, dopo poche pagine di narrazione sincopata si comprende subito una certa tendenza alla innovazione narratologica, al voler uscire fuori dai canoni della struttura narrativa convenzionale.

Si inizia con un dialogo fra due persone che parlano di una terza, Andrew, poi d’improvviso la terza persona con cui si esprime la voce narrante principale diventa un Io, e di lì capiamo che la distinzione fra la prima voce, la seconda voce, e Andrew, non è poi così marcata. Ma non preoccupatevi, non c’è nessuno spoiler: questa singolarità narrativa, l’oscillare imprecisato dello statuto del narratore dell’io narrante, quello che Genette chiamava il simulacro dell’enunciazione, è solo la premessa con cui si apre La coscienza di Andrew. Che è poi la storia di un neuroscienziato in crisi esistenziale, con un passato fitto di drammi, incastonato nella fosca atmosfera post-undici Settembre.

Un’operazione simile la troviamo forse nel Sosia di Dostoevskij, che è in verità solo l'epifenomeno più estremo di come tutta la poetica di Dostoevskij sia un tentativo di demolire il concetto di coscienza inteso come interiorità, come un dentro e fuori, scomponendola-negli altri romanzi- in un sistema polifonico. E non è un caso che un’esperimento come quello di Dostoevskij, così come quello altri temporalmente vicini- anche se non esattamente coevi-  come Ulysses o Le Onde, in cui l’io si confonde con gli impulsi che vengono da fuori, dal contesto, siano accomunati dall’essere espressione di rivoluzioni scientifiche che hanno messo chiaramente le barriere culturali che definiscono l’orientamento della psiche: come non ricordare, a questo punto, il magistrale saggio di Noah Lehrer Proust era un neuroscienziato.

Solo che è improbabile che Doctorow ambisca a fondare un nuovo modernismo, non lo è di fatto, modernista. La sua potrebbe essere semplicemente una rappresentazione della nostra coscienza in una condizione culturale – quella che indubitabilmente viviamo oggi- in cui la metafora dell’interiorità sembra essere poco utile, sembra essere vecchia.

Le possibiltà mediali cui ci espone la comunicazione contemporanea, il fatto che si sia amplificato e intensificato enormemente il feedback costante fra la funzione culturale che immette informazioni nel nostro cervello – ad esempio il giornale online che state leggendo, il news feed di Facebook, e tante amenità informatiche che ormai saturano il quotidiano- e invece la funzione che le riceve (quella che Aristotele chiamò per primo “Anima”) ha prodotto, forse, in un romanziere, come accadde a Dostoeskij, l’esigenza di forzare la struttura del suo testo poetico, per avvicinare i due lembi.

Non una sperimentazione ‘d’avanguardia’, al contrario un semplice risultato del fatto che la Weltanschauung culturale è mutata: che insomma l’idea di narrazione debba  -debba e possa- in un certo senso adeguarsi alla impostazione del mondo circostante. Sembra un passo in avanti in termini di consapevolezza, se si considera che gli studi più importanti sul modernismo, penso a Franco Moretti e Umberto Eco, hanno dimostrato che anche lo sperimentalismo più sfrenato di Joyce aveva una radice molto precisa nel rapporto fra la percezione estetica e la sua cultura e condizione sociale.

La riarticolazione dell’io che da tempo stanno conducendo le neuroscienze penetra, con il romanzo di Doctorow, prepotentemente nella prosa del mondo. La vita moderna acquisce dunque un punto di vista ubiquo che possa consentire di amplificare la sua visione su problemi romanzeschi eterni, comuni un po’ a tutta la tradizione del realismo serio.

Un tale stato di cose pone degli interrogativi intriganti: quanto la struttura finzionale, e dunque mimetica, della narrazione confina con il mimetismo in senso biologico, cioé con la nostra capacità di confonderci, sovrapporci con gli impulsi che invia l’ambiente? Una domanda del genere potrebbe risultare oziosa, adesso, ma in un futuro, in cui la tecnica incida ancora di più sullo statuto della narrazione, e di ciò che vuol dire ascoltare una storia, non è detto che sia peregrina.

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