La morte di Emmanuel tra retorica virtuale e violenza reale
La morte di Emmanuel Chidi Namdi ha provocato un’onda d’indignazione sui social network, soprattutto su Facebook che è il principale veicolo dell’opinione pubblica virtuale nazionale. Riporto alcuni post che sono apparsi sul wall della mia home page.
I pensieri sono in maggioranza di donne. La provenienza geografica dei commentatori è varia: Campania, Toscana, Puglia, Emilia Romagna, Sicilia. I profili professionali sono diversi: tre giornalisti, una sindaca, una docente universitaria, una sindacalista, un esponente del terzo settore, un avvocato.
Il sentimento prevalente è la vergogna. Si chiede agli italiani di condannare l’atto brutale razzista compiuto ai danni di una coppia che aveva già subito i lutti dei conflitti nigeriani e che pensava di aver raggiunto un posto dove vivere in pace.
Dalla vergogna, secondo la teoria della sociologa Gabriella Turnaturi, può scaturire l’orgoglio del riscatto: «La vergogna della diseguaglianza, che nasce dal disconoscimento di diritti universali e ha i diritti come suo oggetto, nasce intrecciata non all’invidia, ma all’indignazione… Questo comporta che si provoca vergogna, quando nelle nostre società contemporanee e democratiche quella dignità e quella percezione di sé come persona sempre e comunque degna viene attaccata e nullificata».
«Questa modernissima vergogna della diseguaglianza è la vergogna di essere etichettati, osservati, ma anche deprivati di diritti appartenenti alla stessa società. Chi è oggi vittima di ingiustizie, di pratiche di umiliazione, di sopraffazione, di ogni forma di abuso si vergogna… ci si ribella proprio per non subire più la vergogna di essere considerati non cittadini, persone prive di diritto e non eguali. Perché il rispetto di sé nelle società moderne e nelle democrazie è inscindibile dalla sicurezza dell’essere eguali agli altri e dall’esercizio dei propri diritti. Ribadire l’eguaglianza diviene una componente sempre più significativa nella costruzione di sé e della propria autostima. Il rifiuto della rassegnazione, la scelta di usare i propri diritti, diviene un modo di pretendere rispetto dagli altri che attribuiscono lo stesso senso alla dignità e al far parte di un insieme sociale».
Si tratta, tuttavia, di una pulsione che riguarda una minoranza attiva, non certo la maggioranza passiva. Questo è tipicamente italiano non viceversa. Viviamo nel paese in cui furono promulgate le leggi razziali e, qualche anno dopo, quando si trattò di combattere i fascisti, che quelli leggi avevano voluto e applicato, fu sempre una minoranza a imbracciare i fucili. Anche trent’anni più tardi, quando la Repubblica dovette affrontare la sfida terroristica della lotta armata, fu lo Stato, nella sua forma repressiva, ad a difendere la maggioranza della società civile inerme e incapace di reagire. E ancora, dopo l’esplosione di Tangentopoli, le stragi di Capaci e Via D’Amelio (1992) e quelle di Roma, Firenze e Milano (1993) fu in ogni caso una minoranza a scendere in piazza rivoltandosi contro la partitocrazia e lo stragismo mafioso.
Se non si ha coscienza di questo, non si ha coscienza di ciò che è il nostro paese come risultato di un lungo divenire storico, all’interno del quale il fascismo ha avuto ed ha il suo peso, nonostante sia passato quasi un secolo dalla sua affermazione. Inoltre, scrivere «mi vergogno di essere italiano» significa, paradossalmente, richiamare un’origine etnica proprio quando questa sta diventando la radice dell’odio in un mondo in cui l’appartenenza nazionale non ha più senso. A mio avviso è cittadino italiano chiunque osservi la Costituzione e le sue norme, perché in quella Carta sono sanciti i principi che, se rispettati, porrebbero fine ai vaniloqui sulla razza. Quel testo fu scritto per non avere più paura del futuro, per garantire una stagione di pace e prosperità in cui ognuno trovasse un posto grazie ai diritti e alle libertà garantite da valori umanitari inossidabili.
Poi ti capita di vedere sotto gli occhi un testo, come tanti, postato in memoria del povero Emmanuel: «Domenica allo stadio tutti a sfogare/ frustrazioni accumulate in settimane ad obbedire/ obbedire ad un potere strumentale al capitale/ tutto il giorno sissignore mi dispiace ho fatto male/ Cala la notte e messe a posto le cartelle/ reggono i calzoni con due comode bretelle/ si rasano la testa l’anfibio bene in mostra/ coltello nella tasca e incomincia la giostra/ Drogato negro, frocio comunista pervertito/ terrone punk’ a bestia sadomaso travestito/ è inutile nasconderti sarai individuato/ e nel cuore della notte sarai sprangato».
Ti lasci prendere la mano e cominci a pensare che sia proprio così: sport e violenza, nelle curve italiane, sono sinonimi e quell’ambiente sta diventando l’incubatore dell’odio nazionale, di impulsi irrefrenabili in cui il razzismo etnico, religioso, sociale, culturale, civile e persino economico si confonde con la bandiera di una squadra la cui fede viene prima del Tricolore. Del resto, l’attuale presidente della Federcalcio, giusto due anni fa, accusava le società italiane di ingaggiare giocatori extracomunitari (riferendosi evidentemente a quelli di colore) che prima mangiavano banane (quindi scimmie) e oggi giocano in serie A.
Ti accorgi, però, che in quei versi, citati per sottolineare le rovine morali di una nazione spaventata dalla globalizzazione, c’è qualcosa di sbagliato. Inserisci il testo su Google e ti rendi conto che si tratta di un pezzo di “Rigurgito antifascista” dei 99 Posse, preso in prestito per esprimere uno stato d’animo.
Niente di male, se non fosse che il brano si chiude con questa frase: «per questo chi mi ascolta non mi darà torto/ l’unico fascista buono è il fascista morto». Questo è l’esatto opposto di ciò che afferma la nostra Costituzione, è un richiamo primordiale alla violenza ideologica, è un alimento per quanti non vogliono altro che menare le mani per sentirsi vivi, pur opponendosi al fascismo e prendendo le parti dei più deboli. Ad essere sinceri, per me, non è italiano né la bestia che ha ucciso Emmanuel, né quelli che sostengono: «C’ho un rigurgito antifascista/ se vedo un punto nero ci sparo a vista».
Per quanto mi riguarda non ho nulla di cui vergognarmi, perché la mia stella polare è l’articolo 3 della Costituzione: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». È questo che ci rende italiani, in quanto cittadini della Repubblica, non il fascismo, né la violenza del «rigurgito antifascista». La domanda è: quelli che conoscono e rispettano l’articolo 3 della Costituzione sono maggioranza o minoranza nell’Italia del 2016?